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Autore: Laylath    18/02/2017    6 recensioni
(Seguito di Un anno per crescere).
Da quel fatidico anno che unì in maniera indissolubile un gruppo di ragazzi così diversi tra di loro, le stagioni sono passate per ben cinque volte.
In quel piccolo angolo di mondo, così come nella grande città, ciascuno prosegue il suo percorso, tra sorprese, difficoltà, semplice vita quotidiana. Si continua a guardare al futuro, con aspettativa, timore, speranza, ma sempre con la certezza di avere il sostegno l'uno dell'altro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 16. Gli avvenimenti di East City. Terza parte.

 


 
Heymans aveva dormito male quella notte: aveva passato diverse ore a rigirarsi nel letto e anche quando il sonno era arrivato era stato tormentato e ben poco riposante. Aveva accolto con piacere il momento della sveglia e aveva immediatamente aperto le imposte per permettere alla luce del mattino di allontanare gli ultimi residui di quella notte da dimenticare.
Se qualcuno gli avesse chiesto cosa aveva sognato non sarebbe stato in grado di rispondere: erano immagini confuse, così come le voci. L’unica cosa che gli era rimasta impressa era una sgradevole sensazione di incompiuto. Come se avesse cercato di risolvere un rompicapo senza però arrivare alla soluzione nel tempo a disposizione.
“Che faccia – commentò Arthur, quando lo vide scendere nella sala della colazione – dormito male?”
“Poco e niente e quel poco male” ammise il rosso, sedendosi al suo posto e versandosi un’abbondante tazza di caffè.
“Problemi con il pranzo per festeggiare Roy? – gli chiese l’altro, spalmando il burro sul suo pane tostato – a volte è quella la causa di un sonno agitato”.
“Ma no, lì è andato tutto bene e quel ristorante è ormai collaudato” Heymans allontanò quell’opzione con un gesto della mano.
No, ieri quello che l’aveva turbato tanto non era il pranzo con i suoi amici che, anzi, era andato più che splendidamente. Ciò che gli aveva procurato quella strana sensazione era quella ragazza con cui stava parlando Kain all’uscita della cerimonia. Non la conosceva, di questo era sicuro, eppure era stato come avere uno strano dejà-vu: come se quegli occhi grigi avessero avuto il potere di risvegliare in lui qualcosa.
Si era trattenuto dal parlarne con Kain durante il pranzo, del resto che cosa gli avrebbe potuto dire? Non aveva senso improntare un discorso su delle semplici sensazioni.
“… ti ho chiesto quali sono i tuoi impegni per oggi…” lo riscosse Arthur.
“Impegni? Ah già… beh, stamane ho intenzione di andare in biblioteca a studiare. Di pomeriggio riaccompagno Vato e la sua famiglia a prendere il treno e penso che mi farò un giretto assieme a Kain, più o meno siamo rimasti d’accordo così”.
“Ottimo, allora possiamo andare assieme in biblioteca”.
 
Fortunatamente Arthur aveva dalla sua anche una spiccata sensibilità, almeno quando voleva. Quindi, per quanto la maggior parte delle volte fosse sfacciato e poco propenso alla riservatezza, fu abbastanza accorto nel non indagare oltre sull’umore strano del suo amico.
Heymans fu profondamente grato di questa delicatezza: se c’era una cosa che detestava era quando qualcuno si intrometteva nelle sue riflessioni personali. In questi casi solo Jean poteva permettersi di intervenire, ma solo con determinate e collaudate dinamiche.
Dunque le ore della mattina passarono tranquille, con una parte della sua mente che studiava per l’esame del mese successivo e l’altra che continuava ad analizzare tutti i pezzi del rompicapo Erin, così Kain aveva chiamato quella ragazza. Proprio non riusciva a capire cosa potesse significare per lui: aveva anche ipotizzato che quello strano interesse poteva esser dettato dal fatto che era una novità vedere Kain intrattenere rapporti con degli estranei; tuttavia quest’ipotesi era stata ben presto scartata. No, Erin gli avrebbe procurato la medesima sensazione anche se l’avesse incontrata in un altro contesto, di questo era sicuro.
Colpo di fulmine? No, non mi pare proprio.
Non era tipo da innamorarsi in questo modo, anzi era più che mai deciso ad evitare una simile esperienza. Le cose rapide non gli piacevano per niente, specie nel complicato mondo dei sentimenti: gli era bastata l’esperienza che aveva portato alla sua nascita per farlo andare con i piedi di piombo nei confronti dell’amore.
Cercò di riportare alla mente il viso di quella fanciulla che aveva visto per nemmeno un minuto. Era carina, su questo non c’erano dubbi, anzi bella. Doveva avere più o meno la sua età e, a ben pensarci, era la prima volta che gli capitava di vedere qualcuno che avesse i colori della sua famiglia: il rosso di capelli non era molto comune in quella parte di Amestris. Sua madre gli aveva spiegato che gli Hevans, la sua famiglia d’origine, erano in realtà originari del distretto Nord, ma si erano poi trasferiti in quello Est circa due generazioni prima che lei nascesse.
Forse era stato questo che l’aveva impressionato in quella maniera, ma nel caso era davvero uno sciocco.
Non era stata certo prerogativa degli Hevans di trasferirsi da un posto all’altro.
Annuendo si disse che era proprio così e si dedicò totalmente al libro di giurisprudenza.
 
Quel pomeriggio, tuttavia, il rompicapo che credeva di aver risolto gli tornò improvvisamente tra le mani.
Dopo aver riaccompagnato Vato e la sua famiglia a prendere il treno, si concesse una passeggiata con Kain che, felice di quell’occasione, lo condusse in un particolare parco della città.
“Forse è un po’ tardi come orario – ammise il ragazzo, camminando verso un ponticello – speravo di trovarci Erin con i bambini, ma con tutta probabilità vengono solo di mattina”.
“L’hai incontrata qui?”
“Sì, ci porta i bambini di cui si prende cura: Eleanor avrà sui quattro anni, Eric è ancora più piccolo, infatti non parla ancora bene. Ci siamo conosciuti perché Eleanor mi ha visto dare da mangiare alle papere del lago e voleva farlo anche lei”.
“Capisco” mentalmente il rosso prese nota del fatto che quel parco poteva essere un buon punto di partenza per eventuali indagini.
“Sai, Heymans, ci ho ben riflettuto e credo di aver capito perché Erin mi ha colpito molto – continuò Kain, posandosi tranquillamente sul parapetto e fissando le papere – non trovi che assomigli a tua madre?”
Fu una frase detta con noncuranza, quell’ingenuità tipica di Kain di cui nessuno poteva dubitare. Eppure Heymans ebbe una scossa lungo tutta la spina dorsale mentre tutti i ragionamenti che aveva fatto quella mattina gli crollavano addosso come una valanga.
“Dici?” si sforzò di chiedere con voce calma.
“Sì – annuì il ragazzo con un sorriso – ha gli stessi colori di tua madre e tuo fratello, anche le efelidi sono simili. Forse tu non hai avuto tempo di notarlo perché l’hai vista per poco tempo, ma sono proprio le stesse lentiggini: sul naso e sulle guance”.
“E secondo te perché le somiglia tanto?”
“Non lo so, a volte succede – ridacchiò Kain, come se fosse una risposta ovvia – hai presente la signorina Lola? La ragazza del locale di Roy? Anche se ha colori diversi assomiglia molto alla mia mamma. Penso sia normale che a volte le persone si somiglino molto, penso che Vato abbia qualche libro in proposito. Come torno in paese glielo chiedo”.
“Beh, se pensi ad un albero genealogico capisci che puoi avere parenti sparsi in giro per il mondo – convenne Heymans, senza però esserne troppo convinto – chissà quante altre persone col sangue Fury ci sono ad Amestris di cui ignori l’esistenza. Discendenti di tuoi prozii e così via…”
“Già, è affascinate, vero? – Kain alzò gli occhi al cielo con aria sognante – è una bella idea pensare che in fondo ho più parenti di quanti io creda”.
“Affascinante, proprio così”.
 
Mentre Heymans rifletteva su tutti quei discorsi, arrivando a strane e curiose conclusioni, qualche ora dopo Roy e Riza si poterono finalmente concedere qualche ora assieme.
Come era previsto, il neo soldato era stato invitato a cena dalla fidanzata e da suo nonno e dunque si era presentato alla villa del Generale Grumman all’ora convenuta.
Con sua somma sorpresa fu proprio Riza ad aprirgli e non qualche cameriere.
“Benvenuto – lo salutò lei con un gran sorriso – finalmente riusciamo a parlare un po’ in tranquillità”.
“Conosco quest’abito – Roy la squadrò con curiosità, notando come indossasse uno dei suoi abiti di campagna, sebbene tra i più eleganti – lo usi nelle occasioni speciali”.
“Però non è come quello che indossavo ieri alla cerimonia, vero? – lei gli prese il cappotto e lo appese all’ingresso – Sei perplesso?”
“Ammetto di sì. Che mi devo aspettare?”
“Beh, semplicemente ho deciso un cambio di programma – Riza lo condusse attraverso gli eleganti corridoi – al posto del ristorante previsto, ho chiesto a mio nonno di cenare qui a casa. Ho persino cucinato io, sai? C’era il cuoco che ha quasi avuto un infarto quando gli ho chiesto di lasciarmi in mano la cucina, ma credo che si sia ripreso”.
“Cambi le regole del gioco, colombina? – ridacchiò Roy, notando come i capelli fossero di nuovo tenuti dal solito fermaglio – Mi sorprendi”.
“Semplicemente ero stanca di dover far attenzione a qualsiasi mia mossa, tanto da dover rinunciare a congratularmi con il mio fidanzato dopo la fine della cerimonia – lo prese per mano con disinvoltura – quindi ho deciso di mandare allegramente alla malora tutta quella gente e di festeggiare come si conviene. Noi, Kain e mio nonno… ah, e ovviamente come tornerai in paese devi venire a pranzo a casa dai miei”.
“Ovviamente – Roy la bloccò nel corridoio e avvicinò il viso al suo – mi è dispiaciuto per ieri, sul serio. Eri splendida con quel vestito, ma non ha avuto molto senso se poi non ci siamo nemmeno potuti parlare. Quando ti ho invitato non mi sono reso conto di quante implicazioni potesse avere la tua presenza”.
“Appunto, è proprio di questo che voglio parlare – disse lei – voglio che tu possa realizzarti, sul serio. Ma mi da fastidio di venir vista dai più come una pedina, non appena la nostra relazione verrà fuori… tanto è solo questione di tempo”.
“Non devi preoccuparti, per i primi tempi ho intenzione di stare con una persona al di sopra di ogni sospetto di favoritismo – la rassicurò il soldato – e una volta preso il titolo di alchimista di stato ben pochi avranno dei dubbi sulle mie reali capacità”.
“Credo che mio nonno abbia grandi aspettative su di te”.
“Vedrò di non deluderlo, ma a modo mio – garantì Roy – per stasera preferisco incontrarlo solo come tuo parente piuttosto che come generale di East City”.
“È proprio questa la mia intenzione per questa sera e ho anche avvisato mio nonno in merito. Possiamo parlare del paese, di me, di te, ma non della tua carriera militare. Adesso giochiamo secondo le nostre personali regole, Roy Mustang, quelle della bella società sono finite per questa volta. Dopodomani riparto in paese con Kain ed in tutti questi giorni non abbiamo avuto una sola occasione per stare assieme nelle nostre vere versioni”.
“Una grossa mancanza – convenne lui – e hai tutto il diritto di imporre il tuo volere, colombina. Ehilà, gnomo!”
“Ciao, Roy! – salutò Kain, scendendo dalle scale – Sai che ho convinto Riza a fare la torta al cioccolato come dolce?”
“Non avevo dubbi in merito – sghignazzò il soldato, arruffando i capelli del suo giovane amico – allora, sei contento di questa cena assieme?”
“Certo! Il pranzo di ieri mancava di qualcosa senza Riza – annuì con serietà il ragazzo – e poi oggi ha cucinato lei, quindi sarà come essere a casa”.
“Per farti sentire a casa, domani ti porto a vedere la moto, sei contento?”
“Fantastico!”
“Niente giri – li bloccò subito Riza – non voglio raccontare alla mamma di esperienze pericolose o ancora peggio di incidenti”.
“Ma quando mai – la guardò Roy con finta innocenza – saremo dei bravi bambini, vero Kain?”
“Verissimo. Vieni, dai, la sala è qui: il generale ci sta aspettando”.
Fu una piacevole cena e non poteva essere altrimenti.
Riza aveva preso in mano la situazione, dimostrandosi una perfetta padrona di casa: aveva preparato i suoi piatti migliori, sistemandoli poi nel grande carrello in modo da poter essere lei stessa a servire. Quello che poteva sembrare solo il capriccio di una ragazza benestante in realtà era la ferma decisione di una donna di giocare secondo le proprie regole: se doveva venir accettata doveva essere per quello che era veramente, questo valeva soprattutto per suo nonno. Per quanto le piacesse venir in qualche modo viziata durante i suoi soggiorni in città, era meglio mettere i puntini sulle “i” su quella che era la sua vera natura.
Kain e Roy sapevano bene che era quella la vera versione della ragazza e dunque non costò loro nessuna difficoltà essere spontanei davanti a quella Riza casalinga, sebbene elegante. Grumman invece ne era abbastanza sorpreso, seppure divertito, come se trovasse incredibile che la sua unica nipote si sapesse destreggiare così bene in faccende in genere relegate al personale.
“Arrosto ottimo, mia cara” commentò durante la cena.
“Grazie, nonno”.
“Ormai lo fa uguale a quello della mamma – spiegò Kain con orgoglio, quasi fosse merito suo – non sento la minima differenza”.
“Non credo che al ristorante avremmo mangiato qualcosa di meglio” annuì l’uomo, sollevando il bicchiere in direzione della nipote.
“Volevo festeggiare come si doveva il grande traguardo di Roy – disse Riza con disinvoltura, prendendo il piatto del fidanzato e servendogli una nuova porzione – e ho riflettuto che in ristorante non avremmo avuto le medesime possibilità. Il gioco dei pettegolezzi va bene, ma non mi deve impedire di vivere la mia vita”.
“Stessa determinazione di tua madre, mia cara – sospirò Grumman – ma tu sei molto più solida rispetto a lei, ne sono compiaciuto. Sarai molto fortunato a maritarti con lei, giovanotto”.
“A tempo debito, signore – sorrise Roy – non ho nessuna intenzione di accelerare i tempi e forzare le cose, non sarebbe nemmeno giusto nei confronti di Riza. Lei ha appena terminato le scuole e io sono appena diventato soldato: meglio avere prima una stabilità su cui fare affidamento”.
“Mi piace un simile discorso – annuì Grumman, mentre anche la ragazza sorrideva compiaciuta – posso sapere quali sono i tuoi prossimi progetti?”
“Ho preso un impegno con un mio insegnante d’Accademia per questa primavera, poi mi concentrerò sugli studi per il titolo di alchimista di stato. Se l’esercito non mi reclamerà, tornerò in paese per poter velocizzare il mio apprendimento con il maestro”.
“Già, quell’uomo – Grumman socchiuse lievemente gli occhi e la sua espressione rilassata si indurì leggermente – presumo che la situazione non sia cambiata di una virgola per lui”.
“È cambiata per me – corresse Riza – e va bene così. Sul serio, nonno, non ti devi preoccupare per lui, va tutto bene”.
“Ma sì, va tutto bene. Non mi pare il caso di rovinare questa simpatica cena con il pensiero di quell’uomo. Bene, giovanotto, allora mi stavi raccontando del tuo progetto primaverile. Continua pure”.
 
Circa un’ora dopo i due fidanzati si godevano il cielo notturno nel grande balcone della villa mentre nel salotto Grumman e Kain erano impegnati in una partita a scacchi. La villa si trovava in una posizione davvero privilegiata, nella periferia della città, e offriva una visione di East City incantevole: i palazzi, i ponti sul fiume che veniva illuminato dalla luce dei lampioni, tutto sembrava immobile come in un quadro.
Riza adorava quella visuale, era forse uno degli aspetti della città che le piaceva maggiormente.
In campagna la visuale notturna era ben poca, se si escludevano le notti in cui il cielo era limpido e la luna piena e di certo non si poteva vedere così lontano. East City nella sua veste notturna aveva un non so che di magico, come se fosse carica di promesse per il futuro: le luci sul fiume sembravano tracciare un nuovo sentiero che l’avrebbe condotta in posti meravigliosi.
“Un brindisi a questa serata perfetta – dichiarò Roy, toccando il bicchiere di champagne della fidanzata con il proprio – il festeggiamento migliore che potessi mai desiderare”.
“Ancora auguri, soldato – sorrise Riza ricambiando il gesto – sono felice di averti festeggiato come si conveniva. La mia gita ad East City si conclude nel modo giusto”.
“Sono sorpreso di te, colombina: questo tuo prendere l’iniziativa non me l’aspettavo proprio, ma non sai quanto mi ha reso felice”.
“Come hai detto tu si deve procedere un passo alla volta e tutto sommato, a questo giro, abbiamo fatto parecchi passi assieme: tu che diventi soldato e io che ti presento ufficialmente a casa di mio nonno”.
“Non sembri minimamente spaventata: quando a dicembre ti avevo proposto di venire qui a vedere la cerimonia sembrava che dovessi buttarti da un burrone”.
“È stata una reazione esagerata, lo ammetto. Cielo, è passato poco più di un mese, eppure quella Riza mi appare così infantile e piena di paure”.
“Lo sei ancora?”
“Non così tanto – rispose lei, dopo averci pensato attentamente – mi sono resa conto che il nostro matrimonio non è dietro l’angolo e che dunque ho tutto il tempo per maturare ancora. Per abituarmi all’idea di andare via dal paese”.
“Pensa al lato positivo – strizzò l’occhio il soldato – se tutto va bene dopo primavera torno in pianta stabile per diverso tempo, così potrò studiare per il titolo d’alchimista”.
“Speriamo davvero che sia possibile. Ammetto che mi manca vederti tutti i giorni”.
“Sono una presenza importante, è chiaro”.
“Ma no! – lo prese in giro lei, dandogli un piccolo pugno sulla spalla – è che… sai, vedere gli altri assieme un po’ mi fa venire nostalgia, tutto qui. Assieme… oddio, adesso che rientro in paese presumo che ci saranno gli strascichi della questione di Jean e Rebecca”.
“La perdonerai?”
“Per quello che mi ha detto? Sono ancora arrabbiata con lei… è stata davvero ingrata. Dovrà essere davvero convincente per riprendere i rapporti con me. Quello che importa sarà stare vicino a Jean, lui è un caro amico e non ci sono dubbi su questo”.
“Altro che pettegolezzi di città – sogghignò Roy – se quella gente venisse in paese ne uscirebbe con i capelli dritti”.
 
La settimana passò, con Riza e Kain che ripresero il treno per tornare in paese.
Ad East City rimasero soltanto Roy ed Heymans, ciascuno impegnato nelle proprie attività. Il neo soldato era stato chiamato al Quartier Generale assieme ai suoi compagni per formare un plotone ufficiale che potesse venir riformato quando l’occasione l’avesse richiesto. Era un atto formale di ben poca utilità: si sapeva che buona parte di quei nuovi soldati sarebbe stata smistata a seconda delle proprie capacità. Tuttavia era necessario ufficializzare l’ingresso nell’esercito delle reclute appena uscite dall’Accademia.
Heymans, assieme ad Arthur e ai suoi compagni, aveva ripreso a studiare per gli esami sempre più vicini: passava le sue giornate nella biblioteca dell’Università, chino sui libri, prendendosi delle pause solo per seguire le nuove lezioni. In particolare quelle di diritto penale, tenute dal giudice Doyle, si stavano rivelando particolarmente toste e facevano presagire un esame ai limiti dell’impossibilità, con somma disperazione della maggior parte degli studenti.
Una cosa interessante che il rosso aveva imparato a notare era quando i suoi docenti avevano avuto dell’esperienza pratica della materia che insegnavano. Quelli meramente teorici si limitavano a seguire quasi sistematicamente i libri di testo, ma quelli come il padre di Arthur, che la materia l’avevano applicata di persona, avevano un approccio completamente diverso.
Le leggi erano quelle, certo, ma quell’uomo dallo sguardo di un rapace si aggirava per l’aula durante le lezioni, sorprendendo i suoi studenti con domande circa l’applicazione di questa o quest’altra norma, ponendo esempi e casi veramente complicati dove non si capiva dov’era il limite da buonsenso e mera legge. Davvero la giustizia doveva funzionare imparziale per tutti? Una stessa legge poteva avere applicazioni diverse? Quell’uomo li faceva ragionare come mai era successo, rendendoli consapevoli che spesso e volentieri nelle loro mani poteva capitare il destino di molte persone.

C’erano tuttavia dei momenti in cui Heymans si prendeva delle pause e allora i suoi passi lo portavano inevitabilmente a quel parco dove Kain gli aveva detto di aver incontrato la giovane Erin. Non gli era capitato di vedere la giovane, eppure ci aveva sperato: ormai si era convinto che c’era qualcosa di strano in quella ragazza ed era deciso a scoprire che cosa. A volte si sentiva uno stupido mentre guardava il ponticello sul laghetto delle papere: che cosa le poteva dire nel caso l’avesse incontrata? Magari nemmeno si ricordava di lui e l’avrebbe preso per un malintenzionato.
Un giorno, finalmente, la vide passeggiare con un bambinetto di pochi anni tenuto per mano. Per un attimo non la riconobbe dato che aveva i capelli raccolti nell’acconciatura severa delle bambinaie, ma il suo occhio attento fu rapido a capire il cambio di pettinatura. La osservò da lontano mentre gli faceva fare qualche giro attorno alle aiuole prima di sedersi con lui su una panchina. Dai gesti che faceva e dalla faccia meravigliata del piccolo si capiva che stava raccontando qualche storiella tanto che il rosso decise di attendere la fine di quel momento prima di avvicinarsi.
Probabilmente stai facendo la più grossa sciocchezza della tua vita, Heymans Breda – si disse, mentre si passava una mano tra i capelli e si faceva avanti – perché non sei rimasto in biblioteca a studiare?
“Mi scusi…” iniziò con voce flebile, accostandosi alla panchina.
Subito lei alzò lo sguardo con stupore, mentre il suo braccio si stringeva istintivamente sul bambino che, dopo tutto quel movimento, si stava addormentando contro il fianco della sua tata.
I due paia di occhi grigi si scrutarono con attenzione prima che Heymans si decidesse a continuare.
“Erin, vero? Non so se si ricorda di me, ci siamo visti alla cerimonia di fine Accademia”.
“Oh aspetti! – l’espressione di lei si rasserenò – Ma certo! Era assieme a Kain”.
“Esatto, però non abbiamo avuto occasione di presentarci: mi chiamo Heymans Breda”.
“Erin Hidden – sorrise lei, tendendo la mano e stringendo quella del rosso con calore – mi fa piacere rivederla. Ha notizie di Kain?”
“È tornato in paese a inizio settimana: era venuto qui solo per la cerimonia”.
“Che peccato – sospirò lei – mi stava davvero simpatico, l’avrei rivisto volentieri e anche i bambini l’avrebbero voluto, ci scommetto. Spero che si sia trovato bene qui in città”.
“Si è divertito come un matto, ma è stato altrettanto felice di tornare in paese”.
“Anche lei viene dallo stesso paese? – la ragazza si spostò leggermente per permettergli di sedersi – Oppure è un cittadino?”
“Vengo anche io dal paese, sono qui perché studio all’Università”.
“Davvero? Oh che bello! Anche a me sarebbe piaciuto studiare, ma dopo la scuola ho dovuto cercare un lavoro per aiutare mia madre con le spese di casa. Vivere in città non è certo economico. Cosa studia?”
“Giurisprudenza”.
“Un futuro giudice allora… oppure avvocato?”
“Devo ancora decidere, sono solo al secondo anno e devo ancora affrontare diverse materie”.
“Al secondo anno? – gli occhi di lei si sgranarono – allora non è molto più grande di me!”
“Ho diciannove anni” arrossì lui, preso alla sprovvista da quella spontaneità.
“La facevo più maturo… però, oh scusa… possiamo darci del tu? Siamo praticamente coetanei: io li compio ad aprile diciannove anni! E’ che con questi vestiti eleganti mi sei sembrato più grande. Ah, ovviamente se le va bene… ecco, sto facendo di nuovo una delle mie solite figuracce!”
Arrossì violentemente, quasi la stessa tonalità dei suoi capelli.
Heymans non seppe che dire, frastornato dal fiume in piena che era stata l’ultima parte del discorso di lei. Di sicuro era una ragazza particolare e capiva perché Kain l’aveva trovata simpatica. Si sentì felice della sua ostinazione, di essere tornato più volte in quel parco nella speranza di poterla incontrare.
Forse era solo perché mi avevi fatto una bella impressione.
“Il tu va benissimo – la rassicurò – allora, io studio giurisprudenza, tu invece fai la governante?”
“La tata, prego – disse lei con serietà – ai bambini non piace il termine governante, lo trovano troppo serio: le governanti sgridano i bambini, le tate no, almeno questo è quello che sostiene Eleanor”.
“La sorellina?”
“Già, a letto con l’influenza e molto interdetta dal non poter venire al parco con me ed Eric. Adoro venire al parco, mi piace molto il verde: il tuo paese è in campagna?”
“Il mio paese è praticamente campagna – corresse Heymans – un gruppo di case a fare il centro abitato e poi le altre sparse in giro per i campi. Per arrivare a casa del mio miglior amico devo farmi una passeggiata di mezz’ora”.
“Che meraviglia – sospirò lei – a volte a stare in una città come questa ti senti un po’ imprigionata. Dev’essere bello avere così tanti spazi aperti”.
“Forse lo troveresti noioso alla lunga”.
“Questione di abitudine, presumo. Ma è vero che io sono nata e cresciuta qui”.
“Allora – proseguì Heymans dopo qualche secondo di silenzio – come mai eri alla cerimonia? Qualche parente o qualche amico?”
“Oh no – scosse il capo lei – come stavo dicendo a Kain quella volta, è una storia davvero stupida e un po’ me ne vergogno”.
“Va bene, se non ne vuoi parlare non fa nulla – la tranquillizzò subito il giovane – era solo per fare conversazione, tutto qui. Io ero lì per un mio caro amico, è stato il migliore del corso”.
“Accidenti – gli occhi grigi di lei si illuminarono a sentire quelle parole – dev’esser stato davvero bravo: non è uno scherzo riuscire ad essere i primi dell’Accademia. Mia madre mi dice sempre che è una delle più dure di tutta Amestris: i soldati del distretto est sono i migliori, al pari di quelli del distretto nord”.
“Dicono così? Beh, allora posso vantarmi di aver avuto anche uno zio che è stato primo del suo corso in Accademia, anche se in questo caso si tratta di una storia vecchia più di vent’anni”.
“Sei proprio legato all’esercito, allora: mi chiedo come mai non sei diventato soldato pure tu”.
“Oh no, non potrei mai – scosse il capo Heymans con decisione, senza nemmeno rendersi conto che con quella giovane quasi sconosciuta stava parlando con maggior confidenza rispetto a quanto avrebbe fatto con lo stesso Arthur – in primis non è nelle mie corde e poi non potrei mai fare una cosa simile a mia madre. Lo zio di cui ti dicevo era suo fratello ed è morto in guerra. Non potrei mai arrecarle un simile dolore, capisci?”
“Ti capisco meglio del previsto – disse Erin con voce sommessa, accarezzando i capelli scuri di Eric – sai io… oh, e va bene. Tanto vale che ti dica perché ero alla cerimonia, ma promettimi di non ridere”.
“Promesso”.
“Mamma dice che sono una sciocca, ma lo faccio ogni anno, sin da quando ne avevo dieci. Devi sapere che mio padre era un soldato, ma è morto prima che io nascessi. Mamma mi parlava spesso di lui, però non ho nemmeno una sua foto… ma una delle cose che mi è sempre rimasta impressa è che è stato il primo del suo corso in Accademia, mi fa sentire enormemente fiera perché vuol dire che era veramente eccezionale. Così, quando avevo dieci anni, il giorno della cerimonia di fine Accademia ho saltato la scuola e sono andata a sbirciare dal cancello d’ingresso. E vedere quei soldati in divisa mi ha dato una bella sensazione, così ci torno ogni volta… mi piace immaginarmi di nuovo bambina con mio padre che mi prende in braccio e mi mette il berretto della sua uniforme in testa. Oh, ecco vedi, sorridi… sono una sciocca”.
“Ma no, non sei sciocca – corresse Heymans – sorrido perché è una bella storia. È bello che tu sia molto legata a tuo padre anche se non l’hai mai conosciuto”.
“Sai, lui non aveva nemmeno idea che io fossi in arrivo: mia madre gli scrisse che era incinta, ma la lettera tornò indietro intatta con scritto nella busta che il mittente era deceduto in guerra”.
“Immagino tutte le difficoltà che avrà dovuto affrontare – annuì seriamente il giovane – anche con il sussidio dell’esercito essere vedova e con un figlio in arrivo non sarà stato semplice”.
“Vedova? – Erin arrossì e lo fissò con imbarazzo – no… no, forse è meglio che te lo dica subito prima che lo scopra da solo. Ecco… i miei non erano sposati. Mamma dice che forse prima o poi sarebbe successo dato che si frequentavano da diverso tempo, sebbene nei mesi precedenti la partenza di mio padre al fronte non si fossero praticamente visti. Si incontrarono solo due giorni che lui era ad East City per partire col suo plotone: una vera e propria follia che io sia stata concepita proprio in quel piccolo arco di tempo! Diamine, sto raccontando più cose a te che al mio diario segreto!”
“Semplicemente ti piace parlare di tuo padre – cercò di consolarla Heymans – scommetto che non lo fai spesso”.
“Con mamma non più. Insomma, capisco che per lei possa essere un dolore, ma per me è una figura troppo bella per dimenticarla! Sai che ho preso tutto da lui? Mia madre ha occhi e capelli castani, mentre io sono rossa e con gli occhi grigi come mio padre… beh, non proprio, a quanto pare, secondo mia madre, lui li aveva più sull’arancione i capelli. Credo come i tuoi”.
A quelle parole il brivido sulla schiena di Heymans tornò prepotente, tutta la spensieratezza che spariva di colpo. Improvvisamente tutti i suoi pensieri su chi fosse quella ragazza, i discorsi fatti con Kain tornarono a travolgerlo e a far ricomparire quel senso di incompiuto che l’aveva tormentato per diversi giorni.
Parenti? No, non era possibile.
Primo del corso… morto nel fronte… capelli come i miei… – scosse con violenza la testa davanti a queste coincidenze che andavano a creare nuovi pezzi del suo rompicapo.
“Sai, Heymans, ci ho ben riflettuto e credo di aver capito perché Erin mi ha colpito molto: non trovi che assomigli a tua madre? ... gli stessi colori di tua madre e tuo fratello, anche le efelidi sono simili. Forse tu non hai avuto tempo di notarlo perché l’hai vista per poco tempo, ma sono proprio le stesse lentiggini: sul naso e sulle guance”
La voce ingenua di Kain tornò alla memoria con quella frase che sembrava offrire la soluzione perfetta eppure assurda a tutta quella storia. Perché se era così quella storia era assurda e surreale, degna della trama di un romanzo. E significava anche riaprire vecchie ferite, specie per sua madre.
Ma no, adesso mi levo il dubbio e mi dirò da solo che sono uno scemo.
“Un mio amico direbbe che il sangue della famiglia Hidden è dominante: ecco perché gli occhi ed i capelli li hai presi da tuo padre”.
“Sì? Beh allora è meglio correggere la frase: è la famiglia Hevans ad avere il sangue dominante – sorrise lei con orgoglio – Hidden è il cognome di mia madre. Ti ho detto che non si erano sposati, no?”
“… merda…” sibilò Heymans, mentre il mondo gli crollava addosso e finalmente il velo che avvolgeva la figura di Erin veniva alzato. Perché sì, eccetto qualche ovvia variante lei era la copia di Laura da giovane, bastava pensare alle vecchie foto che aveva visto tante volte.
“Sai, mi chiamo Erin proprio perché fa assonanza col nome di mio padre – continuò la giovane – è quasi il suo anagramma. E – r – i – n… Henry. Henry Hevans. Sai lui era un sergente”.
“Era mio zio…” mormorò Heymans.
“Cosa?” lei lo guardò stordita.
“Credo… io credo – balbettò incredulo a quanto stava per dire – che noi siamo cugini”.

 




_______________________
nda.
eheheh, sorpresi? Molti di voi si stavano arrovellando la testa per capire chi fosse Erin, mentre io avevo paura che lo capiste subito grazie ai suoi capelli e ai suoi occhi. Meno male che ho tenuto la suspance per un paio di capitoli! E così la famiglia Hevans torna alla ribalta con i suoi segreti che paiono non finire mai!
Alla prossima :)
  
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