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Autore: Il_Signore_Oscuro    15/10/2016    3 recensioni
Ragnar'ok Wintersworth un giorno sarà l'Eroe di Kvatch, colui che salverà Tamriel dalla minaccia di Mehrunes Dagon, principe daedrico della distruzione, con il fondamentale aiuto di Martin Septim ultimo membro della dinastia del Sangue di Drago. Ma cosa c'è stato prima della storia che tutti noi conosciamo? Chi era Ragnar prima di essere un Eroe? Lasciate che ve lo mostri.
[PAPALE PAPALE: questa storia tratterà delle vicende di Ragnar. Non sarò fedelissimo al gioco ma ne manterrò le linee generali, anche se alcuni avvenimenti saranno cambiati o spostati nel tempo. Non ho altro da dirvi, se non augurarvi una buona lettura!]
BETA READER: ARWYN SHONE.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Eroe di Kvatch, Jauffre, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Chapter four – Goodbye White Oak.

Quella mattina fui svegliato dal cigolare delle ruote di un carro, trasportava i nastri e gli addobbi che avrebbero decorato la Grande Quercia di Chorrol.
Era un giorno di festa in tutta Tamriel: il 30 di Gelata, il compleanno del nostro amatissimo imperatore Uriel Septim VII. Nelle città dell’impero si riversavano i mercanti erranti provenienti da ogni dove, recando con loro leccornie e cianfrusaglie di ogni genere.
Nelle piazze si organizzavano balli e concerti che duravano per tutta la notte, fra vino, idromele e risate. Nelle cappelle delle grandi città i guaritori concedevano benedizioni a tutti, dal nobile al popolano, senza richiedere alcun compenso.
Persino i Conti e le Contesse di Cyrodill, di solito arroccati nei loro castelli, scendevano in strada per farsi partecipi della grande festa (seppur accompagnati da una folta scorta di uomini armati).
Così, con tanto fasto e rumore, un uomo passava da un’età all’altra, acclamato da tutte le genti, mentre io compivo i miei sedici anni in sordina, nella mia stanza fra le mura della tenuta di Arborwatch.
Da bambino avevo l’illusione che tutto questo festeggiare fosse dedicato a me, essendo venuto al mondo proprio il 30 di Gelata, e giravo entusiasta per Chorrol: chiedendo questo o quel balocco a mia madre, che mi accompagnava per mano fra le bancarelle.
Adesso quelle convinzioni infantili erano svanite e mi accontentavo di sapere che le uniche persone a ricordarsi del mio compleanno, e non solo di quello dell’Imperatore, fossero quelle a me più care.

Mi alzai dal letto, stiracchiando i muscoli ancora intorpiditi dal sonno. Ormai avevo la statura e la stazza di un vero Nord ed ero già più alto della maggior parte dei miei concittadini. Scesi le scale, raggiungendo la sala da pranzo dove mia madre stava mangiucchiando qualcosa per colazione, con davanti una tazza ancora fumante di una strana bevanda, diffusasi solo negli ultimi anni: la chiamavano caffè, si ricavava dai semi di certe piante: questi semi venivano pestati, miscelati con acqua e alcuni aromi, per poi essere riscaldati per alcuni minuti e filtrati. Alcuni ritenevano che fosse dotata di proprietà magiche, che berne una tazza allontanasse il sonno e desse un’immediata carica di energia.
Non sapevo se fosse vero o solo una diceria, ma quel gusto intenso e un po’ amarognolo mi piaceva e non mancavo di berlo ogni mattina, prima di sbrigare le mie commissioni.

Quando mi vide arrivare in sala da pranzo, mia madre mi stampò un bacio sulla fronte, stringendomi forte forte fra le braccia esili. Gli anni l’avevano cambiata, sia fuori che dentro: pur rimanendo ancora una bella donna, sul suo corpo si facevano evidenti i segni dell’età che avanzava: aveva piccole rughe intorno alla bocca e agli occhi; nella folta chioma bruna, debolmente legata da un nastro rosso, si intravedevano i primi sottili filamenti d’argento.
Il suo carattere era rimasto forte, eppure aveva intervalli di dolcezza: una dolcezza malinconica, che quando sovveniva anch’io, che ero suo figlio, stentavo a riconoscerla. Questo mutamento latente del suo carattere aveva iniziato a presentarsi da quando Lucien ci aveva lasciato: era rimasta segnata da quell’evento, per lei fu come perdere un figlio (infondo ci aveva cresciuti entrambi) e non avere neanche l’occasione di dirgli addio doveva averla ferita nel profondo, pur sapendo ciò che aveva fatto.
Le avevo tenuto nascosta la faccenda della Confraternita Oscura, non ritenevo necessario che soffrisse ancora e quel peso potevo sopportarlo da solo
Mia madre mi carezzò il viso, velato di una sottile barba ispida.
-Sedici anni, il mio bambino ormai è diventato un uomo! Auguri amore. – Disse, stampandomi un altro bacio, sulla guancia stavolta.
-Grazie, mamma. – Risposi, un po’ imbarazzato da tutte quelle premure.
-Vuoi mangiare qualcosa? C’è della frutta o dei biscotti secchi, li ha portati stamattina la signora Motierre, la vicina. È proprio una cara donna e poi suo figlio Francois è un amore. C’è anche del caffè, attenzione che scotta però.
-Prenderò del caffè, grazie. – Mi sedetti e allungai una mano per prendere la caraffa, quando mi arrivò un buffetto.
-Eh, no, caro mio. Faccio io.
-Mamma non c’è bis-
Mi fulminò con lo sguardo. Sì, forse era meglio ubbidire senza fare tante storie.
-Grazie, basta così. – dissi, quando la tazza fu piena per metà.
Sorseggiavo il caffè mentre lei mi guardava sorridente, masticando degli acini di uva fresca.
-Quando vorresti partire?
Si riferiva al viaggio per Cyrodill che avevo in progetto e che avrei intrapreso non appena avessi avuto l’età, l’idea di entrare nella Gilda dei Maghi non l’avevo mai accantonata del tutto in questi anni, anche se i miei obbiettivi adesso erano diversi.
-Pensavo di mettermi in cammino domani, giusto per godermi un po’ la festa in paese.
-Uhm, va bene – disse Brunja, nascondendo vanamente una precoce nostalgia – allora vai di sopra, preparati la sacca e vedi di portare solo lo stretto necessario. Quando hai finito scendi nello scantinato: ho un regalo per te.
-Che cos’è? – Chiesi, divorato dalla curiosità.
-Lo saprai quando lo vedrai. Ah, quasi dimenticavo: nel pomeriggio non dimenticarti di passare dalla Gilda dei Guerrieri, ho convinto Oreyn a tenere aperto apposta per te, così puoi firmare le carte per l’iscrizione.
Mordryn Oreyn era il Dunmer che si occupava della burocrazia all’interno della Gilda, parallelamente allo svolgimento dei contratti, roba come addestramento dei nuovi adepti, inventari e carte da compilare; insomma tutta quella parte noiosa da cui la Donton si teneva lontana. Anche in un gruppo di mercenari al servizio dei cittadini di Cyrodill c’era bisogno di organizzazione, infondo non poteva essere tutto avventure e battaglie.

Vuotai la tazza tutta in un sorso, rischiando di ustionarmi la lingua tanto era bollente, e salii le scale di fretta.
Quando entrai in camera mi guardai attorno, cercando di scegliere cosa mi sarei portato dietro nel viaggio che mi aspettava. Fosse dipeso da me, mi sarei portato tutto ciò che c’era in quella stanza: dal soldatino di legno, usato come soprammobile, fino all’ultimo dei miei libri. La mia libreria era strapiena: dopo la partenza di Lucien mi ero impossessato dei libri che si era lasciato dietro e li avevo piazzati in camera mia; non so bene il perché, forse per coltivare l’illusione che in qualche modo fosse ancora con me. All’inizio li sfogliavo semplicemente, poi cominciai a leggerli, uno dopo l’altro, scoprii che mi piacevano e li lessi tutti, dal primo all’ultimo: a partire da “Un Anuad per bambini” continuando con la “Biografia di Vera Barenziah”, fino ad arrivare ai tomi con il titolo graffiato: pagine e pagine che parlavano di Daedra, Negromanzia, vampiri, licantropi e tanto altro. Dei vampiri qualcosa la sapevo già, avendo letto e riletto “Sangue Immortale”, il quale raccontava la storia di un cacciatore di queste creature ( e che le combatteva a mani nude!) che finiva per essere ucciso proprio da un vampiro, celatosi sotto mentite spoglie.
Probabilmente era una storia vera, scritta da un autore anonimo, ma a quel tempo per me era solo un racconto appassionante con cui trascorrere le lunghe ore di noia.
Dopo le prime esitazioni, comunque, iniziai a fare una cernita di ciò che mi sarei portato dietro: presi una tunica da notte, il pugnale che usavo per la caccia agli imp e ad altre piccole creature, un paio di libri (fra cui l’immancabile “Sangue Immortale”), alcune pozioni comprate da Angalmo qualche giorno prima e una cote per riaffilare le lame smussate. Scelsi di non portarmi dietro ricambi, avendo abbastanza septim da potermi comprare nuovi vestiti ovunque fossi andato, all’ovvia condizione che non fossero stati troppo costosi. La roba che avrei lasciato ad Arborwatch la riposi nei bauli che avevo sotto il letto, era inutile lasciarla lì ad occupare spazio. Ciò che avevo scelto di portarmi, invece, lo ficcai nella sacca, lasciando fuori solo il pugnale e le fiale di pozione, che avrei riposto rispettivamente nel cinturino e nelle tasche dei vestiti. Finita di preparare ogni cosa diedi un ultimo sguardo alla mia stanza, provando una sensazione strana nel vederla così vuota, per poi richiudere la porta alle mie spalle. Mia madre mi aspettava nello scantinato con il suo regalo, un’idea su cosa potesse essere ce l’avevo ma nonostante ciò non potei nascondere la commozione, quando nel doppio fondo di un baule, sotto un manto in pelliccia d’orso, trovai esattamente ciò che mi aspettavo: la spada di mio padre, inserita in un fodero d’ebano pregiato.
Quell’arma era tutto ciò che mi legava a Skyrim e alla mia natura di Nord, insieme col sangue. La sfilai con delicatezza, l’elsa era anch’essa in legno pregiato, con il pomo che ricordava una zampa di lupo e il viso d’una creatura dalle fattezze demoniache inciso sulla coccia: lungo la lama l’acciaio era stato piegato più e più volte, percorso com’era da venature biancastre e da una vena scarlatta che si inerpicava sino alla punta, sul piatto della spada erano incise parole di cui non comprendevo il significato, doveva essere una lingua molto antica, carezzavo le lettere in rilievo mentre la voce di mia madre, dietro di me, recitava:
-“Io sono Durendal, lì dove discendo il sangue mi accoglie”. – Seguì un istante di silenzio. – Tuo padre mi mostrò per la prima volta questa spada la notte in cui ti concepimmo, giaceva nel letto insieme con noi. Credo che in qualche modo tu sia sempre stato destinato ad averla.
Non riuscivo a parlare, avevo le lacrime agli occhi e le parole di Brunja, tremanti nella nostalgia di un vecchio amore, non facevano che accrescere la mia commozione. Posai Durendal con rispetto e abbracciai mia madre, asciugandomi le lacrime fra i suoi capelli, lasciando che i singhiozzi mi scuotessero la gola. Lei mi consolò, come quando ero bambino, carezzandomi le spalle per poi tirarsi da parte e tenermi il viso con entrambe le mani.
-Promettimi che farai attenzione figlio mio, che non smetterai di inseguire i tuoi sogni, qualsiasi cosa accada.
-Te lo prometto, madre. Ti renderò fiero di me!
-Sono già fiera di te. – Sorrise, calcandomi gli zigomi con i pollici. – Lo vedo nei tuoi occhi, tu sei destinato a grandi cose Ragnar, non può essere altrimenti.
Mi stampò un ultimo bacio sulla fronte. Il tempo di piangere era finito, non ero più un ragazzino, adesso ero diventato un uomo: mi ricomposi, asciugandomi gli occhi umidi con le mani.

I violini cominciarono a suonare, accompagnando le danze intorno alla Grande Quercia, avvolta di nastri bianchi e rossi che da un ramo si incurvavano verso l’altro, salendo sempre più in alto. Sui balconi venivano stesi gli stendardi del Dragone, simbolo della casata Septim.
Ai balli partecipò persino la Contessa Valga, mentre il marito la osservava, serio e tutto d’un pezzo, seguito come sempre dalla serva Redguard, giovane e dalle belle forme scure.
Intorno alla Cappella di Stendarr i venditori ambulanti avevano aperto le loro bancarelle, disponendo su lunghe tavole di legno le loro merci: esotici profumi, spezie piccanti di Elseweyr, portagioie e soprammobili di ogni forma e dimensione, marionette e soldatini di legno intagliati a mano, spettacoli di saltimbanco provenienti da ogni dove. Un gioco sinestetico di colori, voci, odori, luci e sensazioni che rianimava la vita quotidiana di una qualche strana e particolarissima magia, che andava a creare un qualcosa di unico, qualcosa da ricordare.
Questa sfida ai sensi si placò quando la Cappella aprì i battenti per accogliere chiunque desiderasse ricevere le benedizioni o le cure dei guaritori, concesse gratuitamente per grazia dell’Imperatore Uriel Septim VII. In file lunghissime si alternavano esemplari umani, e non, di ogni ceto sociale ed estrazione: nobili annoiati, mercanti timorati degli dei, vecchi macilenti e mendicanti che evocavano una certa compostezza, nelle loro vesti di stracci, grigie e maleodoranti.
Nelle locande, intanto, si aprivano le botti con le migliori annate di vino e idromele, la birra scorreva a fiumi fra canti da osteria e cozzare di boccali, l’uno contro l’altro.
Bevvi qualche sorso di idromele alla Quercia e il Pastorale prima di raggiungere Mordreyn Oreyn alla Gilda dei Guerrieri, per firmare le carte necessarie all’ingresso nei ranghi.

Aveva la pettinatura più strana che avessi mai visto: una tonsura, come quella dei monaci di Weynon, sovrastata da una lunga cresta nera. Pensai fosse una sorta di acconciatura tribale tipica di Morrowind, terra di origine dei Dunmer (chiamati anche Elfi Oscuri). Sul suo viso, di un grigio scuro, risaltavano i penetranti occhi scarlatti della sua razza. La sua voce era forte, autoritaria, quella di un capo, ma un capo che sentivi sarebbe sceso in battaglia con te, pronto a offrire la sua vita per la tua, invece di dare semplicemente ordini dall’alto. Mi ispirava una fiducia e una stima che avevo provato raramente verso qualcuno.
-Bene, ragazzino. La tua fedina penale è illibata e questo mi basta per dire che sei il benvenuto nella Gilda. Vitellus mi ha parlato molto bene di te.
-Quindi è tutto in regola, bene. – Dissi, soddisfatto.
-Adesso firma queste scartoffie, così posso tornare a bere: c’è un boccale pronto per me alla Giumenta Grigia e non intendo farlo attendere. Per i contratti dovrai recarti a Cheydinhal o ad Anvil, potresti trovare qualcosina pure a Skingrad ma non ti assicuro nulla. È un periodo un po’ di magra.
-Come mai? – Chiesi, mentre mettevo l’ennesima firma, intingendo la penna d’oca nel calamaio.
-La Compagnia di Blackwood, – sbuffò, stizzito – bastardi. Vogliono fregarci il lavoro! Ma, infondo, un po’ di sana competizione non può farci che bene, magari smuoviamo un paio di culi mosci in questa Gilda.
Sorrisi, mentre apponevo l’ultima firma.
-Finito, ecco qui. – Soffiai sull’inchiostro per farlo asciugare.
-Perfetto.
Mordreyn controllò velocemente le carte, le risistemò e le posò sulla scrivania.
-Vai avanti tu ragazzino, chiudo io la baracca.

La festa riprese nel pomeriggio e continuò fino a notte fonda, ininterrottamente, quando la gente esausta ritornò a casa, magari barcollando per aver esagerato col vino. Prima di ritornare ad Arborwatch decisi di fare una capatina al Priorato, per rivedere Jauffre e informarlo della mia partenza, prevista per il giorno dopo. Fu contento di potermi salutare e mi fece anche un regalo: una mappa di Cyrodill, con la posizione delle città principali e dei luoghi che era consigliabile esplorassi. Nel darmela mi disse qualcosa che non avrei mai dimenticato, che sul punto quasi mi commosse “Perché tu possa tener sempre a mente dove vai e non scordare mai da dove sei venuto”.
Ero nato a Skyrim, il trenta di Gelata di sedici anni fa, ma era il Priorato, era Chorrol il luogo che potevo davvero chiamare casa. Il luogo dove chi mi era caro era pronto a riaccogliermi a braccia aperte. Lì ero cresciuto, lì ero diventato l’uomo che ero e nulla avrebbe mai cambiato tutto questo, qualunque cosa i fati avessero avuto in serbo per me, io avevo una certezza, avevo un luogo a cui poter ritornare. Prima o poi avrei rivisto la quercia bianca sulle porte, sugli stendardi blu che svettavano ai pennacchi delle torri, avrei rivisto gli occhi bruni di mia madre, così simili ai miei e avrei saputo che appartenevo a loro e loro sarebbero sempre stati parte di me.

Il mio compleanno volgeva ormai al termine, passando in sordina nella mia stanza ad Arborwatch, con i regali che avevo ricevuto, proprio accanto al mio letto: lo scudo incantato che mi aveva dato Vitellus, le pergamene magiche di Angalmo e gli stivali di Seed-Neeus “con la sorpresa dentro” (dovevo ancora capire a cosa si riferisse). Ero stanco e felice, il sonno ormai vinceva il mio corpo ma prima … prima di svanire nei sogni, il mio ultimo pensiero andò a Lucien: rividi il suo volto, lo vidi sorridere e il sonno mi avvolse.


Note dell'autore

Qui si conclude la prima parte di "Oblvion: the story of the Hero of Kvatch (Prologue)", d'ora in avanti le cose si faranno un po' più movimentate, vi avverto. Scusatemi se il capitolo è stato un po' noiosetto ma era necessario che scrivessi un "ponte" e se lo avete attraversato con me, beh, vi ringrazio. Spero la storia vi stia piacendo, un ringraziamento speciale va' al mio fedelissimo recensore QWERTYUIOP00, a Helmyra costante confronto in materia di scrittura e idee e in ultimo (ma non per importanza) a deianirarouge il cui sostegno e affetto vanno ben oltre questa storia, pur rimanendo fondamentali per la stessa. Un grazie anche ai lettori silenziosi che mi seguono, sperando che prima o poi diano voce ai loro pensieri, così che possa ascoltarli :)

Un abbraccio,
NuandaTSP.
   
 
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