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Autore: Nightkey    18/03/2017    0 recensioni
A diciannove anni, Rebecca Montagnani sa molte cose. Sa di avere le capacità per essere ammessa alla facoltà di Ingegneria, sa che per dover frequentare quell'Università dovrà andare a vivere in un'altra città e abbandonare i suoi vecchi amici, sa che d'ora in poi la strada per arrivare in cima non sarà affatto facile. Nuova vita, nuovi ambienti e nuove amicizie. Un nuovo mondo che schiuderà il suo cuore aprendolo all'amore.
La vita prende spesso delle svolte inaspettate. A volte occorre solo assecondarle e lasciarsi trascinare dal fluire degli eventi, perché vivere è anche sfidare l'imprevedibile.
Questa storia è stata scritta in collaborazione con un'altra autrice.
Tale storia appartiene all'IronìaNoodles team.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Una scarica di adrenalina attraversò il mio corpo. Mi sentii come se fossi stata appena colpita da un fulmine e la sua elettricità si stesse propagando nella mie vene, conferendomi maggior energia e velocità. Focalizzai la mia attenzione su Federico e sul suo ghigno divertito a pochi passi da me. Agii d'istinto e raccolsi un altro gavettone dal mio zaino di fortuna. Lo sferrai nella sua direzione con tutta la forza che mi ritrovai in corpo, questa volta centrando il bersaglio. Servirono a ben poco i suoi ottimi riflessi che gli suggerirono di accovacciarsi al suolo. La traiettoria parabolica del mio determinato, seppur debole, lancio difatti lo colpì ugualmente all'altezza delle spalle, inumidendogli i ricci castani e riempiendo le lenti degli occhiali di innumerevoli gocce d'acqua. 
Non ne sembrò particolarmente lieto, così cacciò gli occhiali in tasca e sollevò il suo sguardo irato su di me. «Questa te la farò pagare, promesso.»
Le mie labbra si distesero in un sorriso provocatore. «Provaci.»
I suoi occhi brillarono di un che di divertito ed eccitato dalla sfida. «Non vedo l'ora.» E si scagliò nella mia direzione.
Senza alcun indugio, spronai le mie gambe a correre, ampliando le falcate più di quanto mi fossi mai sforzata di fare. Non ero mai stata una ragazza da jogging e sicuramente la corsa non era il mio punto forte. Eppure sentivo ancora i riverberi del fulmine farsi largo in me, prendendo vita e agevolandomi in quella fuga. Quando una fitta al fianco iniziò a farsi sentire con tutta la sua prepotenza, decisi che a quel punto correre non sarebbe servito più a molto. Mi appiattii contro il tronco di un arbusto, in silenzio e in attesa. Il mio corpo sembrò esser grato di quella momentanea quiete e ne approfittò per riprendersi, fin quando il dolore non scemò del tutto. 
Dopo diversi istanti, Federico ancora non mi aveva raggiunta. Strano, visto che era solo qualche decina di metri dietro di me. Poi udii la sua voce e tutto fu più chiaro: «Non mi troverai mai. Questo lo sai, vero?» 
Si era nascosto anche lui, tuttavia... be', mossa davvero stupida la sua. Sorrisi fra me e me, consapevole di essere tornata in vantaggio. Per quanto potesse essere stato bravo a nascondersi, avrei potuto tranquillamente seguire la sua voce e rintracciarlo. E la voce, ne ero sicura, era venuta da sinistra. Sbirciai da dietro il fusto contro cui mi ero appiattita e intravvidi un suo braccio sporgere da un tronco poco lontano da me. Doveva essersi nascosto anche lui, come me, dietro quell'imponente tronco. Raccolsi un palloncino, prima di richiamare la sua attenzione a gran voce. Come previsto, si girò nella mia direzione e riuscii a centrare in pieno il suo volto, con un'abilità che non sapevo di possedere fino ad allora. 
«Questo è per il gavettone di prima!» urlai mentre il colpo andava a segno.
Sembrò disorientato da quell'improvviso attacco, poi iniziò a reagire. Mi sporsi per un nuovo lancio, ma lui fu più svelto di me e il suo gavettone mi colpì ad una gamba. «Ho un po' di gavettoni da vendicare anch'io, sai?» mi giunse la sua voce mentre si riparava nuovamente dalla mia traiettoria. 
«Oh, be', se la mettiamo così...» Mi spostai ad un tronco vicino, cosicché la sua figura mi risultò ben visibile anche da nascosta. Gli lanciai un nuovo palloncino, questa volta colpendo di striscio solo il suo gomito. «Questo era per aver riso dei miei errori del test!»
Fui raggiunta dalla sua risata bassa e mi sentii punta sul vivo. «Ma dai, te ne ricordi ancora? Seriamente?»
Tirai fuori il capo e vidi che anche lui aveva fatto lo stesso. Sollevai le spalle e aprii le braccia, spazientita. «Sì! Ci sono rimasta parecchio male.» Gli lanciai un altro gavettone, questa volta più per la frustrazione che per il gioco, ma lo mancai.
«Stavo scherzando, non puoi essertela presa sul serio!» Sgranò gli occhi, ma il sorriso divertito non lo aveva ancora abbandonato.
«Be', non sei stato molto divertente.» Assottigliai gli occhi e mi riparai nuovamente dietro al mio fusto.
La sua voce mi raggiunse subito dopo, con un'affermazione inaspettata: «Tu mi fissavi. Come la mettiamo?»
Non resistetti alla tentazione e uscii metà corpo ancora una volta allo scoperto. Un'espressione disgustata e sbigottita prese vita sul mio volto sentendo quelle parole. «Scusa?»
«Ah, le ragazze di oggi! Nessun pudore!» mi provocò. 
«Eri tu a fissare me in quel modo dannatamente irritante!»
Fece spallucce, scuotendo le spalle. «Avevi attirato la mia attenzione e il tuo viso mi era familiare.» Poi, notando il mio sguardo interrogativo, aggiunse: «Non ero rimasto ammaliato dalla tua bellezza o roba del genere, Chika. Non illuderti.» Concluse la frase ammiccando, così gli tirai un nuovo gavettone in pieno volto, giusto per il gusto di eliminare quel ghigno divertito che ancora non lo aveva abbandonato.
«Che mi dici allora della gara di logica?» lo provocai ancora, riportando a galla vecchi ricordi. 
Sembrò confuso da quello slittamento temporale. «Cosa?» Inarcò un sopracciglio, fastidiosamente divertito da quella situazione. «Ho urtato i tuoi sentimenti anche in quell'occasione?»
«Tu non hai urtato i miei sentimenti, okay?» risposi, irritata. «La gente non urta i miei sentimenti. La gente mi irrita, il che è diverso.» 
«Quindi io ti irrito» concluse, meditabondo, mentre con il pollice e l'indice accarezzava la barbetta sul mento. «Be', me ne ricorderò la prossima volta che avrò intenzione di offrirti delle caramelle.» Qualcosa, forse un cambiamento nella mia espressione, gli fece poi aggiungere: «Ah-ah, eccolo lì. Il tuo punto debole sono le caramelle quindi.»
«Di che parli?» chiesi, confusa.
«Parlo della delusione che si è dipinta sul tuo volto non appena ho nominato le caramelle.» Approfittò della mia momentanea distrazione per riprendere il gioco. Un gavettone mi colpì al petto e ne tirai un altro fuori a mia volta. 
«Tutti amano le caramelle, ed io più di tutti, sì.» Sferrai il mio colpo, centrando il mio bersaglio all'altezza del mento che poco prima aveva accarezzato.
Una smorfia gli increspò i lineamenti per quel nuovo afflusso di acqua. «Ti deve piacere proprio la mia faccia per mirare sempre a quella.» Mi sorrise, inclinando le labbra in un sorriso sghembo che normalmente avrei trovato attraente in un altro contesto e su un altro soggetto. Ma sul volto di Federico non fece altro che incrementare ancora di più il mio astio nei suoi confronti.
Mi nascosi dietro al mio tronco, quando fui distratta da una chioma bionda e scombinata che si intravvedeva da un cespuglio sulla mia destra, circa sei tronchi dopo il mio. La chioma si sollevò per mirare a qualcuno nella direzione opposta e lo vidi: Dario, con gli occhi socchiusi per la concentrazione e il busto inarcato in avanti, era pronto a sganciare la sua bomba a mano. Sperai che la mia buona mira non mi avesse di nuovo abbandonato e raccolsi un gavettone. Me ne restavano ancora solo un paio, quindi errori di lancio non erano consentiti. Lo tirai con incredibile attenzione e funzionò. In tempo di niente la plastica rosa del palloncino aderì ai capelli crespi esattamente sul capo, mentre dei flutti d'acqua gli scorrevano ai lati del volto. Saltellai sul posto, presa dall'euforia del mio momento di gloria. 
Poi Dario mi vide ed uscì allo scoperto con uno sguardo che oscillava fra il divertito e l'irato. «Come hai osato colpirmi alle spalle?»
«Senti da che pulpito viene la predica!» gli strillai di rimando. «Credi non sappia che eri insieme a Federico quando mi avete colpito con quel gavettone poco fa?» Incrociai le braccia al petto, sperando che quella posizione mi conferisse una certa aria da dura. Poi lo vidi avanzare nella mia direzione, così mi accovacciai di colpo e ruzzolai fino a raggiungere un basso e fitto cespuglio. Realizzai che i cespugli stavano diventando il nostro terreno di difesa, mentre gli alberi quello di attacco.
«Fatti vedere, sei sleale!» mi raggiunse la voce di Dario. Lo intravvidi da uno spiraglio fra le foglie, mentre si guardava intorno alla mia ricerca, fino a raggiungere il punto in cui prima si trovava Federico. Aspetta, che fine aveva fatto Federico? Era lì fin quando... Di colpo sentii delle mani poggiarsi sulle mie spalle. Mi tirarono su, svelando al biondo la mia posizione. 
«Dario» riconobbi la sua voce inconfondibile, perché velata sempre da dell'ironia, alle mie spalle. «Adesso è tutta tua.»
L'altro sorrise soddisfatto vedendomi indifesa, stretta in una morsa dalle braccia possenti di Federico. «Grazie, amico.»
«Sì, grazie tante, amico» gli feci eco, caricando di sdegno l'ultima parola. Mi divincolai per quanto possibile, ma il suo petto premeva contro la mia schiena impedendomi ogni movimento azzardato. «Dannazione, lasciami andare!»
Sentii il suo respiro caldo solleticarmi la pelle sensibile del collo quando parlò di nuovo, questa volta sussurrandomi ad un orecchio. «E adesso dimmi: da uno a dieci quanto sono irritante in questo momento?»
«Non credi sia troppo ristretta come scala?» dissi, facendo leva sulle sue braccia tese a bloccare le mie dietro la schiena.
«Sì, hai ragione.» Lo sentii ridere e mi lasciai sfuggire anch'io una risata, seppure tentassi ancora di fare la dura. «Dario, adesso!»
«No!»
Ma ormai era troppo tardi. Il gavettone mi inzuppò la maglia e l'impatto fece cadere per terra i miei ultimi due palloncini. Li guardai ruzzolare via, facendosi strada nel terriccio leggermente in discesa. Le risate dei ragazzi mi riempirono le orecchie e sembrarono non voler finire più. Approfittai della temporanea distrazione del mio rapitore per pestargli il piede, ma lui non batté ciglio. E se sentì dolore, sicuramente non lo diede a vedere. Fece scivolare le mani lungo i miei fianchi, stringendomi poi alla vita e mi sollevò di colpo, in modo che i miei piedi non potessero più toccare terra. 
«E adesso come farai, Chika?» mi schernì. 
Ritornai indietro con la mente ad una calda serata estiva di quando avevo appena dieci anni. Stavo giocando con dei miei amici ad un gioco appena inventato. Ognuno di noi indossava un cappellino e l'obiettivo del gioco era proprio rubare i cappellini della squadra avversaria. Io capitanavo la squadra delle bambine e ci trovavamo in netto svantaggio rispetto alla squadra dei maschi. In quanto leader, continuavo ad incitare le mie compagne di squadra a non arrendersi e seguitavo ad elaborare sempre nuove strategie di attacco. La mia euforia nel gioco mi accompagnava sin da sempre e mi aveva sempre aiutato ad essere abile, quanto a divertirmi. Ai tempi ero rimasta da sola contro la mia cotta infantile ed altri due bambini. Avevo i loro cappellini, ma ero in trappola: loro volevano il mio. Così, quando riuscirono finalmente ad ottenerlo, mi sedetti a terra e finsi di stare per piangere. In quel modo speravo di riuscire a convincerli a restituirmi ciò che era mio, facendo leva sul loro senso di colpa e sul mio sguardo triste. E così era stato.
Tornata al presente, realizzai che, se avessi smesso di scalciare e di dimenarmi, le vie d'uscita da quella situazione, per come la vedevo io, sarebbero state due: nel migliore dei casi, uno dei due ragazzi alla fine avrebbe provato compassione per me, non gioendo più nel vedermi reagire, e a quel punto mi avrebbero lasciata andare, cosicché io potessi rubare le loro munizioni e correre a nascondermi nel bosco, questa volta con maggior cura; nel peggiore dei casi, avrebbero continuato a bersagliarmi di gavettoni, fin quando le loro munizioni non fossero terminate e il gioco finito.
Ma, ad essere sincera, non mi entusiasmava nessuna delle due opzioni. Eppure, mi sembrava di non avere altra scelta, finché qualcosa non attirò la mia attenzione. Un urlo ci costrinse a voltarci, mentre sembrava aumentare nella nostra direzione sempre più, secondo dopo secondo. Vedemmo Davide farsi largo fra le basse fronde e raggiungerci correndo, con le braccia allargate e le labbra schiuse in un grido. La bandana gli era scivolata giù dalla fronte fino al collo e gli abiti sporchi di terriccio umido suggerivano che fosse caduto almeno una volta. Ci superò ancora travolto nella sua frenesia e, solo dopo qualche istante, riuscii finalmente a capire da cosa stesse scappando, o meglio da chi. Le gemelle emersero da tutto quel verde naturale, continuando a lanciare gavettoni davanti a sé. Si erano dipinte in volto delle spesse strisce nere nello stesso modo in cui si vede fare in alcuni film d'azione, e quei segni sembravano conferire loro un'aria minacciosa e aggressiva, in netto contrasto con l'aspetto angelico che davano loro i tratti delicati del volto e i capelli biondi, ora raccolti alla rinfusa. Non appena si accorsero di me, Federico e Dario, si arrestarono di colpo e iniziarono a bersagliare i ragazzi. 
Sentii Federico imprecare dietro di me, mentre finalmente si decideva a lasciarmi andare a causa dei continui afflussi d'acqua senza tregua. «Dario, andiamo!» lo sentii gridare all'amico. Entrambi si dileguarono, tentando invano un ultimo contrattacco, fin quando non seguirono le orme di Davide e non riuscii più a vederli.
«Grazie dell'aiuto, ragazze» dissi sorridendo con gratitudine. Un starnuto mi scosse e mi strinsi le braccia al petto.
«Ricordi il piano di Eleonora?» mi chiese la gemella con la felpa verde, Giulia. Annuii. 
«Ottimo, è arrivato il momento, dobbiamo andare verso il lago» concluse la sorella. Mi cedettero qualche gavettone, mentre avanzavamo fra i rami spezzati e i bassi cespugli. Recuperammo Cris, che si era avventata contro Carlo, e poi ancora Elle e Luca. I due litigavano selvaggiamente, ignorando la battaglia d'acqua che si stava svolgendo intorno a loro: Elle con i capelli rossi gonfi di nodi che la facevano somigliare ad una leonessa sul punto di attaccare; Luca sporco di fango fin sopra le ginocchia. Mi chiesi come avessero fatto a ridursi in quello stato selvaggio.
«Ehi, Elle» la chiamai. Lei si voltò immediatamente nella mia direzione, ignorando Luca che cercava di farle cambiare idea su qualcosa che, a quanto pareva, era stato il centro della loro discussione. «Al lago!» aggiunsi poi. Colsi una scintilla radiosa nei suoi occhi e, ricordandosi del suo stesso piano, ci raggiunse di corsa. 
Cristina le tolse una foglia autunnale dalla chioma aggrovigliata, poi: «Stavate litigando sul serio voi due?»
«Sì, qualcosa del genere.» Scosse le spalle, sorridendo per alleggerire la situazione. «Non era nulla di che. Andiamo, c'è una questione più importante da risolvere adesso.»
Fu la prima a muoversi e tutte le andammo dietro, ma, una volta giunte al lago, i ragazzi ci ignorarono, intenti com'erano a prepararsi per un tuffo nel lago, mettendo da parte i vestiti superflui. 
«Be', ci stanno facilitando il gioco buttandosi da soli in acqua» proruppe Silvia, interrompendo il silenzio del gruppo. Magari si erano semplicemente stancati di giocare e avevano deciso di chiudere così in bellezza. Tipico dei ragazzi.
Poi però successe qualcosa che non avevamo previsto. I ragazzi fecero dietrofront e corsero nella nostra direzione, incuranti dei gavettoni che iniziammo a lanciare contro di loro, intuendo le loro intenzioni nient'affatto benevole. Ma ormai era troppo tardi ed eravamo diventate delle pedine nelle mani della squadra vincente. Ci afferrarono, una a testa, caricandoci in spalla come se nulla fosse, mentre Nino gestiva il tutto da un punto indefinito vicino alla sponda. Lo sentii gridare e i ragazzi corsero verso il lago e noi con loro. Battei i pugni contro la schiena di Dario, sentendomi ridicola per quel comportamento infantile, ma con la vana speranza che alla fine si stancasse e mi lasciasse andare. 
Poi successe: si tuffarono nel lago. L'acqua gelida mi penetrò fin dentro le ossa, intorpidendo i miei muscoli. Scalciai per liberarmi dalla forte presa di Dario che ancora mi sovrastava quasi per intero e, quando finalmente riaffiorai in superficie, l'aria fresca di montagna mi fece battere forte i denti. Vidi il volto sorridente di Dario proprio di fronte a me e non riuscii a resistere alla tentazione. Mi avvinghiai a lui e feci pressione sul suo capo tenendolo sott'acqua per qualche istante. 
«Sei un bastardo» gli dissi quando lo feci riemergere.
Dario mi rivolse un sorriso a trentadue denti, di quelli che ti danno motivo di sorridere a tua volta. «Un bastardo a cui vuoi bene» mi rispose allora, ridendo di gusto.
«Questo non è vero e lo sai.» Risi anch'io insieme agli altri ragazzi e l'aria si riempì delle nostre risate, mentre il sole tramontava sulla linea dell'orizzonte, diffondendo ovunque il suo alone rossiccio e la superficie del lago brillava dei nostri riflessi purpurei.
Quando il sole scomparve alla nostra vista, ci trascinammo fuori dall'acqua, fino allo strato di ciottoli che circondava il lago. Riuscimmo a distinguere senza troppa difficoltà i segni lasciati da Nino sui tronchi all'andata, ma, a causa della stanchezza, impiegammo comunque quasi il doppio del tempo necessario per tornare a casa.
Carlo, Luca e Dario si occuparono di accendere il camino con la legna raccolta ad inizio giornata e finalmente il calore iniziò a sciogliere i corpi gelidi. Cristina recuperò diverse coperte e tovaglie dai vecchi cassettoni delle camere da letto, in modo tale che ognuno di noi avesse qualcosa di concreto con cui asciugarsi in attesa che il calore del fuoco riscaldasse l'ambiente. Sgranocchiammo i resti del pranzo, ma nessuno aveva davvero fame, così, una volta asciutti, decidemmo di salire in terrazza.
Spegnemmo le luci della casa, in modo tale che l'unica illuminazione provenisse da un lampione lontano, in strada, oscurato in buona parte dall'abitazione stessa. Presi posto accanto a Cris e ci sdraiammo su un telo steso per terra. Anche gli altri fecero lo stesso e per un po' ognuno restò da solo con i propri pensieri, contemplando il meraviglioso cielo puntellato di stelle luminose. Cercai di distinguere le due costellazioni del Piccolo Carro e del Grande Carro, perdendomi in quell'intricata rete stellata. 
Poi la vibrazione insistente del cellulare di qualcuno ci scosse da quel torpore, appena in tempo per vedere il volto di Federico illuminato dalla luce del display mentre leggeva il nome di chi lo stesse chiamando. «Scusate.» Si tirò su di colpo e si allontanò abbastanza da rendere privata la conversazione.
«Allora, alla fine ve l'abbiamo fatta pagare» proruppe Davide rivolgendosi alle gemelle.
Giulia ridacchiò, tirando una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro. «Possiamo dire che ne siamo usciti tutti vincitori, sì.»
Elle, sdraiata accanto a Cris dal lato opposto, si sollevò sui gomiti. «A proposito, come diamine avete fatto quelle strisce sulle guance? Non sarà stato vero fango spero.»
Le due bionde risero di gusto, poi Silvia le rispose: «No, certo che no. Mi sono solo ritrovata un matitone per gli occhi in tasca e ne abbiamo fatto un uso alternativo.»
Sorrisi al ricordo di loro due che, come due guerriere della foresta, giungevano in mio soccorso. «Be', peccato, il fango sarebbe stato più d'effetto» dissi con un pizzico di delusione nella voce.
In quel momento Federico ci raggiunse di nuovo, cacciando il cellulare in tasca. 
«Allora, chi era?» gli chiese Carlo con sincero interesse.
«Il mio medico.» Fece spallucce e tornò a sedersi sul muretto. «Voleva sapere della mano.»
Era tardi per una chiamata del medico e tutti sembravano esserne consapevoli, ma nessuno obiettò la sua risposta. Perlopiù la mano stava benissimo, tanto da essere riuscito senza difficoltà a sollevarmi da terra nel bosco quello stesso pomeriggio. Ma chiunque fosse stato al telefono, Federico non voleva si sapesse, così tornammo a parlare del nascondino ancora per ore, fin quando gli sbadigli non iniziarono a sostituirsi alle parole. 
Prima le gemelle, poi anche Carlo, Davide e Dario scesero al piano inferiore, preparandosi ad una breve notte di sonno: ancora un paio di orette e sarebbe stata l'alba.
«Becks, scendiamo anche noi?» mi chiese Cristina, accanto a me. Mi volsi verso di lei e, in tutta risposta, sbadigliai. «Elle, tu?»
La rossa era raggomitolata fra le braccia di Luca, beata in quella culla personale. «Resto ancora un po' io.» Le sorrisi e spinsi Cristina verso le scale. 
«Aspetta, devo recuperare le coperte prima.»
«Okay, ti aspetto.» Mi avvicinai al muretto cui erano appoggiati Nino e Federico in un irreale silenzio, mentre ancora ammiravano le stelle nel cielo terso. 
«Per quanto mi riguarda, nulla so con certezza.» Federico ruppe il silenzio con la sua voce bassa e calda al tempo stesso. «Ma la vista delle stelle mi fa sognare.» Mi voltai automaticamente nella sua direzione e lo vidi appoggiare il mento sulle mani incrociate, mentre il suo sguardo si perdeva chissà dove nell'infinità di quel cielo notturno. 
«Potrei rubarti questa frase, sai?»
Quando si volse a guardarmi, mi sorrise. «Be', in realtà lo ha già fatto Van Gogh.»
«Oh.» Sorrisi, sorpresa dalla citazione. «Ora si spiega tutto.» 
Con gli occhi ancora puntati nei miei, fu sul punto di dire qualcosa, ma Cristina tornò con le braccia stracolme di coperte e mi tirò per un braccio, invogliandomi a seguirla. 
«Okay, devo andare. Buonanotte.»
Continuò a guardarmi, senza dir nulla. Poi, quando fui sul punto di scendere le scale: «'Notte, Chika.» Ma non c'era nulla di ironico nel suo tono.

  
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