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Autore: Damnatio_memoriae    05/06/2017    1 recensioni
Sul continente i ministri dei cinque rioni si affrontano nel Torneo di Palazzo per assicurarsi il dominio della Cittadella, ma nessuno sospetta che nell'ombra stia già tramando da tempo un oscuro pericolo che minerà profondamente le basi delle loro istituzioni, rompendo quella pace che, a fatica, è stata riconquistata dopo il tradimento di Kalendor. E intanto Theresa affronta le sue paure cercando di ricordare un passato troppo lontano e inafferrabile, mentre Daianara tenterà invano di battersi per impedirglielo.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 7
 
♦ Dubbio ♦
 
“In mente l’immagine è della realtà parodia:
non esiste ricordo che imperfetto non sia.
Nel labirinto in cui ogni memoria è follia
rincorri la mia voce: ti indicherà la via”
 

 
gargoyle, con in mano le loro balliste di legno scuro e metallo lavorato, stazionavano sui più alti torrioni del Grande Palazzo, affiancati da guglie, pennacchi e dalle animalesche statue in pietra da cui avevano tratto il loro nome. Da lontano sorvegliavano i cancelli, le mura e le arene, i giardini e i sentieri, le scuderie e ogni pertugio. Benchè rappresentassero per tutti solo una piccola risorsa, se il corpo dei ballistarii fosse caduto, non vi sarebbero stati altri soldati a custodire il Palazzo. E mentre in ogni angolo della capitale non si parlava d’altro che dello scacco di Morèa – e gli abitanti del rione risiedenti nella Cittadella venivano trascinati fuori dalle loro case per fornire spiegazioni -, in ogni angolo del Palazzo non si parlava d’altro che della malattia, a detta di alcuni contagiosa, della figlia adottiva del Ministro di Ennon.
Lasciati i suoi compagni a qualche decina di metri in più d’altezza, Caleb si era seduto con le gambe a penzoloni nel vuoto sul cornicione del secondo piano, poco distante da una finestra lasciata socchiusa da cui proveniva una flebile e lenta nenia che un orecchio meno allenato del suo non sarebbe riuscito ad udire.
«”Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi. E salirò sempre più in alto per farti sentire la mia voce. Ascolta la mia ultima canzone e deponi le tue armi. Domani sarò ancora qui a cantarti queste ultime parole: un’ultima canzone è tutto ciò che ho da darti”».
Appoggiata alla tastiera del baldacchino, persa fra decine di cuscini che riteneva essere più che superflui, Daia ascoltava Theresa intonare la melodia che le aveva insegnato da bambina.
«Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi. E salirò sempre più in alto per ricordarti la mia voce. Ascolta la mia ultima canzone e…» Tess si fermò, schiarendosi la gola «E…mhm».
Daia sorrise, vedendola in difficoltà. «Ascolta la mia ultima canzone e prova ad amarmi…» le suggerì, canticchiando a bassa voce, e l’altra riprese.
«Giusto. “Ascolta la mia ultima canzone e prova ad amarmi. Domani sarò ancora qui a cantarti queste ultime parole: per te troverò sempre un’ultima canzone”».
Daianara imitò un piccolo applauso e la rossa tornò ad appoggiare la testa sulle coperte, vicino alla sua mano. Era rimasta seduta accanto al letto per buona parte di quella luminosa mattinata – anche se lei, di luminoso, non vedeva nulla -, mentre la sua amica ancora dormiva di un sonno tranquillo, portato dalle medicine che Howel le preparava ogni giorno. E le era rimasta accanto la mattina e il pomeriggio precedenti e quelli precedenti ancora, in parte perché lì nessuno sguardo e nessuna calunnia l’avrebbero raggiunta e in parte perché sentiva di non potersi muovere da quel letto senza provare rimorso.
Daia guardò fuori dalla finestra quando un soffio di vento fece entrare uno spiffero nella stanza, muovendo le tende sottili.
«Grazie» disse all’amica, scostandole la frangia che era diventata troppo lunga e le copriva gli occhi «La ricordi ancora questa ballata» poi si corresse «O almeno quasi tutta».
Tess ricambiò il suo sguardo «Non posso dimenticarla. Me la cantavi sempre quando stavo male».
Daia si portò una mano alla bocca e rise «È vero. Ti facevi male molto spesso».
«Già. Infatti me la ripetevi in continuazione. Pensavi avesse delle capacità curative».
«Sì» disse con un filo di imbarazzo, passandosi una mano sul collo «Doveva essere una cosa noiosa, immagino».
«No, affatto. Mi piaceva. Mi piace ancora. La preferisco quando la canti tu, comunque» incrociò le braccia sul materasso morbido e vi nascose il volto «Hai la voce più dolce della mia». 
«No, non è vero. Io adoro la tua voce».
Theresa sollevò appena la testa per guardarla da sotto le ciglia.
«Ah, sì?».
«Si» continuò convinta Daia, poi ripensando a ciò che aveva ammesso si sentì avvampare. «Sì, insomma, mi piace, la trovo calda. Confortante. Carina. Ben intonata».
«Accettabile».
«Accettabile. Cioè no, non accettabile. Più che accettabile…» si torturò le mani, distogliendo lo sguardo «Molto più che accettabile…».
«Bene» sorrise Tess, allungando le dita per sfiorare le sue «Sono fortunata allora».
La ragazza si limitò ad annuire sommessamente. «Il tempo non passa mai fra queste quattro mura. Odio non potermi muovere».
«Lo so. Forse non dovrai aspettare ancora molto, Howel sa quello che fa. O almeno dovrebbe» aggiunse scettica.
«Io mi sento già molto meglio» la rassicurò, vedendo i suoi occhi che prendevano una piega triste «È stato solo un brutto colpo».
«Un brutto colpo?» ripetè Tess stizzita, ritirando bruscamente la mano «Davvero? È questo quello che il Ministro di Ennon va ripetendo a chiunque glielo chieda? Che sei accidentalmente caduta dal letto e hai ripetutamente battuto la testa sul pavimento fin quasi a fracassarti il cranio?».
«Mio padre è in una posizione delicata, Tess. Io credo dirà tutto quello che sarà necessario per non sollevare inutili polemiche».
«Si, bhe…» iniziò a dire, sollevandosi di scatto dalla sedia «Nessuno pare voglia dargli ascolto. Lo vedo come mi guardano, tutti si scansano come se avessi il demonio in corpo e potesse saltar fuori da un momento all’altro per ucciderli. Se solo fosse vero…gli darei un aiuto!».
Daia si strinse nelle spalle «Non prestare più attenzione a queste cose di quanta non ne meritino. Parleranno finchè avranno bocche da aprire, o finchè non succederà qualcosa che attirerà di più la loro attenzione e tu sarai soltanto un vecchio pettegolezzo. Non permettere che ti condizionino: non hanno nulla da fare se non guardare duelli e screditare gli altri. Sempre che abbiano finito di screditarsi a vicenda».
«Non mi interessa quello che dicono di me Daia, mi interessa che mi ricordino sempre che tu sei…» la indicò, ma non continuò.
«Che io sono che cosa?».
Theresa sbuffò, camminando avanti e indietro per la stanza «Che tu sei ferma in un letto e io non posso uccidere nessuno per questo, visto che la colpa è solo mia. E che è un miracolo essere riusciti a convincere Zane a lasciarmi da sola con te, perché ha dannatamente ragione a non volere che io ti stia vicina. Non me lo permetterei nemmeno io se fossi al suo posto».
Daia scosse il capo «Tess, è stato un incidente. Per favore, datti pace».
«Ma come faccio a darmi pace se non posso più fidarmi di me?».
«Perché io mi fido ancora di te».
«Non dovresti».
«Ti conosco troppo bene per non farlo e non ho nulla da doverti perdonare».
«Puoi vedere da sola dove ti ha portata la tua fiducia».
«Vedo chiaramente dove ti sta portando la tua diffidenza» ribattè «Guarda le cose per quello che sono, guardati come ti guardo io. È stato un incidente. No, Tess, non interrompermi. È stato un incidente e non puoi biasimarti in eterno per questo. Non hai chiuso occhio da quando è successo, non ti fa bene, devi dormire».
«Non voglio».
«Ma…».
«Ho paura Daia! Io ho paura» scandì.
«Lo so. L’ho visto» sussurrò «Ma non è questo il modo giusto, Tess. Non è questo il modo giusto per risolverlo».
«Non sapevo nemmeno ci fosse qualcosa da risolvere, fino a tre giorni fa».
«Ascoltami, noi…».
«Noi?» la interruppe Theresa «No, qui non c’è nessun noi. Non sei tu quella sbagliata».
Il viso di Daia si scurì «Io pensavo solo che…».
«Allora non pensare. Non devi intrometterti sempre in tutto quello che mi riguarda, sei invadente».
«Volevo solo darti una mano».
«Non mi serve il tuo aiuto» sbottò «Me la cavo da sola, anche senza tutti questi consigli non richiesti».
«Certo» rispose secca l’altra, poi aprì la bocca per continuare, ma si trattenne. Lasciò cadere il discorso con un gesto rapido della mano e risentita posò gli occhi altrove. Sprimacciò il cuscino e tornò a sdraiarsi, avvolgendosi nelle calde coperte. Si girò su un fianco, tirò su col naso e rimase in silenzio.
Tess restò ferma in mezzo alla stanza, spostando il peso da un piede all’altro, per qualche minuto, prima di avvicinarsi. Si sedette sul bordo del letto dandole la schiena, stropicciandosi nervosamente le mani.
«Scusa» disse infine, ma l’altra non rispose.
Le posò una mano sulla spalla e la costrinse a girarsi «Daia…» la chiamò e lei le lanciò uno sguardo torvo, ma non desistette.
«Davvero» disse sconfortata la rossa «Sono solo tesa».
L’espressione della ragazza si addolcì. «Ricordi» iniziò sommessamente, giocherellando con il nastro della veste «Quando eravamo piccole e sei salita su quell’albero? Quando ho insistito per volere quella mela e tu mi hai accontentata?» chiese.
Tess annuì.
«Hai iniziato ad arrampicarti ma io volevo che salissi sui rami più alti, anche se dicevi che avevi paura. E poi non sei più riuscita a scendere. Io ho provato a raggiungerti, ma sei caduta prima che potessi arrivare a prenderti. Non hai ripreso conoscenza fino a sera e io sono morta di paura. Mi sono sentita così tanto in colpa…» le passò una mano sulla schiena «E la tua cicatrice me lo ricorda sempre».
«Eravamo delle incoscienti. Forse un po’ lo siamo ancora. Non è stata colpa tua».
«Lo so. Vorrei capissi anche tu che non è stata colpa tua. A volte si fa tutto il possibile, ma tutto non è abbastanza. E non possiamo odiarci ogni volta che sbagliamo. Tess…» la guardò negli occhi «Io voglio che tu ti dia tregua. Non mi piace vederti così per una cosa per cui non hai colpa. Io non lo so che cosa sia successo, eri così confusa, ma so che non mi faresti mai del male. Io so chi sei. Siamo noi due, lo siamo sempre state. Non importa se hai dei segreti e non vuoi raccontarmeli, ma permettimi di aiutarti. Non tagliarmi fuori in questo modo».
«Non voglio escluderti Daia. Voglio solo…» abbassò gli occhi, cercando le parole «Non voglio metterti nei guai».
«Se mi tagli fuori, chi terrà te lontana dai guai?».
Theresa arricciò le labbra, abbozzando un mezzo sorriso. «Riesci ad essere tremendamente cocciuta a volte» sospirò a mo’ di rimprovero e si allungò sul letto per deporle un bacio veloce sulla fronte.
«È un pregio o un difetto?».
«Ancora non lo so».
«Se mai dovessero chiederti ancora di arrampicarti su un albero, saprai dare la giusta risposta» scherzò.
«Il merito è tutto tuo!» rise.
Daia la guardò lasciarsi andare a quella piccola comicità che, anche se un po’ forzata, sembrava alleviasse davvero le sue preoccupazioni. Poi vide quegli occhi, prima giocondi, incupirsi improvvisamente e l’espressione sul suo viso farsi dubbiosa. Il sorriso a poco a poco le scivolò di dosso e la mascella si contrasse.
«Tess…?» la chiamò titubante quando la vide tornare a darle le spalle.
«Aspetta» sussurrò lei decisa. Si alzò in piedi. «Un incidente?» chiese più a sé stessa che a Daia. Si toccò la schiena.
«Tutto bene?».
«Quando sono caduta, io…» fece una pausa «È stato un incidente?».
«Che cosa intendi dire?».
«Io non sono mai caduta da un albero. Ho imparato da Savannah ad arrampicarmi» si prese il mento tra le dita «No, c’erano i contadini che tagliavano il grano…e io sono inciampata».
Daia preoccupata scosse la testa «Non so di cosa tu stia parlando. Quali contadini?».
La rossa aprì la bocca per rispondere, ma si rese subito conto di non avere alcuna risposta da dare. «Io…non lo so. Forse era un falò. Si, deve essere così, c’era del fuoco».
«Non possiamo più accendere fuochi da quando i boschi di Nika hanno rischiato di finire in cenere».
«Allora forse è successo prima che lo vietassero».
«Non eravamo neanche ancora nate, Tess. Non ci sono mai più stati fuochi ad Ennon».
«Però…» provò ancora ad obiettare. Nella mente si susseguirono immagini diverse: lei che si arrampicava sui rami, la corteccia che la graffiava, Daia che rideva e poi urlava, la sensazione di cadere da un’immensa altezza. Tirò un profondo respiro «Sì. Sì, è vero, sono caduta» rise nervosamente, stropicciandosi gli occhi «Mi dispiace, sono stanca e non so più quello che dico. Non che prima lo sapessi, comunque».
Daia le fece segno di tornare a sedersi vicino a lei «È normale. Hai bisogno di riposo. Possiamo chiedere ad Howel di prepararti qualche infuso se hai…ecco…» si morse le labbra «Paura di svegliarti nel sonno».
Tess si passò stancamente una mano sugli occhi «Va bene» disse distrattamente e lasciò che Daia le parlasse, senza ascoltare veramente quello che le stava dicendo.
«Daia…?» la interruppe ad un certo punto.
La ragazza si fermò a metà del suo discorso «Si?».
«Sei salita anche tu su quell’albero? Insieme a me?» la guardò negli occhi.
La mora non sembrò contenta di essere ritornata a quell’argomento. Annuì «Certo. Non potevo lasciarti lì, così. Mi sono arrampicata quando mi hai detto che non sapevi più come scendere». 
«Ah…» fece Tess, la fronte corrucciata. Prese respiro. «Ma tu soffri di vertigini».
L’altra alzò appena un sopracciglio e gli angoli della bocca si mossero come per un piccolo brivido. «All’epoca no».
«Invece sì. Hai sempre avuto paura dell’altezza».
«Ti stai sbagliando».
«Ma…».
«Non so dove tu voglia arrivare». Lo sguardo di Daia si fece tagliente.
Tess si allontanò da lei e fece per ribattere, ma quando il paggetto aprì la porta di ottone per annunciare una visita, dovette rimanere in silenzio.  
 
♦♦♦

Botte di Ferro procedette lungo il corridoio di marmo trascinando lentamente i piedi, al punto che, nonostante la sua imponente stazza, i tacchetti dei suoi stivali non fecero alcun rumore pestando il pavimento. Avanzava quasi controvoglia verso la Sala del Consiglio, lasciando vagare lo sguardo su qualsiasi pilastro che puntellava il suo cammino e su qualsiasi guardia di Palazzo che si inchinava al suo passaggio. Di fianco a lui, con le mani incrociate dietro la schiena come si confaceva ad un signore della sua età, l’ormai ex Ministro di Morèa teneva fissi gli occhi davanti a sé, forse in realtà senza vedere nulla, perso nei suoi pensieri, ma Zane non avrebbe saputo indovinare quali. Lo vedeva ora più invecchiato, più provato, era come se notasse nuove rughe sul suo viso, o forse erano quelle vecchie che gli avevano inciso maggiormente il volto; Howel non era mai stato un uomo di grande prestanza fisica – mancanza che aveva saggiamente compensato sviluppando l’intelletto – e aveva sempre mostrato più anni di quanti effettivamente non portasse.
Da ragazzi, Zane, Kasimir e Hansel, nel periodo della crescita in cui le lingue corrono più veloci del pensiero e della buona educazione, erano stati soliti dire che il loro mentore non era in realtà mai stato giovane. «È nato vecchio» scherzavano, dandosi sonore pacche sulle spalle. Ma Zane l’aveva sempre saputo che Howel, nell’animo, era rimasto un bambino e quella era l’unica giovinezza che serviva. E anche ora l’ex Ministro di Morèa lo seguiva con un mesto sorriso, gli occhi calmi, le spalle rilassate, come se non ci fosse nulla di cui doversi preoccupare, come se nulla potesse rimanere rotto per sempre. Come se le persone meritassero fiducia.
Howel non gli aveva domandato nulla di sua figlia, e Zane per questo gli era grato, ma si era gentilmente occupato di lei, rifiutandosi di delegare il compito a qualcun altro. L’unico suo quesito era stato per Theresa, ma Ophelia lo aveva messo gentilmente a tacere, posandogli una mano sulla spalla. «Non è il momento» aveva proferito «Non è saggio porre domande a chi non è ancora pronto per rispondere» poi, come se nulla fosse stato, aveva domandato, guardando il suo specchio «Il buio si avvicina?».
Zane aveva scosso la testa con incertezza. Howel aveva risposto: «Se tra noi non verrà prima la luce, temo di sì».
Il corridoio si chiudeva in un massiccio portone intarsiato chiuso da pesanti ingranaggi in ferro, ognuno collegato agli altri da invisibili filamenti. Sulla superficie usurata e irregolare, ancora si potevano vedere incisi i perduti manufatti di Kalendor che torreggiavano su una folla morente, prostrata dall’epidemia e dalla guerra.
Due gargoyle sorvegliavano l’entrata e ad un cenno di Zane si mossero, dando loro le spalle, per far funzionare il meccanismo di cui pochi conoscevano la soluzione. Le ruote dentate si incastrarono tra loro, le catene consumate dalla ruggine combaciarono con uno stridio, i lucchetti si aprirono uno dopo l’altro e dall’interno della struttura emerse un ultimo congegno, una ruota simile ad un timone che il gargoyle fece roteare finchè non si fermò con un sonoro click e il portone si aprì con lentezza.
I due uomini vennero accolti in una sala immensa, pressoché disadorna ma funzionale, occupata solo al centro da un grande tavolo rotondo. I falegnami di Nika vi avevano lavorato per mesi su ordine di Jheorg, il precedente Mastro Artigiano, e alcuni malignamente affermavano che fosse stato il suo unico ordine apprezzabile. Carte topografiche, militari e civili erano state portate, dai vari rioni, alla Cittadella per studiare questo enorme progetto. Il tavolo era stato creato utilizzando uno degli alberi sacri di Nika e sulla sua superficie era stata modellata, nei minimi particolari, la forma di ognuno dei cinque borghi più, al centro, la capitale con il suo Palazzo. Era stata un’impresa ardua riprodurre ogni fiume di Tanaro, ogni grotta di Kalendor, tutti gli alberi della contrada del legno, tutte le botteghe di Morèa e le piccole stradicciole di Ennon, ma ogni dettaglio era stato curato alla perfezione, al punto che, se qualcuno avesse guardato bene, avrebbe riconosciuto la propria casa, o il proprio laboratorio, la taverna in cui era solito recarsi la sera o il panificio di fiducia. La pianta occupava una superficie tale che, anche sporgendosi il più possibile, nessuno sarebbe riuscito ad arrivare a toccare col dito il confine del proprio rione, pertanto erano stati forniti, come supplementi del progetto, lunghe stecche di legno lavorato, una delle quali era, in quel momento, stretta nelle mani del Ministro di Tanaro che la stava usando per grattarsi la testa.
Seduti al tavolo delle trattative, Kasimir, Hansel e Aron li stavano attendendo per iniziare la seconda delle sedute del Consiglio dei Ministri. Appoggiata ad una colonna, Savannah osservava la scena da lontano, mentre i due totem di Kasimir affiancavano il loro padrone. Dorota e Dustan, i gemelli di Tanaro, non sembrava avessero più di sei anni e, in verità, non sembrava fossero nemmeno gemelli: lei con i lunghi capelli rossicci, lui con la sua capigliatura nera e riccioluta; lei con il viso sempre un po’ imbronciato e le guance rosee, lui con gli occhi allegri e l’espressione curiosa; lei sempre composta, nei suoi abitini di piccolo formato, lui sempre un po’ trasandato e mai al suo posto; lei sempre silenziosa, lui pieno di troppe parole.
La porta si richiuse alle spalle di Zane e Howel quando Aron si rivolse a suo padre: «Speravo che Ophelia ci avrebbe raggiunti per contribuire con il suo voto a questa decisione».
Il vecchio si limitò a scuotere la testa divertito «Purtroppo, figlio mio, il Ministro di Kalendor sa meglio di noi che le leggi non si fanno in un unico giorno. Spero comunque potrà raggiungerci più tardi, quantomeno per tenere compagnia all’unico anziano ancora presente in questa sala» si sedette anche lui in uno degli scranni lasciati liberi e subito Dustan si allontanò dal suo padrone per raggiungerlo, tutto contento.
«Oh» lo salutò Howel, prendendolo sulle ginocchia e scompigliandogli i capelli troppo lunghi «Ci sei anche tu».
Dall’altra parte del tavolo Dorota arricciò le labbra e una piccola fossetta le comparve sul mento. Corrucciata, strattonò un lembo del mantello di Kasimir. «Papà…papà guarda Dustan».
Il bambino le fece una linguaccia, ma il Ministro di Tanaro lanciò uno sguardo così torvo che fu sufficiente a rimettere in riga entrambi.
 «Sai» iniziò Howel, facendo finta di abbassare la voce e di sussurrare all’orecchio di Dustan «Loro sono tutti convinti che i bambini non dovrebbero ascoltare le questioni di stato. Io dico che se gli adulti tornassero ad essere un poco bambini, forse non ci sarebbero questioni di stato di cui dover discutere. Ma sarà il nostro piccolo segreto».
«Bene» iniziò Hansel, alzandosi in piedi e prendendo per primo la parola «Come tutti sapranno è stata fatta esplicita richiesta, da parte del Ministro di Morèa, di rivedere i termini del contratto che vincolano il suo borgo a partecipare attivamente al Torneo. In particolare, Morèa e i suoi abitanti desiderano rinunciare a tutti gli onori e gli oneri legati alla nomina del Maestro di Palazzo, ma tengono a precisare che qualsiasi cittadino potrà decidere liberamente per sé stesso in maniera diversa, anche se in questo caso dovrà abbandonare il borgo e richiedere altrove una nuova cittadinanza. Sono inoltre consapevoli che questa loro scelta li porterà all’esclusione da qualsiasi tipo di discussione in merito all’elezione del Mastro Artigiano e che sono consapevoli che questa loro scelta minerà profondamente una delle basi della nostra politica».
«Il mio voto è contrario» lo interruppe Kasimir con voce greve.
Hansel lo guardò «Siamo ancora in discussione amico mio, nessuno ti ha domandato quale sia il tuo giudizio».
«Non vedo la necessità di questi convenevoli» sibilò «Quando in realtà sappiamo tutti che una riforma di questo genere non può essere assolutamente presa in considerazione».
«È la procedura» ribattè con calma il Ministro di Nika.
«Io me ne infischio della procedura!».
«Sì, ne stiamo avendo una conferma».
«Non possiamo permetterci di concedere uno statuto speciale a Morèa! I cittadini sono tenuti a partecipare al Torneo, si tratta di un dovere civile che non può venire meno. È sempre stato così, la nostra politica si basa su questo, se un rione dovesse mai rifiutarsi di presentarsi…come lo spiegheremmo? Quale motivazione potremmo mai fornire? E soprattutto, le abbiamo davvero prese in considerazione le conseguenze di una simile decisione?» si alzò in piedi, poggiando le mani sul bordo del tavolo «Se Morèa non partecipa al torneo, allora non può avere diritti sulla nomina del Mastro Artigiano, il che significa che non sarà nemmeno tenuta a giurargli fedeltà. E questo non solo implica che una contrada rifiuterà il potere centrale, ma che lo stesso potere centrale dovrà fare a meno di un consenso. Arriveremo a ridurre il numero dei Ministri a quattro e nemmeno serve saper fare di conto per capire che in quattro risulterebbe impossibile prendere qualsiasi decisione e tutto si ridurrebbe ad una situazione di stallo! In caso di parità, e senza una maggioranza, come ci comporteremmo?».
«Siamo già in una situazione di stallo» ribattè Aron «Se non è permesso apportare alcune modifiche».
«Modifiche? Vuoi mandare a monte l’intero sistema!».
«E lo farò visto che l’intero sistema è sbagliato!».
«È sbagliato per voi!».
«Affatto, è per voi che è troppo comodo!».
Hansel scosse la testa esasperato «Signori, per favore…» li pregò «Contegno». In risposta il Ministro di Tanaro battè un pugno sul tavolo.
«Per tutti i diavoli, cosa non devono sentire le mie orecchie?!» sbraitò «Siete solo uno stolto e un ingenuo! Oppure siete fin troppo furbo e dietro tutte le vostre belle teorie sull’altruismo e la comprensione, mirate esclusivamente al potere! È questo in realtà quello che volete? Che Morèa diventi uno stato indipendente, con le sue regole, i suoi Ministri, magari il suo sovrano? È dunque l’anarchia?».
«Signore siete voi stolto, e anche sordo, se credete esclusivamente a quello che esce dalla vostra bocca! Non vogliamo sottrarci alla supervisione del Consiglio, ma vogliamo che venga fatta giustizia fra tutto questo scempio! Vi stiamo chiedendo di seguire il nostro esempio e sarà solo vostra la scelta di farci proseguire da soli o meno! Non sarà Morèa ad abbandonare la congregazione, sarete voi ad abbandonare noi!».
«Le richieste che ci avete sottoposto sono improponibili ed impossibili!».
«Sono grandi, non impossibili! Affrontiamo le nostre colpe una volta per tutte e smettiamola di presentarci come fabbricatori di morte!».
A quelle parole gli occhi di Hansel si spalancarono, ma non si sbilanciò, rimanendo in silenzio; Zane si portò una mano sugli occhi e bisbigliò: «È questo il vero dilemma…».
Kasimir si fece rosso in volto. «Io ridò la vita!».
«È una parvenza di vita e sei ancora più ridicolo di quanto non pensassi se credi davvero che due braccia e due piedi che si muovono equivalgano alla vita!».
«Sia maledetto il giorno in cui sei entrato in questo Consiglio, insulso ciarlatano!».
«Guarda le cose per quello che sono oppure taci!».
«Adesso basta, tutti e due!» li interruppe Hansel «Spero non vi aspettiate davvero di giungere ad un qualche tipo di accordo ricoprendovi di insulti!».
Dustan si guardò intorno perplesso, poi chiamò Howel, che lo teneva ancora sulle ginocchia, tirandogli la manica. «Non capisco» esordì «Io sono felice di poter essere tornato insieme al mio papà».
L’uomo tirò un profondo sospiro e gli regalò il sorriso più genuino che possedeva «Lo so. Purtroppo per noi, non possiamo pretendere che siano tutti felici di aver riabbracciato questa vita».
«Perché no? Le persone non amano la vita?».
«Certo. Ma credo amino di più la vita che sono stati abituati a conoscere, che non quella che viene loro restituita. È come per un regalo, o per l’amore: quando te lo portano via possono anche restituirtelo, ma non tornerà mai ad essere la stessa cosa. La vita e il cuore sono le uniche cose che non abbiamo ancora imparato a riparare davvero».
Dustan si strofinò il naso con il dorso della mano «Anche io sono stato riparato?» domandò.
Howel fece per rispondere, ma Kasimir lo precedette «Dustan, vieni qua, subito».
«Ma io…».
«Ho detto vieni qua! Non costringermi a darti ordini!».
Il bambino abbassò il capo, mortificato. Scese dalle gambe dell’ex Ministro toccando il pavimento con la punta dei piedi. In silenzio fece il giro del tavolo e tornò alla destra del suo padrone.
«È sempre colpa tua» gli sussurrò Dorota, sporgendosi oltre lo schienale, ma Dustan questa volta non ribattè.
«Kasimir…» iniziò dolcemente Howel, ma il Ministro di Tanaro non voleva più ascoltare.
«No. Non gli inculcherete simili idee in testa! Loro sono…sono…» aprì le ampie braccia per circondare le spalle dei due bambini.
«Il riflesso di ciò che erano» concluse per lui Howel, una nota di pietà nella voce.
Hansel incrociò le braccia al petto, come a volersi proteggere dalle parole del suo vecchio maestro. «Non è come dici tu, non è così semplice» alzò gli occhi, incrociando in fondo alla sala quelli di Savannah. «Nulla è cambiato» sussurrò, come a volersene convincere. La ragazza mantenne il suo sguardo per qualche istante, in un tacito segno di consenso, ma quando i dubbi tornarono ad attanagliarla distolse lo sguardo. 
«Sono solo menzogne!» urlò Kasimir.
Howel corrugò le folte sopracciglia bianche «Cerca di capire, figliolo» indicò Dorota e Dustan con la mano «Lia non avrebbe voluto questo per i suoi figli».
Istantaneamente la mano dell’uomo corse sull’elsa della spada che portava stretta al fianco «Non osare! Io non potevo! Non potevo lasciar morire anche loro!».
Aron si intromise «E ora li hai costretti a vivere in un mondo a cui non appartengono, un mondo che li rigetterà e li emarginerà, legati con catene invisibili che nemmeno tu puoi più spezzare. Non puoi invertire il ciclo della vita e pensare che quest’azione non ti si ritorcerà contro!».
«Loro ne sono felici!».
«E tua moglie lo sarebbe stata?!» ringhiò «Tua moglie sarebbe stata felice di vederti riesumare le salme dei suoi figli, di vederli distesi su un tavolo e aperti, dilaniati, squarciati con tenaglie da fabbro, di vederli trasformati in giocattoli, ubbidienti e fedeli come capre? Lia era felice quando hai dato in pasto il suo cadavere ai tuoi stupidi artigiani? Ti ha ringraziato quando hai deciso di profanare la sua tomba e di regalarle una seconda morte? Maledico il giorno in cui Lia ha scelto te come marito Kasimir e ringrazio che la malattia l’avesse debilitata a tal punto da rendere inutile qualsiasi tuo tentativo di riportarla in vita, perché altrimenti adesso sarebbe costretta ad assecondare ancora gli sproloqui di un bastardo come te!».
A quelle parole Kasimir sguainò la spada e, accecato dall’ira, cercò di agguantare il nuovo Ministro di Morèa salendo sopra la grande tavola rotonda. «Giuro che te la faccio ingoiare!».
Zane fermò il compagno, serrandolo in una ferrea stretta. «Amico mio, non fare pazzie!».
«Dannazione, lasciami! Lasciami o giuro che dopo farò fuori anche te per avermi impedito di ucciderlo prima!».
«Non ascoltarlo!».
«È riuscito a convincere anche te con le sue insulse chiacchiere? È così?».
«Affatto» lo rassicurò il Ministro di Ennon, senza allentare la presa «Ma devi capire che si tratta di un argomento delicato che non posso trattare a mani nude. Occorre tempo e bisogna ragionarci. Sono tenuto a farlo. Lo devo a Roan e ad Isolde. Non me lo perdonerei se commettessi ancora lo stesso errore».
«È l’amore che parla per te, Kasimir» disse Howel con tono pacato, nel tentativo di riportare la calma nel Consiglio «Ma l’amore ti impedisce di vedere con lucidità ciò che davvero conta».
«Sono vivi, è l’unica cosa che conta!».
Scosse la testa «Questa non è vita. Non è una vita che valga la pena di essere vissuta. Dobbiamo porre fine a questa carneficina. Morèa lo farà, con il vostro consenso o meno».
«È una minaccia? Inneggi alla guerra civile? Il sangue versato da Kalendor non ti è bastato?».
«Oh, non sta certo a te ricordarmi le atrocità che si sono susseguite tra queste mura. Bada bene, Kasimir, che tu sai cose che io ho visto molto prima della tua nascita. Non fare finta di non sapere quale sia la verità, solo perché è stato più facile diffondere la bugia. Io ricordo perfettamente un esercito che non poteva morire schierato contro un popolo che si era già arreso. E ricordo figli che uccidevano le madri, mogli che uccidevano mariti e fratelli che cessavano di essere fratelli solo perché così era stato loro ordinato e non possedevano più la libertà o il raziocinio per scegliere di fermarsi. Questo io ricordo di Kalendor e molto altro, ma non lo condividerò con te fino a quando non avrai intelletto sufficiente per comprendere». 
Quel pomeriggio la seduta si concluse con un voto a favore, tre contrari e uno nullo. 


 
   
 
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