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Autore: Adeia Di Elferas    23/01/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quando tutti gli ospiti di quella sera si furono sistemati nella sala adibita ai banchetti più importanti, Caterina diede il permesso al cerimoniere di far entrare Astorre Manfredi.

Le famiglie nobili di Forlì attendevano con ansia il momento di conoscere il signore di Faenza, perché, essendo ormai lui lo sposo ufficiale dell'unica figlia femmina della Contessa, avrebbe potuto influenzare molto, in futuro, le politiche dello Stato dei Riario Sforza.

Bianca, seduta eccezionalmente alla destra della madre, era la più tesa di tutti. Suo fratello Ottaviano non aveva voluto parlarle del giovane Manfredi e nessuno le aveva riferito alcunché su quello che era diventato suo marito grazie a una cerimonia per procura.

L'unica cosa che quel giorno la Contessa si era premurata di ricordare alla figlia era stata l'assoluta precarietà di quel contratto di matrimonio.

“Se sapremo gestire bene la situazione – le aveva detto, cercando di rassicurarla circa il futuro – se necessario potremo disfare tutto.”

Così, quando Astorre, vestito con abiti rifiniti in filo d'oro, entrò nel salone fiancheggiato da una manciata di nobili cavalieri di Faenza, Bianca allungò un po' il collo e strinse gli occhi alla luce delle tante candele che illuminavano il banchetto, cercando di vedere prima degli altri almeno i tratti somatici del suo sposo.

Manfredi sorrideva, questo fu il primo dettaglio che saltò agli occhi della ragazzina, tuttavia bastò qualche metro di vicinanza in più per spegnere in parte la sua benevolenza nei confronti del bambino. Gli occhi di Astorre erano spenti, come due pezzi di vetro. Anche se le sue labbra volevano trasmettere uno stato d'animo lieto, le sue iridi chiare lasciavano trasparire tutt'altro.

“Mia signora – fece il decenne, inchinandosi davanti alla Contessa che si era alzata per rendergli gli omaggi – mia adorata sposa...” proseguì, rivolgendosi a Bianca, che, arrossendo per essere all'improvviso al centro dell'attenzione, fece una brevissima reverenza e poi tenne lo sguardo basso, mentre il bambino proseguiva coi saluti a tutti quelli che stavano al tavolo d'onore, Barone Feo e Conte Riario in particolare.

Quando Caterina diede il permesso all'ospite d'onore di sedersi accanto a Bianca, la ragazzina dovette reprimere un moto di ribellione. Sperava che Astorre sarebbe stato più lontano da lei, quella sera, in modo da poterlo studiare con un certo distacco. Averlo al fianco sarebbe stato decisamente più difficile.

In realtà, per gran parte del banchetto, il giovane faentino non aprì bocca. Si limitò a ringraziare per l'ospitalità e a fare i complimenti per l'ottimo cibo.

Solo quando le portate si fecero più rade e si cominciò a intravedere il momento delle danze, la Contessa trovò il modo di far parlare un po' il bambino, più per fare un favore alla figlia Bianca, che friggeva silenziosamente di curiosità, che non per reale interesse.

“Come avete trovato la nostra città?” chiese Caterina, appoggiando il coltello al tavolo e lasciando che uno dei servi le versasse ancora un po' di vino.

Manfredi si passò, per la prima mostrando apertamente agitazione, le piccole mani sulle cosce inguainate da strette brache di velluto, e disse: “Molto bella, mia signora.”

“Conosco Faenza – riprese la Contessa, mentre accanto a lei Giacomo fingeva grande interesse per le chiacchiere di Luffo Numai, seduto poco distante – è una città incantevole e la sua corte dicono sia molto interessante.”

Astorre ringraziò con un cenno del capo e poi aggiunse, senza ombra di accusa, forse parlando liberamente per la prima volta da che aveva messo piede a Forlì: “In effetti la corte di Faenza è molto elegante, mentre per quel poco che ho potuto vedere questa è assai più rustica.”

Caterina restò colpita da quella frase e anche Bianca alzò gli occhi verso lo sposo, incredula dinnanzi a quella che dai più sarebbe stata presa come un'offesa.

“Lo dicevano in molti anche di quella di mio padre, il Duca di Milano.” concesse invece la Contessa, con una mezza risata: “Si vede che è un vizio di famiglia, dare questo tratto alla corte.”

Astorre parve imbarazzato e accettò con sollievo l'arrivo della prima portata di dolci.

Di soppiatto, Bianca riuscì a scambiare un'occhiata con la madre, cercando di capire che ne pensasse lei di Manfredi. La Contessa, però, con il suo sguardo lasciò intendere che non era poi così male e che in giro c'era di peggio.

“Assomigliate in modo sorprendente a vostra madre.” disse Caterina, ad Astorre, a banchetto terminato, mentre la sala veniva preparata per le danze.

Conosceva Francesca Bentivoglio e, anche se da anni non l'aveva più vista, ricordava molto bene il suo viso e anche il suo atteggiamento e poteva rivederli entrambi in quel bambino.

Nel sentir nominare la madre, Astorre cambiò leggermente espressione. I suoi occhi ancora infantili si fecero appena più duri, assumendo una limpidezza molto particolare che fece venire un brivido a Caterina.

Però la Contessa cercò di tenere la calma e si disse che voleva vedere le cose storte anche dove erano dritte e che quella luce le aveva fatto quell'impressione solo perché aveva bevuto un po' troppo e si era lasciata influenzare dal ricordo di Francesca Bentivoglio.

Non poteva davvero essere la stessa lucida follia della madre, a scorrere anche nel figlio.

“In proposito – disse il bambino, scostando da sé il piatto mentre i servi ritiravano le stoviglie – vi devo porgere i suoi ringraziamenti per quello che avete fatto per lei quando si è trovata in pericolo.”

Caterina si pentì di aver evocato la Bentivoglio e con lei il fantasma di Galeotto Manfredi, tuttavia vide anche come l'argomento avesse acceso l'attenzione di Bianca e così lasciò che il giovane signore di Faenza continuasse.

Il bambino proseguì: “Il mio tutore mi ha raccontato molto volte del sacrificio che avete fatto, permettendo a un vostro uomo di fiducia di correre in nostro soccorso e so che la sua morte vi ha molto addolorata.”

La Contessa ricordò perfettamente la sensazione di tradimento che aveva avuto alla morte del Bergamino, e si chiese se il ragazzino che aveva davanti quella sera sapesse che quello sventurato episodio era stato da lei più volte usato per cercare di evitare o quanto meno ritardare le nozze tra lui e Bianca.

“Anche se non è servito a molto – disse Astorre – almeno il vostro aiuto l'ha aiutata a non farsi condannare a morte.”

Siccome i musici avevano lasciato intendere di essere pronti, la Contessa ne approfittò all'istante per scusarsi con Manfredi e alzarsi per annunciare l'inizio delle danze.

Essendo di fatto un banchetto organizzato per festeggiare le nozze tra Astorre e Bianca, Caterina invogliò la figlia a raggiungere il centro della sala assieme al signore di Faenza per inaugurare il ballo.

La ragazzina accettò a malincuore, ma, quando il suo sposo bambino si inchinò davanti a lei, mentre veniva intonato l'inizio della prima melodia, cercò di mostrarsi quanto mai lieta.

Astorre era molto più basso di lei e, se Bianca aveva già le forme, seppur acerbe, di una donna, il suo sposo era ancora un fanciullo sotto ogni aspetto.

Dopo pochi istanti, con grande sollievo della figlia della Contessa, anche altri convitati cominciarono a danzare, e in tal modo l'attenzione venne in parte sviata da lei e dal suo cavaliere.

Astorre, malgrado la giovane età, si dimostrò un ballerino abbastanza capace. I suoi gesti avevano la goffaggine intrinseca dei bambini, ma non stava sbagliando nulla e riusciva anche a bilanciare la differenza fisica che correva tra lui e la sua dama con una certa maestria.

Durante la seconda danza – si era deciso che Astorre e Bianca ne avrebbero ballate tre di fila – tra i due ci fu un momento di imbarazzo notevole. Era una ballata molto lenta e gli altri ballerini ne stavano approfittando per danze un po' più audaci del solito, mentre il signore di Faenza e la figlia della Contessa mantenevano le distanze, risultando un po' impacciati tanto nei movimenti quanto negli sguardi che si scambiavano.

Sfruttando la musica e la vicinanza, Bianca provò a intavolare un discorso, nella speranza sia di conoscere meglio Astorre, sia di spezzare un po' quel disagio che li permeava.

“Sono molto felice che il vostro Stato e quello di mia madre stiano trovando un alleato l'uno nell'altro.” fece la ragazzina.

“Anche io.” fece eco Astorre, lasciando spegnere l'argomento.

Al che Bianca provò con un'altra tattica: “Ho sentito dire che il vostro tutore è un uomo molto saggio, che vi sta istruendo a dovere sugli affari di Stato.”

“Sì...” la voce un po' acuta del bambino si fece più sottile: “Lui è stato molto buono con me, anche adesso che lei si è risposata. Posso vederla solo di rado, ma il mio tutore me lo permette ogni volta che è possibile.”

Bianca avvertì uno strano gelo su per la schiena. Aveva intuito che Astorre stesse parlando di sua madre, ma il modo in cui lo faceva aveva un che di inquietante.

“Lei si è risposata, sapete...” continuò il signora di Faenza, mentre la musica si affievoliva per lasciare il posto alla terza danza, l'ultima che Bianca avrebbe dovuto condividere per forza con lui.

“Lo so.” disse la ragazzina, incerta se fosse il caso di continuare o meno su quella linea.

“Lei ha ucciso mio padre – continuò Astorre, uno strano sorriso stampato sulle labbra, mentre il palmo della sua piccola mano toccava quello della sposa – e il primo ricordo che ho è il sangue di mio padre, e mia madre che mi tiene tra le sue braccia, mentre l'odore del sangue mi riempie le narici.”

Bianca non seppe come controbattere a quella rivelazione. Fece un paio di conti nella sua mente e si trovò a pensare che Astorre aveva più o meno due o tre anni quando Francesca Bentivoglio aveva assassinato il marito Galeotto Manfredi.

Il fatto che quello fosse il suo primo ricordo era allo stesso tempo agghiacciante e penoso e, in tutta franchezza, Bianca non sapeva come sentirsi.

“Voi ricordate quando vostro padre è stato ucciso?” chiese Astorre, di punto in bianco, stridendo con i tamburi che volevano dare alla ballata un tocco di vivacità in più.

La ragazzina ricordava perfettamente la sera in cui era morto suo padre e rimembrava pure tutto quello che ne era seguito, da quando sua madre aveva cercato di tenerli al sicuro nella sala del palazzo, a quando erano stati messi in cella, a quando, finalmente, lei e i suoi fratelli, sua zia e sua nonna erano stati liberati.

“Sì.” disse solo, sperando di sfuggire altre domande.

Astorre stava per continuare il suo strano panegirico, quando la musica si spense e Bianca ne approfittò al volo, sganciandosi da lui con una riverenza e andando al tavolo d'onore a prendere quasi di peso suo fratello Ottaviano.

Caterina aveva notato quella mossa così repentina e si era detta che probabilmente Bianca non voleva eccedere nelle confidenze con Astorre per tener fede al patto che si erano fatte. Pur dovendosi mostrare felice della visita del suo sposo, era necessario che non desse adito a troppi pettegolezzi.

Anche se Astorre era ancora un bambino, passato qualche anno non ci sarebbe voluto niente a ingigantire cose di valore nullo.

Ottaviano, che non aveva alcuna intenzione di ballare, accettò di malagrazia l'invito della sorella, sbuffando in modo evidente davanti agli ospiti più importanti.

Il Conte, il cui fisico era asciutto e slanciato com'era stato quello di suo padre, pareva già un uomo, accanto alla sorella di due anni più giovane.

Bianca, forse per la prima nella sua vita, si trovò ad apprezzare la fisicità del fratello, che le dava una grande sicurezza. Mentre cominciavano a muovere i primi passi in mezzo alla ressa di ballerini vestiti a festa, la ragazzina si sentì protetta dalle spalle larghe e dritte di Ottaviano e ne rivalutò l'importanza.

Anche se lui sapeva essere prepotente e sgradevole, era pur sempre suo fratello e Bianca sapeva che l'affetto che li legava era da sempre molto solido. Avevano passato assieme un'infanzia difficile, sotto molti punti di vista, divisi tra un padre corroso dalla follia e dalla paura e una madre distante che li aveva sempre accettati con fatica, avevano condiviso momenti drammatici e si erano trovati vicini alla morte più di una volta. Ciò che li univa era forte e, passando sopra alle differenze caratteriali, Bianca sapeva che sarebbe stata la loro unica possibile via di salvezza.

“Astorre è pazzo – gli sussurrò all'orecchio, mentre si avvicinavano alla metà della melodia – non so dirti in che modo, ma è pazzo.”

Ottaviano si scostò appena da lei, la guardò a lungo negli occhi, perdendo anche il ritmo della danza e concluse: “Ne sei sicura?”

La ragazzina annuì e, in tutta risposta, il fratello la strinse un momento a sé e poi continuò a ballare, come se non si fossero detti nulla di che.

 

Girolamo Savonarola, messo alle strette dal prossimo passaggio in Toscana di re Carlo e dalle insistenti voci che volevano il Fatuo in combutta con Rodrigo Borja, si decise a mettere un po' di carne al fuoco.

Da un lato, infatti, Carlo VIII aveva fatto capire molto chiaramente, passando da Roma velocemente e senza colpo ferire, di non aver alcuna intenzione di far del male ad Alessandro VI, tanto meno di volerlo deporre. Il tanto sospirato cambiamento in Vaticano era ancora lungi a venire e Savonarola poteva solo sperare di convincere il re di Francia parlandogli di persona, ma per farlo aveva bisogno di potere.

E qui si arrivava in automatico alla seconda questione. Se il Fatuo fosse davvero riuscito a ritornare in città spalleggiato dai francesi, allora per il domenicano non ci sarebbe stata più storia. I Medici si sarebbero riscoperti una famiglia unita e si sarebbero fatti forza l'un l'altro per scacciarlo da Firenze una volta per tutte.

Lorenzo, quello che chiamavano il Popolano, era troppo apprezzato dai fiorentini, per poter essere mandato via un'altra volta. In molti lo vedevano addirittura come un illuminato successore del Magnifico. Dunque Piero avrebbe solo potuto farsi amici i due cugini e usarli per riottenere il suo vecchio posto nella Signoria.

La sensazione che il re di Francia non avesse portato con sé le migliorie e le rivoluzioni che il domenicano aveva auspicato era sempre più tangibile e al frate fu sufficiente soffiare un po' sulla fiammella dell'insoddisfazione per scatenare i Piagnoni.

L'8 giugno, sotto un cielo coperto da nuvole chiare, gli Accoppiatori vennero fatti cadere. Il sistema amministrativo nuovo che avrebbero dovuto inaugurare venne dichiarato assurdo e fallito e i venti uomini in cui Firenze aveva tanto creduto vennero additati come inetti e quasi alla stregua di traditori della patria.

La confusione che seguì impose a Girolamo Savonarola di mostrarsi in pubblico brandendo il suo potere e la sua autorevolezza, sfoggiando la sua parlantina e mettendola al servizio dell'ordine pubblico.

Perfino i suoi oppositori più strenui si trovarono a dargli ragione, accettando con un tacito benestare quello che il domenicano aveva sempre voluto per Firenze: uno Stato teocratico e democratico, con lui stesso come unico padre costituente, giustiziere, riformista e riformatore.

Sotto gli occhi per il momento attoniti e impotenti dei due Popolani, Savonarola chiese e impose il suo governo a tutta Firenze e iniziò subito a promulgare leggi e revisionare conti e progetti.

In una sorta di esaltata dittatura, il domenicano bandì seduta stante tutte le feste private e ogni sfoggio di vanità. Scrisse riforme della morale, prima ancora di leggi che migliorassero la vita dello Stato e poi impose a tutti quanti un comportamento ferreo in materia religiosa e privata.

Impose ai suoi Piagnoni di accendere falò purificatori in ogni angolo di Firenze, invogliandoli con le sue accese prediche a mettere nel fuoco tutto quello che rappresentava la frivolezza e la pochezza dei divertimenti terreni.

Gli Arrabbiati, nel frattempo, ribollivano, ma a loro mancava una vera guida, dato che i Popolani per il momento tacevano, in attesa di eventi.

Re Carlo VIII sarebbe a breve passato dalla Toscana e allora Savonarola l'avrebbe incontrato. Dopo quel colloquio, Lorenzo e Giovanni avrebbero deciso che fare. Nel frattempo potevano solo cercare di mettere in salvo i quadri e le statue, prima che i Piagnoni li distruggessero con il fuoco del loro odio.

 

Nei giorni che seguirono al suo arrivo, Astorre Manfredi trascorse il suo tempo tra piacevoli distrazioni e lunghe cavalcate.

Bianca Riario non veniva mai lasciata da sola con lui, come la Contessa aveva specificatamente ordinato.

Quando era alla rocca, la ragazzina era fiancheggiata da Luffo Numai, che, con la scusa del suo ruolo di Consigliere, sollevava Bianca dall'impegno di parlare con Astorre impegnando il bambino in lunghi discorsi riguardanti Faenza e il governo presieduto, a tutti gli effetti, da Castagnino, il suo tutore.

Quando invece usciva dalla rocca, Bianca aveva accanto a sé Ottaviano, che aveva preso il suo compito, a quanto sembrava, molto seriamente.

I due fratelli Riario e il giovane Manfredi attraversavano spesso la città a cavallo, fermandosi di quando in quando a chiacchierare con la gente del luogo. In realtà era Bianca a volersi intrattenere ora con questo artigiano ora con quel bottegaio e lo faceva per imitazione, dato che in quei giorni anche sua madre si era messa a visitare spesso i forlivesi.

Giacomo Feo, forse vinto dalla vergogna, aveva ricominciato a dedicarsi ai lavori al fossato e così la Contessa aveva avuto più tempo per seguire altri affari e, ovviamente, dare un'occhiata, seppur da lontano, alla figlia. Ottaviano girava sempre armato, ma non aveva voluto con sé dei soldati di scorta, perciò la Contessa era sempre un filo in apprensione quando lo sapeva fuori con Bianca e Astorre.

Un pomeriggio, però, stufo di doversi fermare ogni cento passi per chiacchierare con gente che non sopportava, Ottaviano propose una cavalcata appena fuori dalle mura.

Bianca aveva accettato con un po' di riluttanza, mentre Astorre, con la solita galante apatia che ormai i Riario avevano imparato a sopportare, si lasciò condurre in campagna senza alcun problema.

Ottaviano, che nelle ore passate con il cognato bambino si era convinto che sua sorella avesse esagerato a chiamarlo 'pazzo', aveva deciso che fosse tempo anche per lui di staccare un attimo da quel tedioso obbligo.

Così, quando furono a uno dei casolari dopo le prime boscaglie, il Conte fece presente alla sorella che dentro una delle casupole poco lontane lo aspettava una donna, e, così dicendo, aveva augurato un buon proseguimento ad Astorre e aveva dato di sprone al cavallo.

Bianca aveva pregato Astorre di stare lì dov'era e aveva inseguito il fratello: “Ma che fai? Mi lasci da sola con lui?!” chiese, a voce bassa, ma con irruenza.

Ottaviano sbuffò e, tenendo le redini del suo baio, si voltò verso la sorella minore: “Dai, ho già pagato quella che mi aspetta, non stare a infastidirmi con queste sciocchezze... È un bambino di dieci anni! Saprai tenerlo a bada per un po', no?”

Bianca si sentì profondamente tradita e offesa da quella reazione e così minacciò: “Lo dico a nostra madre!”

Ottaviano forzò il suo cavallo ad avanzare verso quello di Bianca, tanto che le due bestie si trovarono a toccarsi: “No, tu non dici nulla a nostra madre.”

La voce del Conte era bassa e minacciosa. La ragazzina vi ritrovò quella del loro defunto padre, quando litigava in modo feroce con la loro madre.

“Almeno sbrigati.” ebbe il coraggio di dire, mentre gli occhi fiammeggianti di Ottaviano la squadravano come a volerla rimettere al suo posto.

Il ragazzo fece uno sbuffo e fece voltare di scatto il suo destriero, partendo rapido verso il casolare.

La figlia della Contessa Riario allora passò il tempo ad attendere accanto ad Astorre, che parlò pochissimo, e quel poco che disse riguardava o l'assassinio di suo padre o di quello di Bianca.

Quando finalmente Ottaviano uscì dalla casupola, assieme a una giovane donna che non doveva avere più di diciotto o diciannove anni, Bianca indusse il suo cavallo a raggiungere il fratello.

Il Conte lanciò una monetina alla donna, in modo tale che lei non riuscisse a prenderla e la fissò mentre si chinava a raccoglierla. Con una risata secca, Ottaviano diede un forte colpo al fondoschiena della poveretta per congedarla e le rivolse qualche parola volgare che fece vergognare Bianca, che pure non aveva udito l'intero discorso.

Mentre il Conte rimontava in sella e la donna si allontanava ricontrollando il soldo che aveva raccolto da terra, Bianca notò con la coda dell'occhio come Astorre non avesse avuto quasi nessuna reazione percettibile a quella scena.

La ragazzina trovava quanto meno avvilente il modo in cui suo fratello aveva trattato quella povera malcapitata e invece il signore di Faenza, suo marito, non aveva fatto una piega. Per lui, dunque, era normale veder trattare a quel modo una donna?

“Avanti, torniamo in città, prima che faccia buio.” ordinò Ottaviano: “Muoviti.” soggiunse, rivolto alla sorella, che non accennava a far partire il suo destriero.

Sentendosi sola e impaurita, Bianca si chiese che razza di uomo sarebbe diventato Astorre e, mentre il fratello guidava lei e Manfredi verso Forlì, cominciò a credere che sua madre avesse avuto un grande intuito, a creare un contratto tanto labile tra lei e quel bambino.

Ora doveva solo aspettare di vederlo ripartire per Faenza, senza creare incidenti diplomatici. A quel punto, con tutta calma, avrebbe convinto sua madre a sciogliere la loro unione non appena possibile.

 
   
 
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