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Autore: Adeia Di Elferas    17/03/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Deve esserci un errore!” sbraitò Agostino Marcobelli, mentre due guardie lo afferravano per le braccia, trascinandolo via dalla tavola su cui ancora fumava la cena.

“Nessun errore. Siete stato accusato pubblicamente assieme a vostro fratello!” rimbeccò uno dei soldati che stavano sulla porta, in attesa.

Mentre dalla cucina veniva, infatti, prelevato Agostino, altri uomini erano saliti al piano superiore della casa per rastrellare ogni angolo in cerca di suo fratello Bartolo. Ebbero facile successo e quando tornarono di sotto, avevano con loro altri due prigionieri oltre a quello che stavano espressamente cercando.

Il primo, infatti era il ricercato Bartolo Marcobelli, in uno stato di mezzo abbandono, con la barba lunga e i capelli arruffati. Probabilmente era rimasto rintanato nel buco del pavimento in cui era stato trovato fin dalla sera in cui era stato assassinato Giacomo Feo.

Il secondo era il figlio di Bartolo, il giovane Ludovico, che era in una condizione non migliore di quella del padre, e il terzo era Guglielmo, un parente infermo che Agostino si era tirato in casa da anni per puro buon cuore.

Quest'ultimo non riusciva nemmeno a stare in piedi, tanto che i soldati lo dovettero portare giù dalla scale tenendolo in braccio come fosse un neonato.

“Avanti, andiamo.” ordinò il Capitano Pietro Calderini che era a capo della spedizione, conducendo i quattro prigionieri in strada, dove li attendevano altri soldati e Cristoforo Beccari, un altro complice che, a detta di Don Pavagliotta, era stato fondamentale nell'orchestrare il colpo.

 

La notte era ormai scesa su Forlì e Caterina, dopo essersi ritirata per qualche ora nel suo laboratorio da alchimista, rifuggendo il sonno, si era messa a vagare senza meta per i camminamenti.

La città pareva più tranquilla, ma la Contessa sapeva che quella era solo un'illusione. Presto i forlivesi avrebbero accusato il colpo e allora avrebbero reagito, in un modo o nell'altro.

Aveva avuto la fugace tentazione di andare alla tomba di Giacomo, ma non ne aveva trovato il coraggio. Non voleva cadere in pezzi difronte a una lastra di marmo.

Se non era mai andata a far visita alla tomba del suo primo marito, Girolamo Riario, che stava a Imola, solo perché non ne vedeva la ragione, sentiva di non potersi recare con facilità nemmeno dinnanzi a quella di Giacomo, perché non l'avrebbe sopportato.

Le campane avevano appena ricordato a tutta Forlì che erano le due di notte, quando Calderini, seguito da un drappello di soldati e prigionieri si portò verso Ravaldino, illuminato da un paio di torce portate a mano e dalla luce della luna.

Improvvisamente, dalle mura della città, si sentì un fracasso assordante, grida e il suono ferreo di spade che cozzavano contro altre lame.

“Ma che rumore è mai questo?” chiese Bartolo Marcobelli che, malgrado avesse le braccia legate dietro la schiena e una spada puntata a mo' di monito contro il fianco, aveva ancora dell'ardire.

Calderini guardò verso il punto da cui arrivavano le urla e comprese che qualcuno si era illuso di trovare la fuga scalando le mura cittadine ed era già stato intercettato e colpito dalle sentinelle di guardia.

“E cosa c'entrate voi con quello? Che vi importa di sapere chi sia o chi non sia?” chiese il Capitano, tornando a guardare il suo prigioniero con alterigia: “Andate per la vostra strada. Vi tocca andare alla rocca. Non vi deve interessare d'altro.”

Bartolo, che, proprio sapendo il destino che lo attendeva una volta varcate le porte della rocca di Ravaldino, sentiva di non avere più freni, sputò in terra, a pochissima distanza dai piedi di Calderini e inveì: “Ah! Corpo di Dio! Non sta a voi decidere cosa mi importa e cosa no!”

E con un potente colpo di reni, prendendo alla sprovvista la guardia che lo teneva sotto tiro con la spada, il Marcobelli, sotto gli occhi attoniti dei suoi parenti, abbassò la testa e si scagliò con forza contro il Capitano.

Ne seguì una zuffa senza quartiere che però durò molto poco, dato che il prigioniero era legato mentre Calderini era armato e spalleggiato da un buon numero di soldati.

“Che succede?!” gridò una delle sentinelle dalle mura.

“È costui...” rispose Calderini, guardando di nuovo in alto: “Non vuole andare alla rocca e mi ha messo le mani addosso!”

Approfittando della distrazione, Marcobelli venne mosso da uno scatto d'orgoglio e, senza capire nemmeno lui come, riuscì a mandare gambe all'aria il Capitano con una seconda testata e afferrò il mazzo di chiavi che era caduto dalla sua cintola, magra consolazione, e se lo tenne stretto tra le dita costrette dietro la schiena.

“Mi ha preso le chiavi!” gridò strozzato Calderini, mentre anche Beccari, Ludovico e Agostino si ribellavano a quelli che li tenevano fermi, creando grande scompiglio.

Mentre si difendevano a tiravano calci e testate contro le corazze dei soldati, in un tentativo disperato non di fuggire, ma di dimostrare la propria fibra, i Marcobelli e il Beccari intonavano senza sosta un motto ritmico e forte: “Ottaviano! Ottaviano! Ottaviano!”

Tuttavia, le sentinelle si fiondarono giù dai camminamenti per dare manforte a Calderini e in breve Ludovico venne ripreso e immobilizzato, Beccari fu morto, trapassato da un colpo di picca, e Agostino restò in terra gravemente ferito.

Solo Bartolo stava ancora lottando, ma i suoi movimenti convulsi finirono all'improvviso, quando Calderini avanzò verso di lui con la spada dritta, atta a colpirlo in pancia.

“Grazie, Dio...” sussurrò Bartolo, quando vide la spada del Capitano conficcata nel suo addome fino all'elsa: “Mi avete liberato...” sussurrò e spirò prima che Calderini riuscisse a capire il ragionamento dell'uomo.

In terra, sanguinante e visibilmente sofferente, Agostino continuava a ripetere a voce molto alta e con mesta ostinazione: “Ottaviano! Ottaviano!”

Caterina, che nel frattempo aveva raggiunto il fronte della rocca e poteva vedere la scena, seppur in lontananza, ascoltò con apprensione quell'urlo.

“Calderini!” gridò con tutta la voce che aveva in corpo, quando riconobbe il Capitano.

Certo che ormai la situazione fosse sotto controllo, l'uomo lasciò il ferito Agostino, Ludovico e il malaticcio Guglielmo ai suoi uomini e corse vicino alla rocca: “Mia signora!”

“Che è successo?” chiese la Contessa, sporgendosi oltre le merlature.

In breve Calderini le riassunse la cattura dei Marcobelli e il loro burrascoso trasporto alla rocca. La donna restò molto indispettita, nel sentire che Bartolo era morto nel corso della colluttazione, ma si disse subito che avrebbe potuto rifarsi sui superstiti.

“Fate curare Agostino dal cerusico migliore di Forlì!” ordinò: “E, quando sarà di nuovo in forze, mettetelo in carcere con gli altri!”

Agostino, che aveva sentito le parole della Tigre, smise di inneggiare a Ottaviano e iniziò a piangere e a gridare: “No! No! Vi imploro! Uccidetemi! Uccidetemi ora! Non curatemi! Non portatemi alla rocca! Vi prego!”

Com'era da aspettarsi, la Contessa non parve nemmeno sentire le preghiere del ferito e ribadì, rivolta al Capitano: “Che sia curato e solo dopo messo ai ceppi!”

Calderini lasciò intendere di aver capito e così Caterina fece per tornare nella rocca, senonché le tornò in mente una cosa importante.

Riappoggiandosi alla fredda pietra delle merlature, aggiunse: “In città vive un altro fratello dei Marcobelli, Francesco! Cercate anche lui e portatelo qui!”

 

Pavagliotta guardava con una certa insistenza la strada davanti a sé, come se si aspettasse di essere fermato da un mento all'altro da qualcuno.

“State tranquillo – gli disse Nicola Aldrovandi, sorridendo pacato, mentre i loro cavalli si lasciavano alle spalle le porte di Ravenna – viaggiando con me non dovete temere nulla.”

Il prete si calmò un po', a quelle parole, tanto che per almeno mezz'ora di cammino si sentì addirittura felice. Stava scappando e lo stava facendo in modo apparentemente molto semplice.

Era stato uno stupido a lasciarsi trascinare in quella follia dalla promessa dei soldi del Cardinale Sansoni Riario, ma era riuscito a riparare al suo errore in modo egregio.

Proprio mentre lui e il suo accompagnatore si addentravano in un punto della strada dalla vegetazione più fitta, coprendosi gli occhi per pararli dal sole abbacinante che filtrava dalle fronde degli alberi, Pavagliotta sentì un fruscio strano al suo fianco.

Non capì cosa stesse succedendo, e non riuscì a orientarsi fino a che non si trovò legato come un salame in terra con addosso tre uomini recanti lo stemma della Sforza sulla corazza.

Sollevò lo sguardo speranzoso nell'aiuto di Aldrovandi, ma questi aveva cambiato espressione in modo radicale. Il sorriso da bonaccione era stato sostituito dalla serietà e dalla furia più complete e i suoi occhi erano divenuti gelidi e fissavano i soldati della Contessa con una luce d'intesa che fece improvvisamente capire tutto quanto anche a Pavagliotta.

“Portate a Sua Signoria i miei omaggi.” disse piano Nicola, mentre i tre sgherri della Contessa caricavano sul dorso di un cavallo il prigioniero: “Ricordatele che sono servo suo.”

 

“Datele questo. Lei saprà cosa farne.” disse Caterina, mettendo nella mano di Mongardini una fiala destinata alla moglie di Bernardino Ghetti.

Nel palazzo dei Riario era stato radunato il Consiglio al gran completo – seppur privato di tutti i membri delle famiglie Marcobelli, Orcioli e Delle Selle – ma appena fuori, nella piazza, stavano per tenersi tre impiccagioni.

Si trattava di tre donne, le uniche, fino a quel momento, che la Contessa avesse condannato a morte. Tra loro vi erano Rosaria, moglie di Gian Antonio, e la cognata.

Mongardini prese la fiala, interrogativo, ma non osò fare domande e lasciò la sala del consiglio diretto al patibolo dove le tre condannate erano già in attesa.

Caterina non voleva assistere, ma aveva fatto in modo che quell'esecuzione si tenesse davanti a tutta la città, cosicché tutti vedessero che non aveva avuto pietà nemmeno della sua cameriera personale.

Le sedie vuote nel salone erano una vista quasi insopportabile per tutti i presenti. I nobili e gli Anziani di Forlì si soffermavano sugli scranni normalmente occupati da coloro che si erano rivelati congiurati e traditori, mentre la Contessa non riusciva nemmeno a guardare verso i posti di solito destinati a Ottaviano e a Giacomo.

Ovviamente mancava all'appello anche l'ambasciatore di Milano, fuggito la notte del 27 agosto e mai più ritrovato. Probabilmente c'entrava qualcosa, ma nemmeno gli informatori dell'Oliva erano riusciti a rintracciarlo o a provare con certezza la sua implicazione nel complotto.

Con un po' di fortuna, poteva essere morto di paura nella fuga o assalito da qualche ladrone e lasciato a spirare in un fosso a lato della strada.

Tommaso Feo attirava gli sguardi di molti, dato che da parecchio non risiedeva in città né prendeva parte a una di quelle riunioni. In molti, poi, ne scrutavano il viso incuriositi, mossi dallo spiccato gusto per il mercimonio del dolore che affascinava non solo il volgo, ma anche, anzi, soprattutto le classi più abbienti.

Il Governatore di Imola, però, non dava segno di curarsi di simili attenzioni e se ne stava ritto e impassibile alle spalle della sua signora, non dissimile da una statua di marmo posta lì a sua difesa.

Quando il cancelliere Cardella riuscì a ottenere il silenzio di tutti, la Contessa li fece sedere con un gesto imperioso della mano e poi, appoggiando i palmi guantati di nero al tavolo, si schiarì la voce e disse: “Ho richiesto che questa mattina venisse riunito il Consiglio per un unico motivo.”

Caterina sentiva gli occhi di tutti puntati su di sé, perciò si fece forza e staccò le mani dalla superficie di legno, raddrizzando le spalle e passando lo sguardo a turno su tutti i Consiglieri e gli Anziani presenti: “Quello che è successo è gravissimo e credo che tutti voi ve ne siate ormai fatti accorti. Ciò che è successo, però, non è grave solo perché è stato ucciso un uomo innocente e investito di molte cariche in questo Stato.”

La Contessa dovette fare un momento di pausa, tanto combattuta da non sapere ancora se quella fosse davvero una mossa giusta. Ci aveva pensato sopra parecchio, mentre vedeva i frati tumulare la bara del suo Giacomo e si era convinta che quello fosse l'unico modo per uscire dal labirinto in cui altrimenti si sarebbe infilata senza possibilità di scampo.

“Il Barone Giacomo Feo – riprese, non riuscendo, malgrado tutti i suoi sforzi, a trattenere un fremito nella voce nel dire quel nome – era mio legittimo marito agli occhi di Dio e della legge degli uomini.”

Un brusio incontrollato si alzò tra i membri del Consiglio e solo un paio di loro restò immobile, come se già sapesse quella verità.

“E come tale – disse subito Caterina, per zittire le chiacchiere inutili che si erano sollevate – era legalmente tutore dei miei figli e responsabile per loro e per me. Dunque ucciderlo è stato un delitto molto grave, perché si è trattato di alto tradimento anche alla mia persona e allo Stato.”

“Ne avete le prove?” chiese, con troppa arditezza, Alberigo Denti, parente del Paolo che stava tenendo in casa sua Ottaviano e Cesare.

La Contessa lo fulminò con lo sguardo e, resa implacabile dal forte vino nero che aveva bevuto poco prima di recarsi al palazzo, sentenziò: “Chiedete pure i documenti, se ne avete bisogno. Li ho consegnati anni fa alla confraternita dei Battuti Neri. Se avete dei dubbi, leggete coi vostri occhi.”

A quelle parole, nessuno osò sollevare altre rimostranze. Ci volle qualche minuto affinché la reale carica di quel messaggio penetrasse. Quando accadde, l'assemblea fu colta da un'irrimediabile inquietudine che si acuì ancor di più quando dalle finestre mezze aperte arrivò il grido della folla che aveva accolto l'avvenuta impiccagione delle tre condannate con un misto di giubilo e orrore.

Nemmeno Caterina restò insensibile al rumoreggiare del pubblico di fuori e, non resistendo oltre, dichiarò: “La seduta è tolta. Chi non ha nulla a che fare con l'assassinio di mio marito o con i congiurati che abbiamo già arrestato, non avrà nulla da temere. Altrimenti...” scuotendo il capo si allontanò dal tavolo e fece segno a Tommaso di seguirla fuori.

Mentre nel salone ancora molti nobili discutevano animatamente o si affrettavano a lasciare il palazzo per raggiungere le rispettive famiglie, il Governatore di Imola seguì la Contessa fino al portone d'ingresso.

“Presto dovrebbero arrivare da Ravenna dei soldati con Pavagliotta, se la soffiata di Aldrovandi era attendibile e corretta.” disse in fretta Caterina, evitando lo sguardo del cognato: “Vorrei che lo accoglieste voi e lo portaste in cella.”

Tommaso annuì in silenzio e restò in attesa, dato che la Contessa non aveva finito il suo elenco di ordini.

“Devo interrogare dei prigionieri. Se più tardi vorrete, potrete assistere, così vi renderete conto di quello che hanno fatto e di quello che sono capaci di dire. In questo modo, magari, mi giudicherete con minor severità.” proseguì la donna, mentre alcuni Consiglieri le sfilavano accanto per uscire in piazza: “E poi...” la voce le si affievolì e parve che l'ultima parte del discorso si fosse perso nei meandri della sua mente.

“Poi?” provò Tommaso.

“Niente.” ritrattò Caterina, convinta che non fosse ancora il momento giusto.

Il Governatore non insistette e lasciò la Contessa libera di allontanarsi senza pretendere ulteriori spiegazioni.

 

“Hanno trovato Pietro Brocchi e i suoi due figli.” il tono di Cesare Feo era abbattuto, spento, consumato come una candela alla fine della notte.

Lucrezia, che teneva in braccio il piccolo Bernardino, non commentò nemmeno quella novità, convinta come non mai che il segno fosse già stato passato e che quindi ogni nuovo arresto fosse solo un peso superfluo sul carico già immane che gravava sull'anima di sua figlia.

Bianca, invece, che si era messa in un angolino vicino alla finestra, colpita dal sole ancora estivo che in quei giorni batteva con caparbietà su Forlì, ascoltava con attenzione le parole del castellano e non poté evitare di chiedere: “Ma è vero che i Marcobelli sono stati uccisi prima di arrivare alla rocca?”

Cesare Feo guardò la figlia della Contessa e con un sospiro greve ammise: “Bartolo sì, ma gli altri no. Agostino è rimasto ferito ed è stato curato, anche se temo sia destinato a finire come suo fratello.”

Bianca si morse il labbro e domandò: “E Ludovico?”

Il castellano lanciò un breve sguardo anche a Lucrezia, che però si fingeva interessata solo a Bernardino, che le restava abbracciato come se avesse paura di perdere anche lei, così all'uomo non rimase che dire la verità: “Vostra madre lo sta interrogando in questo momento.”

La ragazzina trattenne il fiato, comprendendo al volo cosa significasse davvero quella frase.

Ludovico Marcobelli, figlio di Bartolo, era un giovane non molto più vecchio di lei. Avevano ballato più volte assieme ai banchetti e non era raro che si intrattenessero a chiacchierare alle feste, quando erano troppo stanchi per danzare. Se solo Bianca non fosse stata l'unica figlia femmina della Contessa, forse sua madre avrebbe preso in considerazione di buon grado l'idea di farla maritare proprio con un giovane del genere, se non proprio con Ludovico stesso. Di bell'aspetto, gentile, istruito, di buona famiglia...

“Peccato – riuscì solo a dire la ragazzina – era simpatico.”

Il castellano fu tentato di consolarla in qualche modo, ricordandosi come l'avesse vista in più occasioni soffermarsi a parlare con il giovane Marcobelli, ma l'espressione neutrale e l'intonazione vuota della sua affermazione gli fecero venire un brivido lungo la schiena.

In quel momento, la figlia della Tigre pareva tale e quale a sua madre.

 

Tommaso Feo aveva ricevuto, come da ordini, Pavagliotta, che era arrivato alla rocca ferito, disperato e urlante, tenuto fermo dai tre uomini che lo avevano catturato, ma perfettamente lucido e cosciente di quello a cui sarebbe andatoincontro.

Lo aveva fatto chiudere in una delle celle meno affollate e poi si era fatto coraggio ed era andato alla sala delle torture. Voleva vedere e sentire coi suoi occhi se quello che la sua signora gli aveva detto era vero. Quasi sperava che avesse ragione. Se avesse avuto le prove che Caterina in fondo non era solo una bestia feroce, ma una donna di potere che agiva solo per difendersi, allora, forse, sarebbe riuscito a vederla di nuovo come un tempo.

Quando fu vicino alla saletta, ebbe un breve ripensamento. La porta era chiusa, ma dalla grata arrivavano dei suoni poco confortanti. Soffiò con forza e racimolò il coraggio necessario per avanzare ancora un po'.

“No!” Stava gridando la voce rotta del giovane Marcobelli: “Lei non c'entra! Vostra figlia non c'entra! Nemmeno Cesare... Lui era solo una pedina! Ottaviano! Ottaviano! È stato lui a convincerci!”

Tomasso deglutì ed entrò nella stanzetta, trovandosi difronte una scena agghiacciante.

Ludovico Marcobelli, nemmeno ventenne, era in ginocchio, le mani legate dietro la schiena, il volto rigato di sangue e lacrime, il petto nudo segnato dalla frusta dell'aguzzino e da qualcos'altro che il Governatore scoprì essere la punta di una picca arroventata tenuta tra le mani da uno dei carcerieri.

Dal modo difficoltoso con cui respirava, era probabile che avesse più di una costola rotta. La vita restava tenacemente aggrappata al suo giovane corpo, ma era chiaro che sarebbe bastato poco per spezzare quell'esile fiammella.

Alla vista di Tommaso, il prigioniero si mosse avventatamente verso di lui, con l'unico risultato di cadere in terra, impedito com'era nei movimenti dalle catene, colpendo con la fronte il pavimento duro e sporco.

“Messer Feo! Capitano Feo!” lo implorò, rialzando il viso, ancor più madido di sangue per via della nuova ferita che si era procurato da solo: “Io credevo di agire per il bene dello Stato... Il Barone era un cancro per questo Stato! Abbiamo agito a fin di bene... Vi prego...”

Caterina guardò Tommaso e gli disse, ferma: “Lo vedete anche voi, adesso? Ha ucciso vostro fratello e osa parlarvi così.”

Effettivamente il Governatore, nel sentirsi rivolgere quelle parole, aveva provato un profondo senso di smarrimento seguito immediatamente da una grande rabbia.

“Avete ragione.” disse Tommaso, stupendosi di se stesso per la propria durezza: “Non c'è pentimento in questo assassino. Con certa gente è bene non avere pietà.”

Tuttavia, malgrado quell'affermazione di solidarietà coi metodi della Contessa, il Governatore non sopportò oltre la vista del condannato e lasciò subito la saletta delle torture, aggiungendo a titolo puramente informativo: “Pavagliotta è arrivato sano e salvo. Quando vorrete interrogarlo lo troverete in cella.”

“Tiratelo su.” ordinò Caterina ai carcerieri, che si affrettarono a rimettere in ginocchio Ludovico Marcobelli, non appena Tommaso ebbe lasciato la stanza.

“Vi prego...” sussurrò ancora una volta il giovane: “Abbiate pietà...”

“Tu hai portato a tuo padre le armi per uccidere mio marito.” lo accusò la Contessa, usando la confessione appena resa dal prigioniero come massimo capo d'imputazione: “Tu non hai avuto pietà, quando è stato il momento. Avresti potuto provare a fermarli. Potevi opporti. Potevi fermarti un momento e chiederti se fosse giusto uccidere un uomo. Non hai avuto nemmeno un briciolo di pietà. Perché io dovrei averne con te? Tu ne hai avuta per mio marito?”

A quel punto Ludovico si sentì perso, ma decise di lottare fino alla fine. Si sentiva un patriota, in quel momento.

Così sollevò gli occhi, arrossati e pesanti e, tenendo il mento alto e le spalle il più possibile dritte, disse solo: “Vostro figlio Ottaviano è il legittimo sigore di queste terre. Lui ha ordinato e io ho agito, com'era giusto. Prendetevi pure la vostra misera rivincita su un uomo incatenato come me, tanto scoppierà una guerra e vostro figlio vincerà, come Guido Guerra ha vinto a Cesena. Abbiamo fatto bene a uccidere il vostro sporco amante. Quel verme era solo un pezzente che si era arricchito sfruttando la sua influenza su una povera donna come voi. Non meritava la pietà di nessuno.”

Caterina perse la testa. Colpì il giovane con tanta furia e forza a suon di calci e pugni che nemmeno si accorse del momento in cui la vita lo lasciò.

“Mia signora...” la voce dell'aguzzino arrivò talmente lontana che la Contessa non capì subito che si stesse rivolgendo proprio a lei.

Quando finalmente l'uomo riuscì ad afferrarla per le spalle e a distoglierla dalla sua preda che giaceva immota e silente a terra, l'uomo le sussurrò: “Basta. È morto. Fermatevi.”

Caterina guardò il cadavere che aveva davanti. Avvertiva l'odore del sangue che le era schizzato in viso e, in risposta alla violenza con cui aveva colpito sentiva dolore alle mani, alle braccia, alla gambe e tutto il resto del suo corpo.

La nausea che arrivò subito dopo fu incoercibile. La donna fece giusto in tempo a dire all'aguzzino che avrebbero continuato il giorno dopo e poi, appena uscita dalla sala delle torture, si piegò su se stessa e tentò di dare di stomaco.

Era così vuota che nulla uscì dalla sua bocca, se non acido e quel poco che restava del vino bevuto qualche ora prima.

Aveva ucciso senza neanche accorgersene. Aveva tolto la vita a un uomo senza neppure capire come avesse fatto. Era stato così diverso, dal dare ordine agli altri di farlo.

Le mani le tremavano e le gambe faticavano a reggerla. Sentiva la testa pulsare, tanto forte da farle male, e il cuore galoppava nel petto come uno stallone impazzito in cerca di una via di fuga.

Senza dire più nulla a nessuno, Caterina risalì in superficie, il freddo delle segrete ancora nelle ossa, e andò nella sua stanza.

Non era ancora sera, ma per lei la notte era già scesa. Non aveva intenzione di interrogare più nessuno, quel giorno.

Aveva infranto una delle leggi morali che credeva reggessero la sua vita. Aveva odiato e criticato aspramente i soldati francesi che avevano massacrato gli abitanti di Mordano senza battersi ad armi pari e ora lei stessa aveva ucciso un uomo indifeso senza dargli il permesso di difendersi.

Ordinare che i prigionieri venissero impiccati, decapitati o uccisi in qualsiasi altro modo era diverso, perché c'era l'opportunista coperta della legge ad ammantare il tutto con un'aura di legalità e giustizia.

Uccidere un ragazzo a quel modo, in seguito a uno scatto d'ira incontrollabile, equivaleva a buttarsi in un abisso senza fondo.

Quelli che l'avevano chiamata assassina – per Dio, anche Giacomo lo aveva fatto – avevano avuto ragione.

Chiamò in stanza due servi e al primo ordinò di andare nel suo laboratorio e di prendere la bottiglia con la scritta 'a far dormire', mentre al secondo chiese di mandare a chiamare Mongardini.

Il primo fu più celere e quando il Capitano arrivò, Caterina, che si era appena ripulita dal sangue di Ludovico Marcobelli, si stava già versando una dose ben calcolata di pozione in un calice.

“Comandi, mia signora.” disse Mongardini, i piccoli occhi che correvano curiosi alla boccetta.

“Interrogate Pavagliotta. Voglio che vi facciate dire tutto quello che sa. Tutti i nomi che può darvi, tutto quanto.” ordinò Caterina: “E poi, domani, quando vi manderò un segno, voglio che andiate ad arrestare i miei figli Ottaviano e Cesare.”

 
   
 
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