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Autore: Elphie94    24/06/2017    0 recensioni
[Modern!AU] Considerato il più grandioso genio del nuovo secolo, Erik Danton vive recluso, nascondendo al mondo la ragione della sua volontaria segregazione. La sua vita cambia quando vi entra a far parte Meg Giry, una ragazza spavalda e apparentemente senza regole, che diverrà la sua nuova (quanto involuta) allieva. Tra i due non scorre buon sangue, ma nessuno, neanche Erik, può prevedere il futuro...
[Edit 2020: lievi correzioni e modifiche al testo.]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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xi.

 

Trascorre una settimana prima che si possa sentire meglio, ma una settimana senza vedere Meg già gli basta. La lascia in pace, più che altro, sempre timoroso di disturbarla; è lei a contattarlo per prima su WhatsApp o tramite cellulare, e riesce anche ad avere i saluti di Dany e Madame Giry. Forse appare un po' più freddo del necessario, ma davvero non può permettersi di cadere nell'abisso; c'è di mezzo il suo cuore, e probabilmente la sua salute mentale. Non sopporterebbe un altro colpo: magari vederla sistemarsi con qualcuno come Luc – qualcuno di normale, giovane, che possa renderla felice… E sa che non farebbe nulla per impedirglielo, che non commetterebbe mai, mai più gli stessi sbagli che ha fatto con Christine, anzi. Soffrirebbe se lei non lo volesse più, certo, ma non si opporrebbe. Qualsiasi cosa per renderla felice.

Un'improvvisa scampanellata lo avverte di un ospite casuale. Deve essere il Daroga, perché chi altri, con quella pioggia…

«Meg?»

É infangata dalla testa ai piedi, i capelli madidi appiccicati al cranio e alla fronte bassa, vestita interamente di cuoio nero, dalla giubba agli stivali aderenti. La moto prende acqua in un angolo del selciato. Ha il viso incupito, gli occhi cerchiati di nero, tempestosi, e l'aria di una a cui farebbero bene un bel bagno caldo e un sorso di camomilla.

«Ma che diavolo…?»

«Scusa se mi presento da te in questo modo» dice lei con la voce arrochita dalle sigarette. Sa che non deve fumare, soprattutto perché è una ballerina, ma gliel'ha già detto, non riesce a smettere.

«Entra. Gesù.»

La fa accomodare in casa senza più invocare il Padre Eterno e non le toglie gli occhi di dosso mentre gli cosparge il pavimento di orme di fango. Solo allora, guardandola bene in volto alla luce elettrica dei neon, si rende conto che ha le iridi cerchiate di rosso e il trucco – la solita matita nera – sciolto sulle palpebre, come se avesse pianto. O come se si fosse gettata un secchio d'acqua in faccia, ma quello è meno probabile.

«Cos'è successo? Cosa c'è che non va?»

«Scusami, io…» Si guarda attorno, per un attimo disorientata. «Scusami.»

«Figurati. Che cos'hai? Perché sei qui? Non che mi dia fastidio, ma…»

«Devo parlarti. Posso farmi una doccia, prima?»

«Certo. Sai dov'è il bagno.»

Erik la guarda fare ciac ciac con gli stivali fino al piano di sopra. È confuso, ma soprattutto preoccupato. Cosa ci fa Meg in casa sua, bagnata fradicia, a quell'ora della notte?

È in cucina a prepararle un tè quando sente dei passi felpati avvicinarsi – nessuno può imbrogliare il suo udito da cane – e per poco non fa cadere la tazza a terra quando la vede avvolta solo in un asciugamano, pulita ma fradicia, sulla soglia della cucina.

Santo cielo. È così poco vestita che si scherma gli occhi con una mano – da gentiluomo qual è, gli viene naturale.

«Sì, il tuo fare da gentleman è apprezzato, ma in questo momento non mi serve» risponde lei, mordace ma divertita. «Come vedi, sono compromessa. Sai dirmi dove sono dei vestiti puliti senza fare gesta inconsulte, o…?»

«Sei sicura di non aver organizzato questo bello scherzetto appositamente per mettermi in questa situazione?»

«Quale situazione?» Lei sbatte le palpebre con fare incolpevole.

«Questa.» Lui indica entrambi: lei mezza nuda, lui imbarazzato a morte. Lei scoppia in una risatina diabolica. «Solo un pochino. Volevo vedere che faccia facevi – beh, non facevi, vista la maschera… Ah, non fare il guastafeste, Erik.»

«Sei una peste. Dovrei lasciarti lì a morire congelata. Ma dal momento che non voglio ragazzine mezze nude in giro per casa…»

«Ehi, non sono una ragazzina. Sono una donna fatta.»

«Sì, sì, come vuoi» dice mentre le fa segno di seguirlo di sopra – si sta ancora schermando gli occhi.

«Scusa, sarebbe stato più facile per te se mi avessi visto come una donna adulta e non una specie di bambina troppo cresciuta che per caso ne ha partorito un'altra?»

No, mi avrebbe fatto impazzire. Ma lascia questo dettaglio al silenzio.

«Ehi, pretendo una rispos–…»

Lui fruga nell'armadio della stanza degli ospiti, trova una camicia e una felpa vecchie e gliele caccia in mano, sempre gli occhi chiusi a metà.

«L'asciugacapelli è nel cassetto del bagno a sinistra. Quello in basso. Riscaldati per bene, poi ci tocca una bella chiacchierata. Voglio sapere perché mi hai inzaccherato di melma l'atrio e il corridoio. E la prossima volta presentati al mio cospetto con dei vestiti addosso. Chiaro?»

«Sì, mon capitain» scherza lei, esibendosi in un saluto militare. Ma questo le fa cadere di dosso l'asciugamano sottile che la copre ed è in quel momento che lui, con un gemito d'orrore, si allontana giù per le scale mentre la risata di lei gli rimbomba nelle orecchie.

Diabolica peste. Quella è la figlia del demonio, non c'è che dire.

Quando ricompare in cucina, vestita e asciutta, sembra molto più calma. E più triste. Tutta la sua spavalderia è svanita, come risucchiata da un male innominabile che le tempesta il cervello. Erik ne aveva il sospetto già da un po', ma ora ne ha la conferma. Non sa a che livello si sia spinto il suo male, però.

«Grazie» sussurra lei di rimando quando lui le porge la tazza di tè caldo. Si siedono entrambi sul divano, lei sorbendo lentamente la bevanda rovente, lui che la osserva di sottecchi. Ora che è vestita – la camicia e la felpa le arrivano alle ginocchia, e ci crede, visto che sono sue – è molto più semplice.

«Scusa per il fastidio.»

«Figurati.»

«No, davvero, so che è un fastidio. Credi che Nadir mi abbia visto dalla finestra della casa vicina?»

«Non pensavo ti interessasse il giudizio degli altri.»

«Solo di alcuni.»

«Non preoccuparti, il Daroga non ti giudicherebbe comunque. È il mio badante, lo hai dimenticato?»

Lei scuote il capo. «Piombarti qui in casa conciata in quel modo… Sembravo uscita da una piovosa corsa clandestina di motociclette. Se solo Dany mi avesse visto…»

«Non ti ha visto, spero.»

«No. È per questo che sono venuta qui. Quando sono così, lei non mi deve vedere. Assolutamente. La spaventerebbe. Mi scambierebbe per un fantasma…»

Un fantasma… pensa quietamente Erik. Ha qualcosa di ironico e triste al contempo, che abbiano quell'aggettivo in comune.

«Sono il fantasma di me stessa. Non so che fare.» Lei poggia la tazza sul tavolino e si stringe le ginocchia al petto, il viso tirato e teso. Lui vorrebbe farle una carezza – qualsiasi cosa per tranquillizzarla – ma non si muove. Con il tocco, non ci sa fare. Non sa curare nemmeno se stesso, figuriamoci gli altri.

«Non ti ho detto una cosa. Solo mia madre lo sa, e un paio di persone… Luc, tra gli altri. Qualche mio vecchio insegnante di scuola. La mia terapista mi ha consigliato di rivelartelo, se volevo, poiché tu mi avevi detto tanto di te, del tuo passato… Così saremo stati pari. Ma non ne ho avuto il coraggio… Finora. Oggi è quel giorno.»

Erik aggrotta la fronte dietro la maschera, in attesa di ulteriori spiegazioni. Lei affonda di più nel sofà.

«Mio padre è morto oggi, tredici anni fa. Sai come.»

Lui annuisce, ancora vigile.

«É il giorno in cui sono morta anch'io. O almeno… la mia infanzia è morta. La mia innocenza.» Lo guarda con occhi grandi e lucidi. «Avevo dieci anni. Lui stava male da un bel po'… Un male che si portava dietro da secoli, a quanto pare. Mal curato. Soffriva tantissimo… Si è rinchiuso di sua volontà in un istituto di igiene mentale, lo sapevi?»

Lui annuisce ancora.

«C'erano notti in cui era in preda alla mania più sfrenata e suonava il pianoforte per ore. O meglio, ci strimpellava sopra. E giorni in cui non riusciva ad alzarsi dal letto. Sentiva delle voci e vedeva delle cose che non esistevano. Era spaventato a morte.» Meg si scosta una ciocca di capelli dalla fronte. «Lo hanno ucciso. I dottori, intendo. Per anni sono stata sicura che la colpa fosse loro. Che fosse loro il biasimo se si era…» Prende un respiro profondo e prosegue. «Non è proprio così. Mio padre ha fatto bene a ricoverarsi – ha cercato aiuto, ed è ciò che si dovrebbe fare in questi casi. Solo che non è stato abbastanza.

Quello che non sai è che… l'ho scoperto io, il cadavere. Impiccato. Stavo tornando da scuola prima del solito – lui non lo sapeva, non lo avrebbe mai fatto se solo avesse saputo… Vedi, tutta la mia vita poteva cambiare per quel minuscolo frammento di informazione. Ma così non è stato. E allora… tornai a casa e vidi quello che da quel momento in poi chiamai il pendolo.» Lei sorride, amarissima. Erik rimane a bocca aperta per qualche istante: non sapeva che fosse stata lei a scoprire il corpo del padre. A dieci anni, poi.

«Quando lo vidi scoppiai a urlare e… Fu mia madre a scoprirci. Me che urlavo e il corpo di mio padre. Passai un mese in uno stato catatonico, così dicevano i dottori – non parlavo, non mi muovevo, a stento mangiavo e respiravo. Non ero viva. Davanti ai miei occhi avevo solo l'immagine di mio padre che moriva. Era un'ossessione che non riuscivo a cancellare. Poi mi risvegliai, quando mi resi conto che Maman soffriva e aveva bisogno di me, e…» Lei deglutisce. «Non fui una buona figlia. Per anni, fino al liceo, mi cacciavo nelle risse. Picchiare qualcuno mi aiutava a dimenticare… il pendolo. Vidi psicologi, psichiatri – niente funzionava a lungo. Uscivo tardi la notte, quando mia madre era al lavoro, per andare in discoteca e… beh, puoi immaginare. Il sesso e l'alcol e il fumo mi stordivano – era quello che cercavo, un modo per uscire dall'incubo. Quando avevo sedici anni, tentai di…» Qui si ferma, le lacrime agli occhi. Una le cola sul nasino schiacciato. Erik la raccoglie e le sfiora delicatamente una guancia. Lei gli stringe la mano, fino allo spasimo. «Non riuscivo a cancellare i pensieri che mi ossessionavano. La mia mente era un campo di guerra. Distrutto, rovinato da me stessa. E così tentai di… di uccidermi. Trascorsi un anno in un istituto psichiatrico. Lì conobbi la dottoressa Laurent. Lei mi aiutò, mi aiutò davvero. Quando ne uscii, ricominciai con la scuola, con la danza, con la mia vita. Era come essere nata di nuovo… Mia madre era l'unico raggio di sole nella mia esistenza, l'unica presenza fissa. Poi c'era Luc, naturalmente. Un bravo ragazzo. Credo che mi amasse, ma io non amavo lui allo stesso modo. L'ho fatto soffrire, e mi dispiace. Un anno dopo ebbi Dany, e da quel momento cambiò tutto. Il mio pianeta cominciò a ruotare attorno alla vita che mi cresceva dentro. All'inizio ero devastata e impaurita: pensavo che non avrei più potuto permettermi una carriera da ballerina, ma Luc – come ti ho già detto – mi assicurò che si sarebbe preso cura lui della bambina, quando io non potevo. Che non avrei dovuto sacrificare me stessa. Devo sembrarti egoista, ma per me fu un colpo non indifferente.»

«Lo immagino.»

«No, tu non immagini.» Lei sospira. «Quando ho tentato il suicidio… Mi sono quasi uccisa con un'overdose di farmaci. Mi svegliai in ospedale imbottita di medicinali, flebo, gli occhi di mia madre sopra di me che versavano lacrime… Si incolpava, capisci. Per non avermi aiutata. Ma lei mi ha cresciuto nel miglior modo possibile. Sono io che non le ho dato abbastanza.»

«Non è colpa tua. E comunque, adesso stai meglio.»

«Sì, certo. Mi sono diplomata con due anni di ritardo, ma alla fine ce l'ho fatta. Dopo il mio tentato suicidio, tutto mi faceva paura. Solo la vicinanza di mia madre e Luc mi aiutava, e quella della dottoressa. Ci vollero mesi e mesi di duro lavoro, ma alla fine ne uscii fuori. In parte, dentro di me, temo sempre di ricascarci, in quell'incubo. La morte non si può disfare. Ci sono situazioni che non possono risolversi. Ma potevo risolvere me stessa, come un cubo di Rubik. E così ho fatto. Ecco, non volevo dirti altro.»

«Hai ancora paura?»

«Sì. Sono tormentata dagli incubi, ma da quando prendo le medicine – avevo sedici anni quando ho cominciato ad assumere psicofarmaci, seguita regolarmente da un dottore, e ovviamente dalla mia terapista – sto molto meglio. Ma sì, ho ancora paura. Soprattutto per Dany. Non posso crollare. Per lei, non posso farlo. Non posso farlo…»

Ha ancora gli occhi – gli occhi che Erik ha imparato a trovare così belli, così scuri – lucidi di lacrime non versate. Si stringe a lui, la testa sul suo petto, e questo gli mozza il fiato in gola. Spera tanto che, malgrado la vicinanza, non se ne sia avveduta. Lei respira piano, piangendo silenziosamente. Erik afferra tutto il coraggio di questo mondo e le scosta la frangia dalla fronte bassa e aggrottata, sfiorandole i ribelli capelli neri. Come faceva a trovarli simili a un nido di vespe, un tempo? Sono di una morbidezza e un colore sensazionali. La stringe a sé con dolcezza, in un gesto a cui non è abituato – è un eufemismo. Non ha mai dovuto consolare qualcuno in vita sua. Ciò che più assomiglia a un contatto umano che abbia mai avuto è il pianto di Christine contro il suo – quando si sono abbracciati, lui ai suoi piedi, tanti anni prima. Ora si rende conto che non abbraccia una persona da più di quindici anni. Quello è il suo primo abbraccio dopo una vita di solitudine. Con il Daroga sarebbe stato inopportuno e imbarazzante – non sono davvero amici, per quanto tenga e si preoccupi per lui, per quanto siano legati (in fondo, gli ha salvato la vita).

Meg è la sua prima amica in assoluto.

Christine non conta, perché è stato ossessionato da lei dal momento in cui ha posato gli occhi sulla sua figurina bionda. Quel che prova per Meg non è affatto ossessione: è molto diverso, molto più dolce, molto meno violento, seppur non meno passionale.

Sono spacciato, pensa in un rantolo di paura. No, non può essere. Somiglia a…

Lei si stringe al suo petto e mormora un “grazie” sentito. Lui, per tutta risposta – gli mancano le parole – le sfiora una spalla in un gesto che spera sia di conforto.

Merda, pensa. È proprio il caso di dirlo.

   
 
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