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Autore: time_wings    25/06/2017    0 recensioni
[High School!AU]
La scuola è appena ricominciata e, numerose e spiazzanti novità, non tardano a palesarsi. Il cammino di un adolescente, si sa, può essere tortuoso e pieno di pericoli. Un anno scolastico servirà a mettere a posto antichi conflitti? L’amore tanto atteso sboccerà per tutti? I sette della profezia che avete tanto amato trapiantati nell’impresa più difficile di sempre: la vita di tutti i giorni fino all’estate successiva. Mettetevi comodi e buona lettura.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Esperanza Valdez, I sette della Profezia, Nico di Angelo, Sally Jackson, Will Solace
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note dell’autrice: Buoooona domenica, cari lettori. Continuiamo a plasmare il tempo a nostro piacimento ritrovando i nostri ragazzi alle prese con la risoluzione del problema dello scorso capitolo e la creazione di nuovi. Non ho molto da dire, solo che in questa settimana sono riuscita a scrivere un po’ più di quanto sia riuscita a fare nelle scorse e posso assicurarvi che nuove ed imbarazzanti cose stanno arrivando. Volevo chiarire la questione Solangelo, che è davvero poco presente. Vorrei dare davvero più spazio alla coppia (essendo, forse, la mia preferita), ma è abbastanza difficile incastrarla. Posso assicurare, però, che nei prossimi capitoli, quei due si faranno vedere eccome. Vi aspetto, come al solito qui giù. (Non so assolutamente concludere nulla nella vita. Come si saluta? Aiut)
T_W

 
COACH IRRITABILI E MEDICAZIONI DI FORTUNA
 
Jason non sapeva bene come comportarsi con Leo e non perché non riuscisse a tirargli su il morale, ma perché il messicano sembrava ancora più gioioso del solito.
Dal canto suo, Jason non riusciva neanche a capire se la sua estrema felicità fosse autentica o solo un modo per mascherare la tristezza. Così cercava di stargli vicino quanto più potesse senza far trapelare la preoccupazione che, ormai, non poteva fare a meno di provare.
 
Erano passate più di due settimane dalla serata del bagno nelle fontane, ma Leo non parlava con Hazel da quel giorno se non per salutarla o chiederle penne in prestito durante le ore di storia.
Quel giorno, però, decise che era arrivato il momento di interrompere quel ridicolo silenzio che era calato tra loro e di parlarle: “Ciao!” Salutò con la disinvoltura di chi non ha non parlato per più di due settimane con una persona. La ragazza si guardò per qualche secondo intorno, incerta se Leo stesse davvero parlando con lei. Una volta resasi conto che sì, il ragazzo stava davvero parlando con lei, gli si avvicinò con uno sguardo confuso e curioso di scoprire cosa avesse di così importante da dirle da rompere quel silenzio che durava, ormai, da giorni tra loro. In realtà, però, neanche Leo sapeva cosa dirle, voleva solo che ci fosse qualcosa da dire: “Io, beh… Mi ricordo poco di quello che è successo e mi dispiace.” Iniziò rincuorato dal fatto che era riuscito a dire qualcosa senza aver fatto l’errore di essersene stato tutto il tempo a fissarla, in cerca di qualcosa da dire.
“Figurati, meglio così!” rispose velocemente Hazel, che in quelle settimane aveva pensato molto a cosa dire a Leo, ma non avrebbe mai pensato sarebbe stato un discorso facile e scorrevole. Leo tirò un sospiro di sollievo, ma il pensiero di non riuscire a ricordare di aver baciato la ragazza che gli piaceva rischiava di farlo impazzire. Il silenzio che tanto temevano calò tra loro; Leo iniziò a fissarla come fosse sul punto di dire qualcosa quasi ogni secondo.
“Bene, Leo, sono felice che abbiamo chiarito, davvero. Ora devo andare da Frank.”
“Oh, Frank, senti, non è che adesso mi odia?” Domandò il messicano preoccupato, a Hazel sfuggì una risata: “Non penso ti odi, ma non sono neanche sicura tu sia la sua persona preferita.” Rispose la ragazza che, un po’ per il nervosismo, un po’ per la domanda di Leo, non riusciva a smettere di ridere: “Oh, va bene. Allora… ci si vede in giro?” Domandò passandosi una mano sul retro della testa imbarazzato.
“Certo.” E, così dicendo, Hazel si voltò per andarsene.
“Oh, Hazel!” La richiamò il messicano, rosso in viso: “M-mi dispiace di non ricordare quel bacio.”
“Già, me l’hai detto, non ti preoccupare, non mi sono offesa; eri ubriaco.” Rispose la ragazza che, ancora sotto l’effetto dell’imbarazzo di quel discorso, non doveva aver colto le parole di Leo.
“No, non intendevo quello, dicevo che mi sarebbe piaciuto tanto ricordarlo.”
“Oh” La verità investì Hazel in un secondo, lasciandola scossa per qualche momento: “Magari un giorno lo ricorderai.” Aggiunse andandosene. A Leo rimase un dubbio: intendeva che un giorno gli sarebbero riaffiorati i ricordi, o che avrebbe avuto un altro bacio da ricordare? Con quell’incognita si avviò verso la classe di letteratura, che aveva con Annabeth.
 
Jason aveva proposto a Leo di entrare nella squadra di football perché credeva che avere una squadra potesse aiutarlo a sentirsi meno solo.  Non era stato difficile farlo entrare dato che lui era il capitano e che un ragazzo era stato costretto ad abbandonare il gruppo dopo aver picchiato un avversario per avergli pesato il piede. Il coach, dal canto suo, poi, non vedeva l’ora di colmare il vuoto lasciato da quel Dylan con il primo ragazzo che si fosse offerto di far parte della squadra. Leo era, quindi, entrato senza aver mai provato a giocare a football prima e senza neanche conoscere bene le regole del gioco, dato che Jason non voleva proprio saperne di sentire un no come risposta.
Gli allenamenti erano stressanti dato che il coach non faceva altro che ripetergli quanto fosse scarso e paragonando la sua forza a qualunque nonna, zia grassa o iguana che avesse mai avuto. A guardarlo da lontano Leo avrebbe quasi detto che fosse un vecchio simpatico ed incapace di fare del male ad una mosca, ma più lo conosceva e più si rendeva conto che era totalmente pazzo.
Il messicano crollò a terra dopo che, con il più grande sollievo che avesse mai provato, il coach dichiarò che avessero fatto abbastanza addominali per quella mattinata. Leo non era mai stato portato per lo sport di qualunque tipo: preferiva gli indovinelli logici e matematici che trovava al computer o alla fine delle riviste di meccanica che leggeva la madre. “ALZATI, DISGRAZIATO!” Ringhiò il coach Hedge dritto nelle orecchie di Leo facendo volare via i timpani del ragazzo: “Ora ne fai altri venti!” Urlò puntandogli la mazza da baseball, che, in un certo senso, ricordava al ragazzo una clava e che portava inspiegabilmente sempre con sé sul petto. Leo imprecò a denti stretti ubbidendo agli ordini del coach.
“Ti sei divertito?” Domandò Jason nello spogliatoio all’amico che sembrava respirare a stento. Leo riuscì solo a regalargli un’occhiataccia mentre provava invano a pronunciare una delle sue solite battute sarcastiche.
“Leo!” Lo chiamò dal fondo dello spogliatoio una voce che il ragazzo non riconobbe subito: “Ehi ciao!” Disse un ragazzo dai capelli neri: “Ciao, Percy, dimmi.”
“Se sei qui per arrabbiarti con Leo da parte di Frank puoi anche andartene.” S’intromise Jason minaccioso.
“Jason, io non penso che…” Disse Leo confuso.
“Ma che cazzo vuoi?” Rispose Percy avvicinandosi al biondo e guardandolo in cagnesco: “Stavo parlando con Leo e, so che non è il tuo genere, ma volevo essere gentile.”
“Sì, certo, vaffanculo.”
“Ma vacci tu.” Rispose Percy afferrandolo per la maglia sudata.
“Va bene, ragazzi, calma.” S’intromise Leo, che non riuscì a catturare l’attenzione di nessuno dei due.
“Poi saresti capace di essere invidioso anche del fatto che ci sono lì io e non tu.” Rispose Jason provocandolo. A Percy si annebbiò la vista dalla rabbia e gli sferrò un pugno sullo zigomo, mentre Leo cercava in tutti i modi di fare qualcosa per fermarli. Jason reagì senza batter ciglio colpendolo sul sopracciglio, che iniziò a sanguinare copiosamente, mentre Percy diventava sempre più aggressivo.
“MASCALZONI!”  La voce del coach Hedge risuonò tra le grate degli spogliatoi: “JACKSON! COSA STAI FACENDO?” Urlò il coach mentre tirava via Percy da Jason, che aveva smesso di reagire facendo passare il moro per l’attaccabrighe di turno. “Adesso vieni con me in presidenza.” Gli disse tirandolo per le orecchie fuori dallo spogliatoio.
“Merda.” Borbottò il ragazzo maledicendo Jason con tutti gli insulti che il suo cervello riusciva a ricordare, mentre si dirigeva in presidenza con un viaggio tutt’altro che piacevole.
Il coach Hedge scaricò Percy su una delle sedie antecedenti l’ufficio del preside e lo lasciò preoccupandosi solo di mormorare qualcosa che sembrava diretta più a se stesso che al ragazzo. Percy mise una mano sulla guancia a reggersi la testa sbuffando, dato che sapeva per esperienza che il preside non l’avrebbe ricevuto prima di un bel po’. Se non altro pensò potrei essere così fortunato da perdermi buona parte dell’ora di storia.
Dieci minuti dopo, il ragazzo iniziò a sentire le palpebre pesanti e lottò con tutto se stesso per non abbandonarsi al sonno. Poté essere sicuro di aver vinto la sua battaglia quando una ragazza dai lunghi capelli biondi raccolti in una crocchia entrò nella piccola stanza, sgranando gli occhi alla vista di Percy. Il moro la salutò con la mano, mentre sentiva le punte delle orecchie iniziare ad andare a fuoco, un sorriso ebete gli si dipinse in viso e non poté fare nulla per mascherarlo.
“Ciao.” Lo salutò lei, con un tono interrogativo, omettendo la domanda che moriva dalla voglia di fargli da quando aveva messo piede in quella stanza.
“Annabeth, ciao! Siediti.” Le rispose come se la sedia fosse sua.
“Tu… Insomma, perché sei qui? E perché hai il sopracciglio che sanguina?”
“Ma non ti sfugge niente.” Replicò ironico Percy, che non aveva alcuna voglia di spiegarle che aveva fatto a botte con il ragazzo che ci provava con la sua migliore amica.
“Che hai fatto?” Chiese facendosi seria la ragazza e sedendosi sulla sedia accanto a quella di Percy.
“Niente, diciamo che c’è un ragazzo che non mi va troppo a genio e oggi ho esagerato.” Rispose amaro il ragazzo al massimo dell’imbarazzo.
“Mh…” Annabeth sembrò rifletterci su: “Quindi questo ragazzo che non ti va troppo a genio non è Jason.” A Percy sfuggì una risata: quella ragazza era piena di sorprese.
“E tu?” Domandò cambiando discorso: “Perché sei qui?”
“Voglio che il preside ci dia il permesso di fare una visita ai più famosi musei di New York.” Spiegò Annabeth con gli occhi che brillavano. In quel momento la porta dell’ufficio del preside si aprì di botto e Percy ne fu quasi contento dato che non era sicuro di riuscire a sostenere un discorso sulla storia e sui musei con una ragazza come Annabeth. L’espressione delusa del preside, però, gli fece quasi rivalutare quel pensiero: “Jackson” Iniziò il preside abbattuto, nella sua voce non c’era neanche l’ombra della rabbia che Percy si aspettava. Il ragazzo pensò che sarebbe quasi stato meglio uno sfogo come quello del coach, piuttosto che il senso di colpa con cui si stava trovando a fare i conti: “Entra e vediamo di chiudere questo discorso il prima possibile.” Percy entrò nella stanza con la coda fra le gambe sotto lo sguardo attento di Annabeth che doveva aver capito che era un ospite che si faceva vedere troppo spesso da quelle parti.
“Cosa hai fatto questa volta?” Gli domandò il preside scocciato mentre si accomodava sulla grande sedia nera di pelle. Percy richiuse la porta lanciando un ultimo sguardo ad Annabeth rincuorato solo dal fatto che l’avrebbe rivista dopo quell’incontro.
“Non ho fatto niente. Io e Grace ci siamo solo un po’ scaldati. Niente di più.”
“Lo vedo. Carino il sangue rappreso sul sopracciglio.” Commentò sarcastico il preside.
“Preside Chirone.” Iniziò Percy: “Mi dispiace davvero tanto per aver perso il controllo, ma si può sapere perché ci sono solo io qui? Insomma, il sopracciglio non me lo sono certo sfasciato da solo.”
“Perché evidentemente stai combinando così tanti guai che ormai sei diventato il capro espiatorio di tutti. Ti prego, non farmi arrivare a farti sospendere e promettimi semplicemente che ci penserai e non lo farai più.” Percy incrociò le braccia al petto ed abbassò lo sguardo senza proferir parola: “Tu cerca di tenerti lontano dai guai per un po’ e nessuno ti darà più tutta la colpa di niente.”
“Va bene.” Rispose alzandosi dalla sedia posta di fronte alla scrivania del preside: “Non può tenermi un altro po’ qui? Ho storia.” Disse recuperando di nuovo quella luce ironica negli occhi.
“Esci.” Disse ridendo e scuotendo il capo il preside.
Percy rivide, come si aspettava, di nuovo Annabeth e le sorrise raggiante: “È tutto tuo!” Le disse mentre la ragazza entrava nella sala di Chirone. Un’idea malsana iniziava a formarsi irrimediabilmente nella sua testa.
Infatti quando la ragazza uscì poco dopo fu sorpresa di trovare Percy appoggiato al muro con il suo solito sorrisetto stampato in volto: “Che ci fai qui?” Domandò la ragazza mentre un sorriso iniziava a farsi strada sul suo viso senza che lei potesse far niente per sopprimerlo.
“Ho pensato di aspettarti.”
“Io penso che tu debba andare in infermeria perché il sangue si è…”
“Sì, lo so, si è rappreso.” Disse Percy interrompendola ed alzando gli occhi al cielo: “Lo so, ma non voglio andarci. Mi odiano, lì.”
“Per tua fortuna” Iniziò la ragazza: “Piper mi ha lasciato acqua ossigenata, ovatta e cerotti nello zaino, prima.”
“E perché dovrebbe avere tutte queste cose?”
“Perché mette scarpe con tacchi vertiginosi che le fanno venire le vesciche.” Rispose ridendo la ragazza, mentre cercava nella borsa gli oggetti che gli aveva promesso.
Versò dell’acqua ossigenata su un batuffolo d’ovatta mentre Percy non riusciva a staccarle gli occhi di dosso sentendosi un po’ sotto pressione. Alzò lo sguardo incontrando quello verde mare del ragazzo e, alzando un braccio, iniziò a tamponare col batuffolo sul sopracciglio sbucciato. Erano più vicini di quanto fosse necessario, ma a nessuno dei due sembrò dispiacere troppo. Quando Percy le si avvicinò chiudendo gli occhi, pronto ad incontrare le labbra di Annabeth con le sue, lei si abbassò per prendere il cerotto dallo zaino, sotto lo sguardo attonito ed imbarazzato del moro, che si affrettò a mormorare qualche scusa.
“Non preoccuparti.” Rispose la ragazza applicando il cerotto: “Ma… Ora devo andare.” Continuò girandosi e scappando via senza fermarsi a notare neanche la reazione di Percy. Non sapeva perché l’avesse fatto, ma sapeva che quello non era semplicemente il momento giusto. Continuava a credere che, una volta ottenuto ciò che voleva, lui avrebbe ripreso a trattarla come avrebbe trattato qualunque altra ragazza che voleva solo far cadere ai suoi piedi.
 
“Dammene di più.”
“Lo sai che non va bene così tanta, non voglio certo che tu ti senta male.” Commentò amaramente il biondo.
“Ma se fossi io a volerlo?”
“Ma sono io quello che vende, quindi fuori dai piedi, Percy.” Gli rispose scacciandolo con quella che doveva essere ufficialmente una pacca sulla spalla, ma che sembrava più uno spintone.
Percy si recò velocemente a casa sua chiedendosi se anche quella sera avrebbe trovato sua madre a piangere in bagno senza poter fare niente per farla stare meglio. Chissà se anche quel giorno sarebbe scappato con una scusa stupida al bar per non vederla in quelle condizioni; sapeva che poteva sembrare egoista da parte sua, ma sentiva di non poter sopportare di vedere sua madre in quello stato e preferiva lasciarla da sola.
Come da programma, allo scatto delle chiavi nella serratura, sentì un singhiozzo sommesso. Percy agguantò velocemente qualche dollaro dal mobiletto che si trovava accanto alla porta mentre sentiva già le lacrime, prepotenti, riempirgli gli occhi. Sentì il groppo ed il bruciore alla gola che si provano quando si cerca di trattenere le lacrime. Soffocò un: “Torno tra poco.” e si affrettò alla porta con la speranza che il vento fresco di ottobre gliele asciugasse, mentre uno sguardo duro e pensieroso si dipinse sul suo volto.
Con sua grande sorpresa, arrivato al solito bar, intravide una figura massiccia al tavolo a cui si sedeva sempre: “Frank.” Salutò sedendosi accanto a lui non nascondendo la frustrazione che trapelava dalla sua voce. Solo in quel momento notò che l’amico manteneva uno sguardo basso e si intravedevano delle lacrime ormai asciutte sul suo viso: “Tutto bene?” lo incalzò il moro alzandogli il viso con una mano affinché potesse guardarlo negli occhi: “Sì, le solite cose: mia nonna che si infuria per cose di poco conto e finisce per lanciarmi addosso tutta la sua frustrazione fino ad incolparmi per… per la morte di mia…”
“Va bene, ho capito.” Lo interruppe Percy alzando una mano con gli occhi di nuovo illuminati da un’idea: “Qui ci vuole qualcosa di forte.” Disse mentre estraeva dalla tasca il pacchetto acquistato poco prima con un sorriso compiaciuto ad illuminargli il volto. Frank, in tutta riposta, ricambiò con uno sguardo sbalordito e preoccupato insieme: “Qui?” Domandò incredulo. A Percy scappò una risata: “Ma no!” esclamò: “Vieni, andiamo.” Lo incalzò mentre un cameriere si avvicinava al loro tavolo con un una penna ed un foglio accartocciato stretti in un’unica mano, ma Percy non perse tempo ed afferrò il braccio di Frank per portarlo via prima che il cameriere potesse parlare, mentre Frank, ormai a metà strada, si girava indietro per domandare perdono con lo sguardo al cameriere.
Percy lo condusse ad un campetto di basket isolato ed al buio, dove qualche pallone sgonfio era l’unica compagnia che avevano. Svuotò metà del contenuto della sua bustina su una cartina lunga e compose la canna con maestria sotto gli occhi insicuri di Frank: “Percy… Io non sono sicuro che…”
“Prova soltanto. Se non ti piace la fumo io.” Lo interruppe il ragazzo porgendogli la canna dalla quale aveva già fatto un paio di tiri. Frank accettò titubante e tossì quando fece il primo tiro sotto gli occhi divertiti di Percy.
Venti minuti dopo erano ancora lì; Percy tirava mancando di diversi metri il canestro con tutti i palloni sgonfi che si trovava accanto, mentre Frank era accasciato su una panchina stanco, anche se Percy aveva fumato molto più di lui. Il moro si fermò seguendo l’idea di Frank di sedersi sulla panchina: “Ma come fai ad essere così energico?” Gli domandò con tono stanco. Percy gli rispose quasi soffocando dalle risate: “Ma tu non hai praticamente fumato!”
“Senti” Iniziò Frank: “Ma tu con chi ci vai al ballo?” Domandò cambiando discorso.
“Ora lo chiedo ad Annabeth!” Dichiarò prendendo il cellulare dalla tasca e soffocando un urlo quando la luce del cellulare lo accecò.
“Io non penso sia una buona idea.” Sentenziò Frank cercando di fermarlo, ma il ragazzo aveva già avvicinato il telefono all’orecchio: era troppo tardi.
 
“Annabeth!” Chiamò Piper alzando il telefono in aria: “Ti sta chiamando quel Percy!”
“Cosa? Ma che vuole?” Rispose da un’altra stanza mentre si avvicinava all’amica: “Pronto?”
“Annabeth!” Urlò Percy biascicando: “Ci vieni al ballo con me?” Domandò con tono sfacciato.
“Percy? Sei ubriaco?”
“Non esattamente. Sono fatto, in realtà.” Precisò ridendo.
“Allora ne riparleremo quando sarai sobrio.” Ribattè chiudendo la chiamata e chiudendo anche il discorso.
   
 
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