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Autore: Adeia Di Elferas    22/05/2017    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Teramo era caduta sotto l'attacco puntuale e deciso di Virginio Orsini e il sacco di Villamarina e Giulianova aveva fruttato alla parte francese un bel po' di risorse alimentari e anche qualche sacco d'oro.

I napoletani si stavano impegnando nella difesa, Virginio ne era sicuro e ne riconosceva lo sforzo, ma erano deboli e demotivati e, anche se il loro re stava facendo il possibile per far sentire la propria presenza, non bastava di certo qualche bel discorso e la prospettiva di un matrimonio a corte per risollevare le sorti della guerra.

L'Orsini aveva tutta l'intenzione di battere il ferro finché era caldo, sfruttando al massimo la palese mancanza di coordinazione dei napoletani, ma una sera, sul finire di quel marzo, appena dopo aver consumato la sua razione, il mercenario cominciò a sentirsi poco bene.

Una febbre che nemmeno il cerusico seppe inquadrare lo costrinse a letto per giorni e Virginio finì per imputare quel crollo improvviso alla vecchiaia che avanzava.

Scrisse a sua sorella Bartolomea, per informarla della sua momentanea difficoltà, ma già quando giunse la risposta da Bracciano, con cui la donna tentava di rinfrancarlo con parole di incoraggiamento, Virginio si sentiva meglio.

Il cognato Bartolomeo d'Alviano si consultò con lui sulla mosse future e Virginio, vedendo il suo fronte abbastanza tranquillo e non sentendosi sufficientemente in forze per guidare una nuova campagna, lo pregò di congiungersi con Paolo Orsini e dare manforte a lui.

“Io me la caverò egregiamente, come sempre.” scherzò Virginio, arricciandosi con fare ammiccante i lunghi baffetti.

Appena Bartolomeo aveva lasciato il campo, arrivò una strana proposta da parte, niente meno, che di Ferrandino d'Aragona.

L'Orsini, che aveva lasciato la sua cuccetta con grande riluttanza, ascoltò con attenzione quello che il messo napoletano aveva da dire.

Si trattava della proposta di una battaglia a viso aperto, senza assedi né imboscate. Uno scontro su campo concordato, un'unica azione che avrebbe deciso quale parte avrebbe vinto la guerra.

Virginio, ancora acciaccato e con le ossa che friggevano per la febbre passata da poco, venne tentato dall'idea di chiudere la sua campagna con una trionfale battaglia campale, ma poi si ricordò di Francesco Gonzaga e della sua tragica Fornovo.

A credere di essere troppo bravo sul campo, avrebbe potuto fare la sua stessa ingloriosa fine.

Che se ne sarebbe fatto di una vittoria sulla carta, se poi, di fatto, fosse stato in qualche modo umiliato dal suo nemico?

Non era giovane come il Gonzaga, non era altrettanto tracotante. Non sarebbe mai riuscito a fare la faccia di bronzo, vantandosi per quella che in realtà era una mezza sconfitta. Non voleva chiudere la sua carriera con uno sfacelo.

E poi si sentiva ancora troppo insicuro e indebolito. Non avrebbe sopportato l'idea di starsene nelle retrovie mentre i suoi combattevano. Però sapeva anche che, nelle sue condizioni, se avesse voluto prendere parte attiva a una battaglia di quel tipo, non sarebbe sopravvissuto nemmeno all'ingaggio iniziale.

Perciò, sorridendo cordialmente al messo di Ferrandino, si strinse nelle spalle e disse: “Non ho intenzione di accettare.” e fece uscire abbastanza di malagrazia l'uomo dal suo padiglione.

Una volta rimasto solo, Virginio cominciò a rimuginare.

Un tuono roco e non troppo lontano gli annunciò che anche quel giorno una noiosissima tempesta di fulmini si stava avvicinando e tanto gli bastò per sentire di nuovo i brividi della febbre avvicinarsi.

Di quel passo sarebbe morto di inedia. Doveva pur fare qualcosa. Anche se non avrebbe retto a uno scontro diretto, poteva almeno impegnarsi in qualche spostamento strategico.

Così chiamò i suoi sottufficiali e annunciò: “Fate preparare i soldati. Ci spostiamo verso la fascia pedemontana.”

 

Giovanni Medici cominciava a prendere confidenza con la vita alla rocca. Era ormai in città da un mesetto e pian piano iniziava a farsi delle abitudini.

Presto suo fratello gli avrebbe scritto per comunicargli le commissioni da farsi nelle terre vicine, come responsabile degli affari della repubblica, ma per il momento il Popolano si sentiva libero di non far altro, se non ambientarsi.

Ambientarsi e tenere d'occhio la Leonessa di Romagna. Era parte del suo compito, farsi un quadro preciso della donna che governava su quelle terre, ma Giovanni doveva ammettere con sé stesso, in uno slancio di onestà, che il suo interesse spesso sfociava in campi tutt'altro che professionali.

Aveva notato che la Contessa Sforza usciva molto spesso a caccia, da sola. Presiedeva ogni riunione di Consiglio e non c'era quasi pomeriggio che non passasse dal Quartiere Militare e si addestrasse nel cortile della rocca assieme ai suoi armigeri. Per il resto faceva la vita spartana di un soldato e solo di rado la si vedeva interagire coi figli. Con sei dei sette figli, per lo meno.

Il fiorentino aveva sentito dire che il legittimo Conte, il primogenito, era rinchiuso in una stanza presidiata da uomini armati. Non si era mai avventurato in quell'ala della rocca, ma non aveva motivo per credere che non fosse vero.

Un'altra caratteristica aveva notato, della Contessa; ovvero che così come repentinamente prendeva decisioni, così a volte non ottemperava agli impegni presi, purché si trattasse di questioni di piccola importanza.

La prima sera passata da Giovanni alla rocca, per esempio, malgrado fosse stata lei stessa a dire che avrebbero cenato assieme, la Contessa non si era presentata a tavola e così aveva fatto per parecchi giorni.

Il pranzo a Ravaldino ricordava la distribuzione di un rancio militare per graduati, con una serie di pietanze lasciate a centrotavola, lasciando libero qualunque commensale di servirsi quanto e quando voleva, e dal salone entravano e uscivano di continuo membri della famiglia Riario, il castellano, gli armigeri e tutti quelli che in qualche misura avevano a che fare con la rocca. Ognuno si presentava all'ora che risultava più comoda a seconda delle necessità e per parecchio tempo Giovanni non riuscì a intercettare la signora di Forlì nemmeno una volta.

Quando era stato dal barbiere, il giorno in cui era arrivato, si era accorto che la sua presenza aveva incuriosito molti degli altri clienti.

Malgrado ciò, le chiacchiere che gli avventori della barberia si scambiavano, tra un'occhiata rivolta a lui e una interrogativa riservata al Bernardi, avevano quasi esclusivamente la Tigre come soggetto principale.

Si parlava di lei e delle tasse che aveva fatto abbassare, delle sue uscite per andare a caccia agli orari più strani e delle prede che immancabilmente portava alle cucine della sua rocca, dei lavori che stava facendo nel parco di Ravaldino – che si stava lentamente trasformando in un capolavoro con orti, piante da frutto, alberi da legname, una parte di bosco per la piccola caccia, e perfino una casetta dove riposare in caso di bisogno – della demolizione appena iniziata del palazzo dei Riario e dei reclutamenti continui di nuovi soldati, attirati dalle paghe generose e dalla possibilità eventuale di fare carriera a quel modo, dato che ormai gran parte del governo era passato dalle mani della vecchia nobiltà, andata distrutta alla morte di Giacomo Feo, a quelle dell'esercito. E queste erano tutte cose viste dai forlivesi con occhio abbastanza positivo.

Allo stesso modo, però, parlavano anche di argomenti molto diversi. Ricordavano della fine fatta dalla cameriera personale della Tigre – 'impiccata come un bestia' era uno degli epiteti più usati – e si interrogavano su quanti prigionieri fossero ancora vivi nelle celle di Ravaldino. Si domandavano quanti dei condannati fossero stati uccisi dalla Contessa di mano propria, quanti fossero morti semplicemente di stenti e quanti invece fossero stati affidati agli aguzzini, senza riuscire a sopravvivere agli interrogatori. Qualcuno si azzardava a fare il nome del Conte Ottaviano, ma subito il discorso si spegneva in un'aura di incertezza e velata paura. Si sfidavano a indovinare quanti amanti fossero già passati dal letto della Contessa dall'inizio dell'anno e con motti scurrili e camerateschi si auguravano a turno di essere il prossimo.

Solo quando si toccò quest'ultimo argomento, il Novacula diede segno di impazienza e sbottò: “E allora? La volete finire? Non vedete che il nostro caro ambasciatore è annoiato dalle vostre chiacchiere?”

Giovanni, che aveva teso l'orecchio per captare tutto il possibile, aveva fatto un'espressione un po' imbarazzata: “Ma no, non preoccupatevi...”

Ma Bernardi non l'aveva nemmeno sentito e si era rivolto con voce abbaiante ai suoi clienti per redarguirli: “Costui è un Medici! Un gran signore! Viene da Firenze! E voi state qui a tediarlo con i vostri inutili pettegolezzi!”

Il Novacula aveva così zittito i pettegoli della città, ma il fiorentino non aveva mai smesso davvero di ragionarci sopra e anche quel giorno d'aprile Giovanni continuava a ripensare alle voci sentite dal barbiere al suo arrivo a Forlì.

Molte erano risultate essere vere, come quelle circa la costruzione del parco e la demolizione del palazzo, ma su altre il Medici ancora aveva delle perplessità.

L'unica diceria di cui aveva avuto una prova abbastanza tangibile era quella riguardante gli amanti che si aggiravano attorno alla stanza della Tigre.

Seguendo l'invito della Contessa, il Popolano aveva preso alloggio alla rocca e gli era stata assegnata una delle stanze da poco rimesse a nuovo che, per puro caso, era adiacente a quella della Sforza.

Già tre volte, a tarda sera, mentre rientrava da una delle solitarie passeggiate che conduceva per conciliare il sonno e per tenere il ginocchio dolente in funzione, Giovanni aveva visto degli uomini entrare nella camera della Contessa.

Non erano affari suoi, quello lo sapeva, eppure tutte e tre le volte aveva avvertito un senso di profonda insofferenza nel pensare che quello che i sudditi della Tigre andavano a dire in giro fosse vero.

Ogni volta che era successo di vedere qualcuno entrare a quell'ora nella stanza della Contessa, quindi, il Popolano aveva preferito non rischiare di vedere o sentire altro ed era tornato sui suoi passi, ripercorrendo la strada appena fatta e tornando in camera solo dopo almeno un paio d'ore.

 

“E cosa dovrei fare secondo te?” chiese Ludovico Sforza, facendo ondeggiare la lettera tenuta tra indice e medio.

Beatrice mise un momento da parte il ricamo a cui stava lavorando e ordinò con un gesto silenzioso ai due servi di andarsene.

Questi smisero di sistemare lo spuntino – a base di luganega e formaggio stagionato – che avevano preparato per i Duchi e lasciarono la stanza.

Appena furono da soli, senza più la scocciatura di doversi guardare da orecchie indiscrete, la Duchessa disse, seria: “Dispiace anche a me, ma credo che sia necessario mandare tua figlia da suo marito. Chi meglio di Bianca Giovanna potrà essere i nostri occhi e le nostre orecchie nella casa di Sanseverino?”

Il Moro strinse le labbra e si passò la punta delle dita sul dorso del suo nasone: “Non sarei tranquillo a mandarla là.”

“Nemmeno io, ti dico. Lo sai che non vorrei.” fece Beatrice, scuotendo la testa: “Ma è chiaro, ormai, che Galeazzo Sanseverino non è capace di capire la reale pericolosità di Francesco e Francesca Dal Verme. Tanto per dirne una, non va bene che permetta loro di frequentare i suoi salotti.”

“Dice che lo fa perché si sente in colpa... In fondo occupa le loro case... Ci hanno vissuto fino a poco tempo fa...” provò a dire Ludovico, lasciando cadere la lettera del genero sul tavolino e poi riaffondando nella poltrona.

Aprile era dolce e chiaro a Milano e aveva spazzato via di colpo tutti i ricordi dell'inverno e degli strani temporali di saette che avevano terrorizzato i contadini e i religiosi. Dalla finestra appena aperta entravano vivaci e prepotenti gli odori della vita e le voci degli uomini del palazzo di Porta Giovia che affollavano il cortile, addestrandosi e lavorando come ogni giorno.

“In colpa, in colpa..!” esclamò Beatrice, perdendo la pazienza.

La giovane si alzò dal suo divanetto e raggiunse il marito, piantando le piccole mani sui fianchi, assumendo una postura degna di una suocera bellicosa: “Sanseverino ora è il legittimo proprietario di ogni pietra e di ogni angolo della buona metà di quei possedimenti. E tua figlia Bianca Giovanna la è dell'altra metà. Se i Dal Verme non accettano questo fatto, il problema è loro. E se vogliono farlo diventare un problema anche nostro, allora vanno fermati!”

Ludovico guardò la moglie con occhi sofferenti. Beatrice aveva ragione. Era troppo difficile capire cosa stesse accadendo a Bobbio e a Voghera. Galeazzo era eccessivamente vago e incostante nei suoi resoconti per essere ritenuto affidabile. Bianca Giovanna, invece, avrebbe saputo inquadrare all'istante i fratelli Dal Verme e avrebbe capito subito se si trattava di una minaccia o di un semplice fuoco di paglia.

“E va bene...” soffiò il Duca, poggiando i palmi delle mani sui braccioli della poltrona, sconfitto su tutta la linea: “Però aspettiamo ancora un po'. Prima voglio provare a chiedere in modo più esplicito a mio genero cosa sta combinando e, se anche questa volta ci deluderà, allora manderò da lui mia figlia.”

Con un sorriso trionfante, ben sapendo di averla avuta vinta anche quella volta, Beatrice si andò a sedere sulle ginocchia del Moro e gli strinse le braccia al collo.

La Duchessa stava ancora bisbigliando parole segrete all'orecchio del marito, quando un servo entrò nella saletta senza annunciarsi.

“Che diamine c'è, adesso?!” scattò Ludovico, mentre Beatrice non accennava a lasciare il suo trono improvvisato.

“Una lettera urgente da Firenze, da parte del frate Girolamo Savonarola.” spiegò il domestico, porgendo il messaggio al suo padrone.

Il Moro prese il pezzo di pergamena e poi disse al servo di sparire. Beatrice strappò di mano al marito la lettera e l'aprì, cominciando a leggerla.

Si trattava di una serie di rimproveri e vaneggiamenti del domenicano, che voleva indurre il Duca di Milano a più miti consigli, invitandolo a fare penitenza per i suoi peccati, in vista del flagello che si sarebbe abbattuto su di lui a breve.

“Ce l'ha con te perché sei nella Lega.” parafrasò Beatrice, dando il messaggio al marito e mettendosi in piedi.

Si rassettò la turchesca e gli ordinò: “Rispondigli subito, dicendoti molto pentito dei tuoi peccati e ben disposto a essere un cristiano migliore. Scusati per averlo offeso con la tua condotta immorale, come la chiama lui. E poi predisponi anche per la partenza del nostro ambasciatore alla corte di tua nipote Caterina.”

“Hai deciso chi mandare?” chiese il Moro, passando lo sguardo sulle farneticanti invettive di Savonarola.

“Sì. Non lo conosci e non è di nobile famiglia, ma è un uomo che sa il fatto suo e che saprà difendere i nostri interessi.” spiegò Beatrice: “Gli ho detto che sarà il nostro oratore a Forlì e ha accettato.”

Il Moro fece un cenno d'assenso, pienamente fiducioso nelle idee della Duchessa e poi la fissò pensoso, mentre la giovane andava alla porta, dicendo: “Voglio passare dal maestro Leonardo. Sono curiosa di vedere come procede quel suo ultimo affresco, quello dell'Ultima Cena...”

 

Caterina si era appena messa a tavola, stremata da un'interminabile seduta di Consiglio sfociata in una mezza rissa, quando vide profilarsi sulla porta l'ambasciatore fiorentino.

Se in un primo momento si era sentita desiderosa di familiarizzare con lui, conoscendolo meglio e conversandoci per capire fino a che punto lo si potesse considerare un Medici, si era poi bloccata, cercando, anzi, di evitarlo il più possibile.

Non sapeva dire bene perché avesse sentito la necessità di comportarsi a quel modo, ma il suo istinto le aveva suggerito di tenersi lontana dal Popolano, almeno in un primo momento.

Forse, semplicemente, era la paura di fidarsi di nuovo di qualcuno. I suoi collaboratori godevano della sua fiducia, era vero, ma il senso di sintonia che aveva provato subito con Giovanni Medici l'aveva spaventata.

Dopo quello che era successo a Giacomo, proprio per mano di gente con cui si era sentita fin dal principio in amicizia, credeva fosse buona regola stare cauti.

Tuttavia, aveva fame e non aveva alcuna intenzione di alzarsi da tavola a stomaco vuoto e nemmeno poteva ordinare all'ambasciatore fiorentino di tornare nella sala da pranzo più tardi.

Seguì con lo sguardo l'uomo, che passò accanto a Bianca, che invece stava già andando via, facendole l'inchino e scambiando con lei qualche parola.

Caterina aveva notato con piacere che il Popolano aveva modi cordiali coi suoi figli, ma che non aveva cercato in alcun modo di accattivarseli. Li trattava con reverenza e gentilezza, ma non si prodigava troppo per catturare il loro benvolere. Non cercava di arruffianarseli per mettersi in buona luce con lei. Per un ambasciatore era già un requisito fuori dall'ordinario.

“Buongiorno, Contessa.” fece Giovanni, quando arrivò alla tavola.

Caterina si stava servendo un po' di stufato di cervo e ricambiò con un semplice: “Ambasciatore...”

Oltre a loro erano presenti Mongardini, il castellano e un paio delle guardie che di norma facevano la ronda sui camminamenti.

Il fiorentino trovava quanto meno particolare la decisione di permettere anche ai soldati di sedere alla tavola della famiglia della Contessa, ma, non essendo lui il padrone di casa, ben si guardava dall'esprimere ad alta voce i suoi dubbi.

“Come vi state trovando a Forlì?” chiese Caterina, quando il Popolano si mise a sedere proprio accanto a lei.

Giovanni guardò ciò che la cucina offriva e rispose: “Bene, davvero. Ci vuole un po' per abituarsi, ma...”

“Non prendete lo stufato?” chiese la Contessa, vedendo come le mani del fiorentino fossero corse alle verdure e al pane.

Il Popolano fece una breve smorfia e spiegò, riluttante: “Vorrei, ma... Il mio medico era scettico, ma trovo che limitandomi nella carne e nel vino, la mia salute ne giovi.”

Siccome le parole erano uscite dalle labbra dell'uomo una a una come denti cavati da un barbiere, Caterina preferì non fare altre domande in merito, ma cambiò discorso, cedendo all'impulso improvviso di chiedere: “Vi andrebbe di fare un giro della rocca e della città assieme a me? Mi sono resa conto di non aver fatto gli onori di casa come si deve. Magari con la mia guida, Forlì vi apparirà più accogliente. E sappiate che non è una cortesia che concedo a tutti gli stranieri. Fatelo sapere, alla vostra repubblica di Firenze. Dunque, accettate?”

Quasi strozzandosi con un pezzo di carota, Giovanni rispose immediatamente: “Sarà un vero piacere.”

La Contessa osservò con attenzioni le dita sottili e lunghe del Popolano e i polsi, scoperti dalle maniche del giubbetto verde scuro che indossava quel giorno. Poi i suoi occhi, con lentezza, risalirono lungo le braccia, fino a raggiungere il viso e le iridi chiarissime che ancora rilucevano della sorpresa per la proposta appena ricevuta.

Mordendosi le labbra, la Tigre tornò a guardare il piatto che aveva davanti e intinse un pezzo di pane nero nel sughetto che colava dalla carne: “Se non avete altri impegni, potremmo andare già oggi, dopo mangiato.” disse, sapendo che, se avesse dovuto posticipare troppo, forse alla fine ci avrebbe ripensato e avrebbe ritirato l'invito.

Il Popolano sorbì un piccolissimo sorso di vino e annuì, facendo ondeggiare un po' i riccioli: “Va benissimo, oggi sono libero.”

Caterina accennò un sorriso e poi si dedicò allo stufato, onorando la cucina con famelica accuratezza.

 

Bianca Riario, appena dopo aver lasciato il desco, era scesa fino nelle cucine, per chiacchierare un po' con alcune delle sue amiche, in particolare con le due giovani sguattere che di solito a quell'ora preparavano gli ortaggi da mettere nella minestra della sera.

Come aveva sperato, le trovò chine sul tavolone a tagliare a pezzi le verdure. Così si sedette accanto a loro e ascoltò per un po' le loro chiacchiere, cercando di capire di cosa stessero parlando e quando il discorso cadde sul nuovo ambasciatore fiorentino, riuscì finalmente a infilarsi nella conversazione.

“Lo trovo un uomo molto a modo.” disse, ripensando come anche quel giorno il Medici l'avesse salutata con grande eleganza.

“Io lo trovo un uomo molto bello..!” ridacchiò una delle due sguattere, mettendosi una mano davanti alla bocca, come se avesse appena detto qualcosa di proibito.

“Per i miei gusti è troppo magro.” ribatté l'altra, che era sulla ventina e portava i capelli ancora molto corti.

Era stata una schiava, ma la Tigre l'aveva riscattata. Solo che era passato ancora troppo poco tempo per permettere alla sua capigliatura di tornare agli antichi splendori.

Bianca le aveva chiesto cosa facesse, quando ancora non era stata comprata dalla Contessa e liberata, ma la giovane aveva solo detto: “Poteva andarmi peggio. Per lo meno mi era concesso dormire su letti di piume, anche se non chi con avrei voluto.”

“Per te non ne va bene uno.” la rimbrottò la prima sguattera, gettando nel calderone le carote e i cavoli tagliati a pezzi: “Uno è magro, uno è grasso... Come se potessi permetterti di fare la schizzinosa.”

Bianca rise a quella schermaglia tra domestiche, ma quando la ex schiava commentò con grande mestizia: “Ma sì, hai ragione, non sono nella posizione di mettermi a fare la difficile. Una come me non la vorrà mai nessuno.” il gioco si ruppe.

L'altra sguattera di cucina allungò una mano e consolò l'amica con un colpetto sulla guancia: “Dai, non è quello che intendevo. È solo che, diciamo, l'ambasciatore non deve piacere a te.”

“E a chi dovrebbe piacere? A Sua Signoria?!” rise la ventenne, mentre l'altra le faceva eco.

Bianca si sforzò di unirsi alle risate, ma quella battuta, fatta senza malizia, la portò a ripensare ai fatti degli ultimi giorni e all'atteggiamento schivo di sua madre nei confronti del Medici.

Forse era sintomo di supponenza da parte sua, ma la ragazzina ormai pensava di essere capace di sondare le intenzioni e le emozioni della madre, per quanto ella sapesse celarle bene al resto del mondo.

All'improvviso ciò che la sguattera aveva detto per ridere, alle orecchie di Bianca non parve più un'ipotesi così assurda.

 

 
   
 
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