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Autore: Adeia Di Elferas    17/01/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bartolomeo d'Alviano aveva visto le sue truppe darsi allo sbando senza riuscire a far nulla per evitarlo.

Affiancare Cesare d'Aragona, andando in aiuto di Brindisi, era stata una decisione forse troppo azzardata. Il marito di Bartolomea Orsini aveva agito solo per onor di bandiera e perché il napoletano gli aveva offerto una grossa somma, ma sapeva che era prematuro cercare di annientare i francesi.

Fabrizio Colonna aveva colpito senza alcuna pietà, cercando di ottenere quel poco che ancora poteva guadagnare dalla sua alleanza con re Carlo, e così Bartolomeo non solo aveva perso il suo esercito, ma anche la faccia.

Mentre riparava assieme a Cesare d'Aragona, conducendo i pochi soldati rimasti in un punto abbastanza sicuro, Bartolomeo si ripropose di non fare più nulla, almeno fino a che non fosse stata la Lega creata dal Moro e dal papa a ordinarglielo.

Se sua moglie era stata abbastanza abile da far passare gli Orsini dalla parte del giusto al momento buono, ora lui non doveva per alcun motivo peccare di fretta.

 

Il 20 maggio Carlo VIII di Francia fu costretto a lasciare Napoli, dopo essersi fatto incoronare suo re.

Se i nobili parevano essersi in qualche modo abituati a lui, il popolo partenopeo aveva alzato la testa e aveva deciso di reagire, come a volersi liberare da solo dallo straniero.

Al grido di 'Ferro! Ferro!', sotto le insegne che riportavano il simbolo di Ferrandino d'Aragona, i napoletani invasero le strade e, bando a ogni paura, costrinsero con la forza i soldati di Carlo VIII a scappare.

Il re avrebbe ben potuto ordinare ai suoi di attaccare la popolazione e la città con l'artiglieria, ma si rendeva conto del fatto che sarebbe stata solo una perdita di tempo e uno spreco di energie.

Doveva lasciare l'Italia al più presto, senza dare altro tempo agli italiani di organizzarsi. Aveva preso quel che poteva prendere, dunque non aveva altri motivi per restare. Ora la cosa più importante era riuscire a ripercorrere a ritroso almeno una delle due strade usate per scendere al sud.

Con la flotta fuori uso, poteva solo sperare di non incorrere in grosse battaglie prima di raggiungere il confine.

In ogni caso, non voleva restare un giorno di troppo in Italia. Non si fidava più di niente e nessuno, ormai. Il Duca d'Orléans lo aveva ben messo in guardia su Ludovico di Milano e su tutti gli altri, ma re Carlo si era fatto convinto che nessuno di loro, alla fine, avrebbe avuto il coraggio di rivoltarglisi contro. E invece lo avevano fatto eccome.

Per quanto quella penisola fosse bella e ricca, il suo problema, secondo il francese, erano i suoi abitanti. Troppo irruenti per essere comandati e troppo indolenti per comandare.

Mentre lasciava alle sue spalle le porte di Napoli, re Carlo si voltò un istante, mentre nelle orecchie ancora sentiva il coro di migliaia di voci gridare: “Ferro! Ferro! Ferro!” e pensò che l'Italia e gli italiani potevano anche impiccarsi con un metro di corda, per quello che gliene importava.

 

“E Gonzalo Fernandez – spiegò Luffo Numai, concludendo – è appena arrivato in Calabria per restaurare Ferrandino e scacciare i francesi che si erano stanziati in quella zona.”

“Direi che ormai sarà chiaro anche a Carlo di Francia.” disse Ludovico Ercolani, prendendo la parola per primo.

“Che cosa, esattamente?” chiese Alberigo Denti, dall'altro capo del tavolo.

“Che l'Italia finalmente si è unita per combatterlo!” esclamò Ludovico, che quel giorno era in Consiglio a parlare per conto di Ettore Ercolani.

Caterina stava osservando i suoi Consiglieri con una certa apprensione. Nessuno di loro sapeva che aveva già spedito a Milano due ambasciatori non tanto per congratularsi con Ludovico Sforza, quanto per convincerlo a tenere Imola e Forlì lontane dalla guerra.

Gli animi accesi e il fervore che si respirava a palazzo quella mattina le fecero capire che pressoché tutto il suo Consiglio sarebbe stato favorevole a un ingresso dello Stato nella Lega, se non altro per una questione di orgoglio.

“Tutti uniti, come un sol uomo – cominciò a dire Francesco Numai, cercando con lo sguardo l'approvazione di Luffo suo parente – sconfiggeremo i francesi e li ricacceremo da dove sono venuti! Pagheranno per tutto quanto!”

Luffo Numai, che sapeva come la pensava la sua signora, fece del suo meglio per non lasciar trapelare nulla dai suoi occhi, tanto che si mise a compilare uno dei suoi taccuini, giusto per non dover più sostenere lo sguardo di Francesco.

“Pagheranno per tutto!” fece eco Ludovico Ercolani: “Per Bubano! Per Mordano!”

Il Consiglio parve esplodere a quelle parole e più di un membro si alzò dal proprio scranno per incitare i vicini e gridare la propria ferma decisione di far patire ai francesi le pene dell'inferno.

Perfino Ottaviano si permise di mettersi in piedi e caldeggiare quelli che lo circondavano, seppur con minor convinzione rispetto agli altri.

Solo Caterina, Luffo Numai e il Barone Feo non si mossero e non dissero nulla.

Quando la calma tornò nel salone, Francesco Numai si schiarì la voce e domandò, credendo di indulgere in una mera domanda di prammatica: “Mia signora, avete già fatto ratificare il nostro ingresso nella Santa Lega?”

La Contessa sospirò pesantemente e stava per rispondere, quando Giacomo parlò prima di lei: “No, non è stato ancora ratificato nulla.”

La risposta del Barone congelò l'aria e i Consiglieri, perfino quelli più scalmanati, vennero ridotti a un silenzio tombale, attoniti e confusi.

L'unico, tra quelli che aveva festeggiato fino a un momento prima, che sapeva all'incirca cosa sarebbe stato detto era Ottaviano. Pur mantenendo i lineamenti del proprio viso distesi e impassibili, il Conte si sentì pervadere da una gioia furibonda. Aveva capito che lo stalliere stava parlando al posto di sua madre solo per difenderla, ma poco gli importava. Anche se quell'uomo sapeva avere certi riguardi, restava uno scarafaggio da calpestare ed eliminare. E prendendosi anche quella colpa non sua, non stava facendo altro che accelerare la sua fine.

“È mia opinione – disse Giacomo, appoggiando i palmi delle mani al tavolo e alzandosi appena dalla sedia – che sia meglio per le nostre terre restare neutrali e tanto faremo. La Contessa ha dato fiducia al mio consiglio e dunque così è stato deciso.”

Caterina guardò impotente i suoi Consiglieri esplodere di insoddisfazione e incredulità e finse di non sentire i più accesi – in primis Ludovico Ercolani e Filippo Delle Selle, che aveva sostituito Giovanni, partito per Milano assieme ad Antonio Baldraccani – che si lasciarono andare anche a qualche impropero e aperta offesa a Giacomo.

“La verità – inveì Ludovico Ercolani, alzando ancor di più la voce – è che voi siete un servo di quel maledetto francese perché vi ha fatto Barone!”

Giacomo allora scansò la sedia con un colpo secco delle gambe e puntò minacciosamente l'indice contro il Consigliere: “Come osate parlarmi così?!”

“Il re di Francia era nostro alleato fino a ieri...” la voce di Luffo Numai, un po' spenta, era comunque stata udita da tutti e così i toni si smorzarono per un po', in modo da lasciarlo continuare: “Credo sia lecito avere delle perplessità a muovergli guerra, entrando in una Lega che ha come dichiarato scopo quello di non lasciarlo tornare vivo in Francia.”

Per qualche istante parve che le parole accorte dello stimato Numai avessero fatto una certa impressione sui presenti, ma in realtà non bastarono a placare gli animi eccitati dei Consiglieri.

“La verità è che abbiamo in casa una spia dei francesi!” accusò senza tante cerimonie Filippo Delle Selle.

“Badate a voi...!” ribatté Giacomo, aggirando parte del tavolo, fino a mettersi a un millimetro dal naso di Delle Selle, che lo guardò comunque con occhi di brace.

“Non negate! Pretendete anche che vostro figlio venga chiamato Carlo!” sbottò Ludovico Ercolani, andando accanto al Delle Selle per dargli manforte contro il Barone Feo.

“Perché siamo stati alleati fino a oggi!” si difese Giacomo, paonazzo: “Non ha senso metterci contro di lui! Carlo di Francia non ci ha mai mancato di rispetto!”

“Certo...!” sbuffò divertito Filippo Delle Selle, per nulla impensierito dalla stazza del Vicesignore di Imola e Forlì: “Tanto che per proteggerci dalle scorribande dei suoi abbiamo dovuto far chiudere le porte della città come se ci fosse ancora la peste!”

“E poi cos'è questa storia perniciosa, che fino a ieri era nostro alleato? Dovrebbe forse essere un ostacolo? Anche Ferrandino d'Aragona era nostro alleato, eppure ci siamo messi contro di lui senza dargli nemmeno un preavviso! Perché adesso dovremmo fare in modo diverso?” domandò Giorgio Castellini, allargando le braccia.

Ottaviano parve in procinto di dire qualcosa e Caterina comprese con uno sguardo che le sue parole sarebbero state solo come fascine di legno gettate su un fuoco appena acceso. Voleva stroncare sul nascere ogni sua possibile partecipazione a quella zuffa indegna e voleva anche evitargli di prendere una posizione troppo decisa di cui poi si sarebbe potuto pentire.

Se il Conte si fosse espresso in modo diretto a favore di un loro ingresso in guerra o avesse accusato Giacomo di aver in qualche modo forzato la scelta verso la neutralità, era probabile che nessuno avrebbe potuto impedire al Consiglio di mettere la questione ai voti.

A quel punto, con che faccia si sarebbe potuto ignorare il responso diretto dei Consiglieri del popolo?

“In quel caso era stato Ferrandino a rompere per primo i patti che ci rendevano alleati.” disse Caterina, apparentemente molto calma.

Sentendo la voce della Contessa, che fino a quel momento aveva preso parte pressoché solo con qualche sguardo e spostandosi sul suo scranno a dimostrazione a volte di disaccordo, a volte di plauso, i Consiglieri si zittirono tutti insieme.

“Re Carlo non ci ha dato veri motivi per metterci contro di lui. E comunque, la pace è fondamentale per le nostre terre. Non possiamo sperare di sopravvivere solo grazie al commercio con Firenze.” spiegò Caterina, mentre Giacomo tornava a sedersi accanto a lei, accaldato e con le guance ancora arrossate.

Qualcuno parve ritrovare un po' di ragione e si udirono alcuni bisbigli in linea con il pensiero della Contessa.

“Non prenderemo parte a nessuno scontro, se non ne saremo costretti.” fece Caterina, le punte delle dita giunte e lo sguardo al legno scuro del tavolo: “Gli uomini ci servono nei campi e nelle botteghe, non chissà dove a morire per un motivo così stupido. La Lega non ha bisogno di noi.”

Quella lapidaria conclusione lasciò tutti senza parole. Anche quelli che avrebbero voluto continuare la discussione si stavano trovando d'accordo con la Contessa sul fatto che lo Stato non si sarebbe potuto permettere una partecipazione effettiva a una guerra di quella portata.

“Il Consiglio si riaggiornerà domani.” annunciò Cardella, dopo che Caterina gliene diede il permesso con un cenno del capo.

Per la prima volta da che i Consiglieri avevano memoria, la Contessa fu la prima a lasciare la sala del Consiglio, seguita a ruota dal Barone Feo e da Luffo Numai. Dopo un paio di minuti, anche il Conte Ottaviano lasciò il suo scranno e seguì i primi tre.

Qualcuno la imitò, muto e pensoso, mentre qualcun'altro indugiò più del dovuto.

Ludovico Ercolani si avvicinò con aria circospetta a Filippo Delle Selle e, guardandosi attorno un momento, gli disse, a mezza bocca: “Non mi volevo convincere, ma adesso inizio a credere che abbiate ragione.”

L'altro, che stava rimettendo alla rinfusa i documenti che aveva portato con sé nella sua cartella di cuoio, lo fissò un istante, come incerto se fidarsi o meno.

Sapeva che gli Ercolani avevano dimostrato un certo interesse per il piano propugnato dal Conte Riario, ma da lì ad ammettere che il piano fosse reale e pronto a essere messo in atto, ce ne passava.

Bisognava stare attenti. Le spie del Feo potevano essere dovunque, il Conte lo aveva detto di continuo.

Tuttavia Ercolani aveva attaccato fieramente il Barone, durante il Consiglio e non aveva mai dimostrato per lui una grande simpatia.

Dunque Filippo Delle Selle preferì essere cauto, ma non negare del tutto la cosa: “Io credo di aver ragione su molte cose, quindi dovreste essere più specifico.”

“Quell'uomo – disse con rabbia malcelata Ercolani – le sta facendo fare quello che vuole lui.”

Filippo notò un lampo di genuina indignazione nell'altro Consigliere e così, mentre tutti gli altri andavano alla porta, chiuse la sua cartelletta di cuoio e lo invitò a seguirlo.

“Una guerra non è mai auspicabile – continuò Ludovico, assecondando il passo dell'altro, mentre raggiungevano l'ingresso – ma non sarebbe catastrofica come sostiene lei. È ovvio che quell'uomo la sta forzando per far sì di non perdere il favore di re Carlo, che gli ha dato un titolo.”

Delle Selle abbozzò un sorriso: “La penso esattamente come voi. Vi interesserebbe parlarne con altri amici che hanno la medesima visione della situazione?”

Ludovico sentì una spiacevole morsa alla bocca dello stomaco, come se da quella risposta potesse dipendere non solo la sua fortuna e il suo futuro, ma tutta la sua vita e quella dei suoi cari.

Alla fine, mosso dal vivo desiderio di liberare la Contessa Riario dalla morsa sempre più evidente di un incapace, annuì: “Non chiedo di meglio, amico mio.”

 

Lo sfarzo sfoggiato alla festa per l'investitura ufficiale di Ludovico Sforza come nuovo Duca di Milano era senza precedenti.

Ogni angolo della città era addobbato a festa e non c'era un dettaglio che fosse sfuggito alla precisa e meticolosa attenzione del domine magister Leonardo.

Dopo i santi uffici in Santa Maria, il Moro si prestò al rito più atteso appena fuori dal portale della chiesa.

Sopra a una grandissima e stupenda tribuna eretta per l'occasione, tutta coperta di raso cremisi ricamato in modo da sembrare adornato con foglie di gelso, vennero letti i privilegi del Duca, che venne subito dopo ornato coi segni del potere: la berretta, lo scettro e il mantello.

Il pubblico presente era pressoché composto tutto da nobili e cortigiani. I cittadini comuni erano pochi, e se ne stavano un po' in disparte. In molti lanciavano occhiate indecise, scettiche o anche apertamente ostili a quel nuovo signore di Milano che, per quanto si poteva capire, era molto prodigo di nuove tasse e poco avvezzo ai bagni di folla, se questa folla era composta da gente comune.

Giasone Del Maino, poi, giurista per eccellenza, fece l'orazione in favore del nuovo Duca e le sue parole vennero accolte da tiepidi applausi, che però a Ludovico parvero scroscianti.

Solo Beatrice, con indosso una turchesca di finitura finissima e dai colori sgargianti si accorse del vero stato d'animo che serpeggiava tra i milanesi presenti alla cerimonia. Solo Giovan Francesco Sanseverino batteva le mani con entusiasmo, probabilmente ancora fin troppo grato al Moro per il favore che gli aveva dimostrato.

Quando Del Maino lasciò il palco, tutti quanti si spostarono a Sant'Ambrogio, per poi raggiungere, sotto un sole già caldo, il palazzo di Porta Giovia, dove si tennero i festeggiamenti più terreni.

Ludovico si lasciò trascinare nell'allegria e nel lusso di quella giornata. A palazzo il banchetto fu il più sontuoso che si fosse mai tenuto a Milano e le rappresentazioni allegoriche messe in piedi da Leonardo erano indimenticabili, tanto che la Festa del Paradiso, che aveva accompagnato le nozze del povero Gian Galeazzo, era stata in confronto una pagliacciata da guitti.

Gli ambasciatori della Contessa Sforza Riario presero parte a tutte quante le iniziative proposte quel giorno e si congratularono centinaia di volte con il Duca di Milano, che, su ordine di Beatrice, aveva offerto loro grandi sorrisi e parole gentili, tralasciando le espressioni corrucciate e le frasi taglienti che avrebbe preferito rivolgere loro in memoria dei grattacapi che sua nipote gli aveva sempre dato.

Quella notte il palazzo si addormentò molto tardi. L'aria profumava di primavera e gli invitati alla cerimonia che si erano trattenuti come ospiti erano ancora troppo inebriati dal vino e dalla musica per riuscire a restare svegli fino all'alba.

Solo una luce fioca era ancora accesa, nel cuore della notte. Nella sua stanza, l'ambasciatore ferrarese Trotti si stava lasciando andare ad amare considerazioni da includere nella prossima lettera diretta al suo padrone.

Anche se il figlio di Ercole Este, Alfonso, era stato accolto come un principe e aveva subito trovato il suo buon posto nelle schiere milanesi, Trotti non era sicuro del ruolo che Ferrara avrebbe avuto in quella guerra.

Più che altro, le sue perplessità riguardavano la stabilità del governo del Moro. Il nuovo Duca aveva imposto tasse su tasse, non badando al malcontento popolare e isolando sempre di più la classe nobiliare da quello che era lo Stato reale. Beatrice, poi, non aveva fatto altro che istigarlo a proseguire su quella retta e lo aveva aizzato prima contro Napoli e poi contro la Francia, convincendolo a cominciare una guerra dopo l'altra, senza badare ai costi in termini economici e umani.

Mentre ricordava con apprensione i visi scialbi e oscurati dal risentimento dei milanesi che aveva visto quel giorno fuori da Santa Maria e da Sant'Ambrogio, il Trotti intinse la punta della penna nell'inchiostro e scrisse, ordinato e preciso: 'Questa città sta pessimamente contenta di Sua Signoria e del governo suo, per storcer denari da chi ne ha e da chi non ne ha!'.

Per un attimo si chiese se quel punto esclamativo avesse reso troppo aggressiva la sua valutazione, ma poi si disse che era suo dovere come ambasciatore e fedele suddito di Ercole Este dire le cose come stavano e farlo con rigore e senza inesattezze.

Si chiese se fosse anche il caso di citare i due ambasciatori forlivesi che aveva incrociato quel giorno. Sapeva quasi per certo che avevano un appuntamento con il Duca fissato per il giorno appresso, ma forse era meglio attendere di saperne di più.

Tutti quanti davano per scontata la partecipazione della Tigre di Forlì alla guerra contro Carlo VIII, tanto che molti generali stavano pensando di bloccare re Carlo proprio in Romagna, facendo affidamento sull'appoggio logistico della Contessa Riario.

Trotti, però, aveva letto nella presenza di quei due uomini, notoriamente fedelissimi alla loro signora e abilissimi nelle loro ambascerie, la chiara intenzione di ritrattare la propria posizione.

Se la Tigre volesse star fuori dalla Lega, sfuggendo la guerra, o se semplicemente volesse degli accordi preferenziali per guadagnarci di più, era ancora impossibile saperlo.

Lasciando la lettera in uno dei cassetti con serratura della scrivania, Trotti accese una seconda candela e prese uno dei libri di lettura con cui si dilettava nelle lunghe sere in cui i suoi pensieri lo lasciavano insonne.

E quella notte di pensieri ne aveva a iosa, giacché quale che fosse il futuro, non era difficile immaginare che sarebbe stato tutt'altro che roseo.

 
   
 
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