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Autore: simocarre83    08/05/2017    1 recensioni
Secondo racconto che parte dopo l'epilogo del primo. quindi se volete avere le idee chiare sarebbe, forse, il caso di leggere anche il primo. Ad ogni modo, una brutta notizia che presto diventano due, due vittime innocenti, loro malgrado, nuovi personaggi e purtroppo nemici che compaiono o RIcompaiono. Ma sempre l'amicizia che ha, come nella vita, un ruolo fondamentale.
Genere: Drammatico, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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GIUSEPPE J: LA VERA AMICIZIA

Aveva il cuore che gli batteva fortissimo. Da quando si erano chiuse le paratie, era passata circa un’ora ma ancora non c’era nulla da fare. Niente che potesse in qualche modo fargli capire che fosse arrivato il suo turno, di combattere, di parlare, di comportarsi.
La porta non si era neanche aperta. Lui aveva indossato il casco ma non aveva neanche acceso la tuta. non aveva senso. Avrebbe solo scaricato le batterie. L’orologio della tuta segnava quasi le 19.00 aveva peraltro sentito anche le paratie intorno a se arrivare a vibrare quando l’acqua le aveva raggiunte, con la conseguenza della perdita di ogni forma di vita presente in quelle altre sezioni. Chissà se il suo amico Giuseppe e Roberto erano riusciti a concludere la loro missione. Chissà se anche Michele ci sarebbe riuscito. Chissà se Francesca era già sana e salva. E se ci fosse stata sua mamma dall’altro lato della porta, lui sarebbe stato in grado di aiutarla?
Si sentì solo. Gli veniva da piangere. Non sapeva quello che era successo ai suoi cari, genitori e amici. Non sapeva quello che sarebbe successo a lui. Comunque non sapeva neanche quando gli sarebbe successo e per mano di chi. Gli toccava solo aspettare. Solo che quella attesa lo rendeva sempre più nervoso.
Fu proprio a quel punto che accadde quello che sperava e temeva allo stesso tempo: il timer sulla porta si attivò, segnando il tempo alla rovescia, a partire da un’ora. In quel momento, dalla parte opposta della stanza rispetto alla porta, gli parve di sentire un colpo. Capì che doveva esserci qualcuno da quella parte, anche se l’unica persona di cui poteva ricordarsi in quella posizione era proprio suo padre. Ma un secco rumore metallico, decretò l’apertura della porta quindi capì di non avere tempo da perdere in ulteriori pensieri.
Corse immediatamente dentro. Attivando al tempo stesso la tuta. tanto, male che fossero andate le cose, da lì a poco meno di sessanta minuti non gli sarebbe comunque servita. Appena ebbe oltrepassato la porta, questa si chiuse. E si ritrovò in un altro ambiente. Una stanza appena più grande, apparentemente senza uscita.
“Ehi! Voi! Che scherzo è questo?! mi state prendendo in giro?” urlò. Su ciascuna facciata delle pareti che formavano una superficie convessa contro lo spessissimo muro che aveva appena varcato, entrando per quella porta ormai chiusa, c’erano dei timer, che segnavano tutti il tempo che rimaneva. Ed erano, peraltro, l’unica fonte di luce di quell’ambiente. Quelle pareti erano metalliche. Qualcosa nella sua testa gli diceva che era meglio attivare un campo di forza, leggero, ma protettivo. E gli andò bene. Dopo meno di un minuto, sentì un boato enorme, e le pareti che si spostavano, richiudendosi su di loro. accerchiandolo sempre di più. Il campo magnetico incominciò ad agire e il suo corpo venne costretto tra due pareti mobili ed il muro spesso, in un triangolo, largo al massimo cinquanta centimetri. Per poi cambiare dopo altri venticinque secondi. Assumendo una nuova conformazione.
La sua mente, allora, incominciò a ragionare. Era come se si trovasse in un labirinto di metallo, impenetrabile, perché cambiava continuamente.
Passarono circa tre minuti. Poi ebbe una sensazione famigliare. Come se si fosse già trovato in quel punto.
-Massì! Non mi sono ritrovato nello stesso punto. Ma nella stessa conformazione-
Allora si impegnò ancora di più. Passarono circa dieci minuti, quando, dopo essere ritornato per tre volte nella stessa conformazione, capì che stando fermo in quel punto, le pareti tornavano alla prima posizione dopo quindici cambi. E quello era il primo passo.
Ma, purtroppo, quella era un’informazione che gli diceva tutto e non gli diceva nulla sulla sua situazione.
Dovette ragionare ancora di più. Allora decise di mettersi in quella posizione “neutra” cioè quella in cui se rimaneva fermo non accadeva nulla. E incominciò ad usare tutte le potenzialità della sua tuta, come Frem gliel’aveva preparata.
Attivò sia il sonar che il radar. Quando le pareti erano in movimento ed ogni volta che erano in movimento, lasciava partire i due segnali, sia quello sonoro che quello elettromagnetico. Sulla base delle rilevazioni effettuate, al primo movimento delle pareti, riuscì a rilevare tutte le posizioni dei perni intorno ai quali giravano le pareti. E poi partì lo studio. Erano dei motori elettrici che attivavano i perni. Questo significava che non era un nemico che con i suoi campi magnetici faceva muovere le pareti. E quindi nessuno avrebbe cambiato il movimento programmato.
Inoltre comprese che continuando avrebbe potuto stabilire benissimo i movimenti da fare tra uno spostamento e l’altro per arrivare dall’altro lato di quello che aveva capito essere un locale molto ampio. Almeno, per arrivarci in vita. Poi, quello che avrebbe incontrato dall’altra parte non lo sapeva. Ma intanto stava incominciando a capire come muoversi. Gli ci vollero altri venti minuti per avere la mappa completa con il percorso sicuro per uscire da quel labirinto. A quel punto, quando era già passata mezz’ora, Giuseppe poté partire. Inserì il pilota automatico così la tuta lo guidava senza possibilità di errore da parte sua. La traiettoria migliore e più veloce includeva un tragitto che durava tre cicli completi, quindi nove minuti. Incominciò.
Nove minuti dopo arrivò alla porta della stanza successiva.
Era una porta con una serratura, ma non era chiusa a chiave. Quindi gli bastò girare la maniglia per aprirla. E lo fece. D’altra parte mancavano venti minuti allo scadere del tempo e ancora non sapeva chi aveva davanti e chi doveva salvare. Gli bastò oltrepassare quella porta per comprenderlo.
Davanti a lui, oltre una parete di vetro trasparente ma spessa almeno venti centimetri, c’era Antonio, il suo amico e compagno di classe. era conciato veramente male. Pieno di tagli, e contusioni. Sembrava come se avesse subito lo stesso trattamento che avevano subito suo padre, Giuseppe e Michele 24 anni prima.
“Antonio!”
“Giuseppe! Aiutami!” gridò quest’ultimo.
Solo a quel punto Giuseppe scorse la figura in piedi di fianco a lui. Con in dosso la tuta, e con il casco che ne oscurava il volto. In piedi, in silenzio. Inutile negare che si prese un colpo nel momento esatto in cui si era accorto di quella presenza. Però se l’aspettava. Anche se ancora non sapeva…
“Chi sei?! Fatti riconoscere se ne hai il coraggio!”
La visiera del casco si illuminò. Permettendogli di vedere il suo volto.
E lì, sì che Giuseppe si spaventò. Perché dietro a quella visiera, Giuseppe vide il volto della persona che meno di tutte si aspettava in quella situazione. Della persona che, per quanto gli sia stato vicino in quei mesi, meno di tutti centrava in quella storia. Vide Andrea.
“Ma… ma Andrea, che cosa ci fai tu qui?!” chiese in un tono di voce ben più docile di quello che aveva utilizzato prima.
Il braccio di Andrea si sollevò. Giuseppe venne sospinto da un campo magnetico molto forte dall’altra parte di quella stanza, buttandolo a terra.
Giuseppe, incredulo, ebbe appena il tempo di rialzarsi, prima di essere gettato ulteriormente indietro da un altro campo magnetico, forte come il primo e proveniente dalla stessa fonte.
“Ma che cosa ti è preso? Sei impazzito?!” gli urlò il ragazzino, incredulo ed incapace di reagire a quell’attacco, fosse solo per la persona da cui quell’attacco proveniva.
Andrea cominciò a camminare, mentre Giuseppe si rialzava da quel colpo. Andrea si avvicinò nuovamente a lui, tenendo sempre alzata la mano. Un altro colpo fece nuovamente sbattere Giuseppe contro il muro di acciaio.
“Perché! Cosa ti ho fatto per meritarmi tutto questo!?” chiese nuovamente e sempre più debolmente Giuseppe.
Non capiva nulla. non capiva il motivo per cui stava accadendo quello. Non riusciva a giustificare l’attacco di Andrea, ma non voleva neanche crederci.
“Per uscire vivo da questa stanza dovrai uccidermi!” disse, per tutta risposta Andrea.
“Ma perché?!” chiese ancora Giuseppe.
La visiera si era nuovamente oscurata da che Andrea aveva incominciato a parlare, ma quella era veramente la sua voce.
“Sei ormai rimasto solo!” disse Andrea. E poi continuò nel modo peggiore che avesse mai potuto sentire Giuseppe.
“Giuseppe, Anna, Michele, Simone e Roberto sono morti!” gli disse Andrea.
“Cosa?!” chiese incredulo Giuseppe.
“Anche Francesca è morta. L’ho uccisa con le mie mani!” rispose Andrea “E tuo padre e tua madre sono stati i primi ad essere stati uccisi, direttamente da Marco!”
Intanto, Antonio, dall’altra parte della cortina di plexiglass implorava Giuseppe di liberarlo.
Da quindici secondi Giuseppe aveva smesso di vivere. Non nel senso che fosse morto. Ma quello che aveva sentito dal suo amico era un insieme di informazioni, snocciolate come se avesse assistito ad un telegiornale che raccontava delle stragi in medio oriente, che l’aveva ucciso. Tolto letteralmente la voglia di vivere.
Suo padre, sua mamma, Giuseppe, Anna, il piccolo Simone, come lo chiamava affettuosamente, tutti morti?
E Michele, Roberto, il suo amico, e Francesca, per cui provava la prima vera sensazione di amare qualcuno, anche loro tutti morti?
-E io che cosa ci faccio qui?- pensò –perché mi hanno fatto aspettare fino a questo punto, e ancora non mi hanno ucciso?-
Poi fu un altro, il sentimento che lo colpì. Qualcosa di più forte. ma al tempo stesso anche di più antico, ancestrale, animale. Provò, per la prima volta in vita sua una incontrollabile ira. Verso la persona che aveva causato tutto questo, verso Marco, e verso la persona che gliel’aveva detto, verso Andrea.
Non sapeva perché gliel’avesse detto, non sapeva neanche perché l’aveva fatto, perché avesse ucciso Francesca, era solamente arrabbiato, con tutti.
Poi vide qualcosa di strano. Stranissimo.
Andrea abbassò il braccio. Poi lo rialzò, quasi di scatto. Poi lo riabbassò, con molta forza.
Poi lo rialzò. E questa volta partì un altro colpo. E Giuseppe ripiombò a terra.
“Voglio sapere perché mi dici queste cose! Voglio sapere perché le hai fatte!” urlò Giuseppe. levandosi il casco. Non gli importava niente della tuta. Voleva semplicemente avere quelle risposte.
Non capiva più niente. Non capiva più cosa ci faceva lì. Non capiva cosa volevano adesso. Non avrebbe mai pensato che tutte quelle brutte notizie gli sarebbero arrivate da sole. Non aveva neanche realizzato l’entità di quelle notizie. Non sapeva neanche come gestirle. Quel nubifragio di sentimenti, lo stava solo sfiorando, almeno per il momento. In parte a causa della situazione vissuta fino a pochi minuti prima, al buio e nel silenzio assoluto. In parte per lo shock di aver visto Andrea in quella situazione. Per quale motivo c’era proprio lui, lì? E quale era la motivazione di quel movimento strano del braccio di prima? Erano queste le domande che circolavano nella sua testa. Più di ogni altra cosa.
“Voglio semplicemente uccidere anche te!” rispose Andrea.
“Non è possibile! non ti credo! Non può essere possibile! non ti crederò mai!” urlò a quel punto Giuseppe. Che era pienamente cosciente del fatto che, come gli aveva detto suo padre prima di quell’esperienza, probabilmente le ultime cose che gli aveva detto nella sua vita, tutto avrebbe potuto fare. tutto, meno che ascoltare quello che i suoi nemici stavano dicendo.
Andrea fece partire un altro colpo. Che fece sbattere nuovamente Giuseppe contro il muro.
Mancavano ormai quindici minuti alla fine di quella esperienza. In cinque minuti non aveva fatto altro che prenderle e rovinarsi la vita.
In quel momento, però, gli venne in mente una cosa. Gli venne  in mente il colpo che aveva sentito prima di entrare per la porta. Quello era suo padre. Suo padre? Ma allora significava che Andrea gli stava dicendo una bugia. Perché?
“Mi dispiace Andrea, ma non ci vedo chiaro in questa storia! E adesso le risposte, forse ci metterò un po’ di più, ma le troverò comunque da solo!” disse Giuseppe. inserendo il casco e riaccendendo la tuta.
Se Andrea aveva detto una bugia su suo padre, evidentemente, stava dicendo una bugia anche su tutto il resto.
Attivò delle luci che puntò contro Andrea. Era l’unica cosa che poteva ragionevolmente fare, oltre a, naturalmente, attivare un campo protettivo. Non avrebbe più subito passivamente quella situazione.
Fu a quel punto che si accorse di due particolari. Prima di tutte la luce fece breccia nella visiera del casco. E questo gli permise di vederlo un’altra volta in viso. E scorse una lacrima che stava scendendo sulla guancia.
Poi fece ancora più caso a quello che stava accadendo. Vide che c’era qualcosa di sottile come un filo di ragnatela che procedeva dal casco di Andrea, verso l’alto.
Andrea lo colpì nuovamente. Ma quel colpo raggiunse Giuseppe, ma non lo fece spostare. Giuseppe lentamente incominciò ad avvicinarsi. Fino a quando non udì distintamente qualcuno parlare.
“Fai un altro passo e gli si spezzerà un braccio!”
Giuseppe si voltò, ma si accorse che la voce proveniva, contrariamente a quella di Andrea, e a quella di Antonio, da un altoparlante.
Decise di non credergli. Purtroppo. Fece un altro passo.
L’avambraccio sinistro di Andrea si contorse fino a spezzarsi a metà. Giuseppe ebbe un colpo e fece un salto indietro. Perché oltretutto sentì anche Andrea urlare. Come non l’aveva mai sentito urlare.
“No! Andrea! Perché?!” urlò anche lui.
Poi più niente.
“Se provi ad avvicinarti ancora o a fare qualsiasi cosa, gli spezzo una gamba!” rispose quella voce, proveniente ancora dall’altoparlante.
Giuseppe era, a questo punto, veramente in crisi. Non sapeva cosa fare. Aveva provocato della sofferenza a Andrea. Sofferenza che non doveva provocargli. Si sentì in colpa.
“Scusami Andrea!” disse, mentre sentiva ancora il suo amico, che piangeva. Evidentemente però, lui stava agendo contro la sua volontà, il suo amico. Anche il tentativo di non colpirlo poco prima, era una evidente dimostrazione di ciò.
Riattivò il sonar. Solo per farsi venire nuovamente in mente il filo della ragnatela. Lo vedeva e lo attirava. Solo in quel momento, acuendo i sensori della tuta, si accorse del fatto che la “ragnatela” era attraversata da corrente elettrica. E allora capì.
Non stavano controllando la mente di Andrea. Stavano semplicemente controllando la sua tuta. Detto questo tutto si sarebbe risolto subito.
“Chiunque tu sia, non so perché l’hai fatto. Non sono un mago, ma ho capito tutto!” esclamò Giuseppe.
Vide la gamba di Andrea che cominciava a muoversi. Ed il suo amico incominciare ad urlare. Fece la prima cosa che gli venne in mente. Si strappò il ciondolo con la moneta bucata, e con una mira pressoché perfetta, la lanciò contro quel cavo. La velocità del lancio bastò a tranciarlo. Immediatamente Andrea cadde per terra. Con il braccio ancora sano si levò il casco.
Allora Giuseppe corse verso di lui.
“Andrea! Scusami per il braccio! Come stai?!”
“Non preoccuparti per me! È lui il bastardo!” rispose Andrea. Indicandogli Antonio.
“Ma lui è legato lì!” osservò Giuseppe.
“Poverini!” sentì. Era la stessa voce di prima, ma non proveniva dalla stessa parte. E solo allora si rese conto che era effettivamente la voce di Antonio.
A quel punto Antonio sollevò la testa. E Simone si accorse che sotto i capelli aveva degli elettrodi.
“Ecco il casco, eh?!” chiese Giuseppe.
“Io sono dalla parte giusta. Io mi salvo!” disse Antonio. Aprendo la porta e uscendo di scena. Poco dopo videro Antonio partire e quel locale allagarsi completamente. Fortunatamente lo spessore di plexiglass non fece allagare tutto il locale. Per fortuna o purtroppo. Perché erano completamente rinchiusi a un centinaio di metri sotto il livello del mare.
“Scusami Giuseppe per quello che ti ho detto!” disse Andrea.
“Scusami tu per quello che ti ho causato!” rispose Giuseppe.
“Ma perché l’ha fatto!?” chiese Giuseppe.
“è il figlio di Marco!” gli rispose.
“Ok! Ne parliamo dopo!” rispose Giuseppe. in realtà quella notizia l’aveva sconvolto. Ma non aveva tempo di pensarci ora.
Giuseppe passò la mano sopra il braccio sinistro di Andrea.
“La frattura è scomposta!” disse. “Quindi! Prima di tutto devi scusarmi!”.
“Ti ho già detto che non fa nien…” ma non continuò perché il movimento di Giuseppe gli fece perdere i sensi dal dolore. Ma almeno il braccio era a posto, adesso, almeno fino a che non fossero arrivati al pronto soccorso. Sempre se fossero riusciti ad uscire da quel posto infernale.
Intanto i minuti che mancavano alla fine si erano ridotti a cinque.
E Giuseppe ritornò a ragionare.
-cosa posso utilizzare per salvarci?!- e poi la soluzione gli venne.
Ritornò nell’altro locale. Divelse un paio di pareti. Sfruttò tutta l’energia o quasi della sua tuta, per curvarle ed inclinarle, tagliandole, e nel giro di trenta secondi realizzò un siluro largo settanta centimetri e lungo due metri. Poi prese uno dei motori e lo fissò ad una estremità, portando i cavi all’interno.
Mancavano meno di trenta secondi quando riuscì ad inserire Andrea nel vano. Ed infilarsi lui dentro.
Giusto in tempo per chiudere e sentire le cariche saltare ed i boccaporti aprirsi. Vennero quasi immediatamente sommersi dall’acqua. Giuseppe prese i cavi di alimentazione del motore e lo fece accendere, e girare più velocemente che poteva. Si orientò con il sonar, misurando, attraverso le onde sonore, la compressione del siluro, e quindi la pressione esercitata su di esso. Il risultato fu che poté guidarsi alla cieca verso la superficie dell’acqua. Dopo neanche dieci minuti erano emersi in superficie. A quel punto un colpo ben assestato della tuta, che contemporaneamente, gli permise di uscire e respirare aria pura, e di esaurirne completamente la carica, li fece uscire dal siluro, che si allagò immediatamente e affondò nuovamente.
Quel minimo di luce ancora presente lo fece orientare subito, e diede un minimo di carica alla tuta fino a farlo volare sull’acqua fino alla spiaggia.
“Ma come avete fatto a resistere finora sotto l’acqua?” chiese Giuseppe, abbracciando il suo amico.
“Il mio timer è partito circa un’ora dopo la chiusura della paratia!” rispose il ragazzo.
E consegnò immediatamente Andrea nelle mani di Michele, che avendo ancora a disposizione una certa quantità di carica, volò fino al pronto soccorso.
“Ma aveva la tuta! Era lui il tuo nemico?” gli chiese Roberto.
“L’ho creduto, per un po’! ma non era così!” rispose Giuseppe. “Ma dove è mio padre e mia mamma?” chiese.
“Ancora dentro! E non sappiamo cosa stia succedendo!” rispose Roberto.
“Ho capito! Devo fare una cosa!” disse Giuseppe, volando via.
Gli altri rimasero increduli a quella situazione. Come poteva andare via nonostante quello che stava probabilmente accadendo ai suoi genitori?
Ma, più di ogni altra cosa: cosa stava succedendo a Simone e Maria?

NdA: Buongiorno! benvenuti alla 4di4!! Mancano ancora 2 capitoli per finire questo racconto: uno che risponde alla domanda appena qui sopra, e l'altro con i fuochi d'artificio finali! alla prossima e grazie per seguire e commentare questo racconto!
  
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