XII
«Evidentemente
no,
dal momento che sta volteggiando come una farfalla davanti al mio
naso!»
sbraitò Krugar. Era convinto di aver estinto quella
minaccia, e non poteva
credere ai propri occhi: Arandil si stava avvicinando con un sorriso
sprezzante
e tutta l’aria di voler restituire il favore
all’orco.
«Lasciatelo
a me»
sibilò, un ghigno minaccioso e una scintilla omicida negli
occhi. Voleva
eliminare quell’elfo una volta per tutte e
l’avrebbe fatto alla vecchia
maniera: con un duello all’ultimo sangue.
«Checca,
se hai il
coraggio vieni ad affrontarmi! Da uomo a uomo!» lo
provocò il pirata, e si
lasciò cadere con la corda su uno spuntone di roccia.
Arandil sbuffò: non
aveva alcuna intenzione di fornire uno spettacolo penoso e
sanguinolento a quei
pirati: zoppicava vistosamente e sarebbe risultato ridicolo, non
riusciva a
muoversi più così agilmente, la sua gamba
sinistra rispondeva in ritardo e non
come avrebbe voluto lui. Il proiettile aveva reciso il legamento e
sarebbe
occorso qualche mese perché guarisse, rimanendo sciancato
per il resto dei suoi
giorni.
Ma se non avesse
accettato la sfida avrebbe fatto la figura del codardo e avrebbe perso
la
possibilità di affrontare Krugar senza tutto il suo
armamentario, sarebbero
stati solo loro due e le loro abilità.
Con un sospiro
rassegnato, fece affiancare Krupfer allo sperone roccioso, che si
protendeva
quasi orizzontalmente sull’abisso. La superficie liscia e
nera ricordava una
distesa di ossidiana, ma quella pietra non rifletteva la luce e pareva,
invece,
ingoiarla e annullarla in una cupezza uniforme e desolante.
Il cavaliere atterrò
malamente, la gamba offesa gli inviò una fitta e
impiegò qualche secondo per
riacquistare l’equilibrio. Krugar sorrise: ucciderlo sarebbe
stato di una
facilità disarmante, quasi gli spiaceva per lui.
Roteò la spada, la
lama luccicava ancora del sangue di Ardrir e il filo scintillava letale
sotto
la luce inclemente del sole di mezzogiorno.
«Quella mezza
calzetta si farà ammazzare» imprecò
Adam tra i denti. Era rimasto
sull’Andromeda, preferendo rimanere a guardare come si
sarebbero svolti i
fatti: se Arandil fosse morto sarebbe stata una liberazione; ma se
invece fosse
stato Krugar a soccombere, avrebbe dovuto trovare un modo per mettere
da parte
l’elfo ed evitare che ostacolasse il suo piano.
Arandil estrasse la
spada che portava al fianco come simbolo della sua posizione, non
l’aveva mai
usata anche se si era premurato di tenerla sempre affilata e pulita. La
lama
emise un lamento strozzato, strappata a forza dal suo giaciglio in cui
aveva
riposato fino a quel momento.
«Pensi di potermi
battere con quel puntaspilli?» lo provocò Krugar.
«Il maestro di spada
ci ha insegnato che non importa la lunghezza dell’arma, ma
l’uso che se ne fa.
Anche un ago può essere letale se brandito nel modo
giusto.»
In realtà quelle
erano le parole che suo padre gli ripeteva costantemente, quando ancora
nutriva
speranze nei confronti del figlio e del suo futuro da guerriero, prima
che
Arandil gli confessasse il suo amore per il cielo e il vento e perdesse
ogni
stima nei suoi confronti, domandandosi cosa avesse sbagliato nella sua
educazione.
«Inoltre, sai cosa
si dice su chi porta le spade lunghe…» lo
stuzzicò. Krugar avvampò e strinse
con maggiore forza l’elsa della spada, quasi si fosse
trattato del collo
dell’elfo.
Arandil assunse la
posizione di guardia, la caviglia che strillava di dolore, e
aspettò l’assalto
dell’avversario.
L’orco non si fece
pregare e caricò con tutta la sua forza, l’elfo
scattò, con sommo disappunto
della parte lesa, e sgusciò lontano dalla portata dello
spadone. Krugar si
voltò in un tondo, tendendo la spada con una mano sola,
nella speranza di
sorprenderlo nel mezzo dello scatto, ma il Dragoron schivò,
abbassandosi di
colpo, e la lama ruotò sopra la sua testa in un sibilo
raccapricciante.
L’elfo rispose con
un montante che l’altro evitò, volgendo le spalle
all’avversario. Arandil provò
un’imboccata ma venne intercettata dalla spada
dell’altro. Krugar girò,
tornando a mostrare il proprio brutto muso, e replicò con
una serie di assalti
incalzanti.
«Colpire di spalle è
da villani» lo rimproverò, «Non te lo
hanno insegnato all’Accademia?»
Il
Dragoron cedette
di fronte alla forza dell’altro e scivolò di lato,
sottraendosi al fendente
diretto alla sua testa. La gamba non rispose immediatamente e
riuscì a ritrarla
all’ultimo; Fernecar baciò il polpaccio
dell’elfo, lasciandovi il suo marchio:
un sottile rigagnolo dorato brillò sul gambale di cuoio.
«Non
sei più tanto
atletico, adesso» gli fece notare l’orco,
sprezzante.
«Nemmeno
tu sembri
tanto in forma, cacciare draghi è sfiancante»
ansimò Arandil. La verità era che
l’elfo era in una situazione più critica e
disperata dell’orco: la gamba
lesionata azzerava il suo vantaggio, non potendo più contare
sulla propria
velocità e agilità; i movimenti bruschi avevano
riaperto la ferita sul petto e
il giovane sentiva il sangue gocciolare e impregnare la stoffa. Krugar,
invece,
non aveva riportato ferite gravi e l’uccisione del drago
l’aveva reso
baldanzoso e feroce.
Un
nuovo tondo che
Arandil riuscì a parare all’ultimo, la forza si
propagò dalla lama al suo
braccio, facendolo tremare per lo sforzo.
Non
poteva sperare
di battere l’orco su quel piano, doveva puntare
sull’astuzia e
sull’imprevedibilità.
Cercava
di rievocare
gli allenamenti estenuanti all’Arena, quando lo costringevano
a misurarsi con
Gorgar il Titano un Ibrido alto il doppio di lui e largo il triplo, con
le
dimensioni del cervello inversamente proporzionali alla mole, ma
ugualmente
difficile da abbattere, soprattutto per uno scricciolo maldestro come
lui.
Aveva sempre detestato quegli scontri, in cui non faceva altro che
saltare e
schivare i fendenti dell’avversario, come una cavalletta
impazzita. Grazie a
quelle sessioni aveva imparato ad essere scattante e veloce, ma non a
rispondere ai colpi del nemico. Aveva sempre odiato quelle sessioni
stancanti e
prive di utilità, almeno dal suo punto di vista: ogni volta
che aveva provato a
contrattaccare, si era ritrovato con le chiappe nella polvere e lo
sguardo
deluso del suo maestro ad avvilirlo.
Ridoppio, tondo,
rovescio, era difficile elaborare una strategia e contemporaneamente
tentare di
contrastare gli attacchi serrati dell’avversario. I colpi di
Krugar non erano
poderosi, per quanto forti, segno che si stava divertendo con lui, lo
stava
stuzzicando e stava giocando con lui come il gatto fa con il topo.
Se avesse voluto
dividerlo a metà ci sarebbe perfettamente riuscito con un
unico, portentoso
fendente, ma il pirata voleva umiliarlo e sconfiggerlo un poco alla
volta,
ridurlo in pezzi, un brandello dopo l’altro.
Tondo, e la risposta
fu troppo lenta: un'altra parte di armatura si squarciò e un
nuovo scintillio
dorato baluginò sulla spalla destra dell’elfo.
Dritto, e la gamba
cedette, permettendogli di schivare il colpo che gli avrebbe aperto un
sorriso
sul collo.
«L’unico modo per
abbattere una montagna è sgretolandone le
fondamenta» le parole di suo padre
gli rimbombarono nella testa. Era difficile intaccare la
solidità di gambe
ampie come tronchi d’albero e la fermezza di piedi lunghi
come zattere, come
quelli di Gorgar. Krugar, però, si era mostrato meno
stabile, e nello scontro
precedente era stato semplice farlo cadere…
Arandil si abbassò
fulmineo e provò a spazzare la roccia sotto il contendente
per sottrargli
l’appoggio, ma l’orco aveva imparato la lezione e
appena si accorse del
movimento dell’altro, saltò. L’elfo fece
in tempo a terminare la mossa per
parare un fendente improvviso del pirata, calato dall’alto
come l’ascia del
boia. Era piegato in due per lo sforzo e la fatica faceva urlare i
muscoli, la
caviglia pulsava e bruciava, gli squarci che lo costellavano dolevano e
la
ferita al petto mandava fitte atroci ogni volta che si inspirava:
sarebbe stato
schiacciato dalla sua potenza e dalla sua forza, fallendo miseramente.
Di
nuovo.
Una nuova serie di
colpi incalzanti lo fecero indietreggiare. Arandil inciampò,
vide lo scintillio
della lama sopra il suo volto e sentì l’aria
solleticargli la nuca. I capelli
ricadevano nel vuoto e si rese conto che la sua testa era sospesa sopra
l’abisso. Deglutì e con un colpo di reni si
sottrasse al precipizio, Fernecar
morse la pietra, staccandone qualche briciola.
Con una capriola
schivò il dritto dell’altro, e la ferita al petto
si aprì definitivamente,
mandando una fitta di lancinante dolore, simile a una pugnalata.
«Non c’è
divertimento a combattere con te» lo provocò
Krugar, aveva appoggiato la spada
sulla spalla e osserva l’altro piegato in due dal dolore,
ansimante e sudato.
«Senza quella tua
ferraglia sputa-fuoco, sei impreparato, lento, incapace e
debole!» l’orco si
era stancato di giocare con l’elfo, l’aveva
spossato abbastanza perché avesse i
riflessi ancora più ritardati e i movimenti ancora
più impacciati e imprecisi.
Fino a quel momento, si era solo scaldato e aveva sondato le
capacità
dell’altro, trovandole imbarazzanti: nemmeno il cuoco di
bordo armato di mestolo tirava di
scherma così penosamente.
«Facciamola finita,
tanto sappiamo entrambi quale sarà
l’esito!» ringhiò alla fine, sollevando
in
alto Fernecar.
Quella volta Arandil
non avrebbe fallito: era stato umiliato e coperto di vergogna troppe
volte, per
troppo tempo aveva fatto la figura dell’inetto e
dell’incapace ed era stato
oggetto delle derisioni e dei rimproveri dei suoi compagni e dei suoi
superiori; era stanco di essere guardato solo con disapprovazione e
pietà, come
se non meritasse altro. Aveva anche lui un amor proprio e una
dignità da
difendere!
Con uno scatto,
estrasse subitaneo un pugnale d’osso dallo stivale, la
caviglia ululava di
disperazione e il suo grido di protesta si propagò per tutta
la gamba, ma
Arandil lo ignorò. Nel momento in cui Krugar
caricò il fendente, sgusciò sotto
di lui e affondò il pugnale nel suo costato.
Il pirata si
ritrasse, sconvolto, e fissò incredulo la lama che spuntava
dal suo torace.
Arandil approfittò di quel momento di esitazione per menare
un tondo che aprì
uno squarciò nella gola dell’avversario. Tutti i
suoi muscoli urlarono, una fitta
di sofferenza indicibile si irradiò dal petto e lo avvolse
completamente,
lasciandolo senza fiato. Le spade di entrambi caddero in un clangore
agghiacciante.
L’orco si afferrò la
gola e si portò una mano davanti al volto, incredulo: non
riusciva a capire
come quell’elfo menomato fosse riuscito a sconfiggerlo. Con
un gemito strozzato
e pietoso, Krugar si accasciò, il volto rimasto
cristallizzato in
un’espressione di sincero stupore. Denso sangue cremisi
gocciolava dalla
ferita, allargandosi in un lago ai sui piedi, in cui ricadde, immobile.
Arandil rimase a
fissarlo, non riuscendo a credere nemmeno di lui di essere stato in
grado di
commettere quell’omicidio. Non si sentiva soddisfatto,
sebbene, alla fine,
fosse riuscito a portare a termine il suo incarico: Krugar era stato
eliminato.
Era stremato e anche
lui era prostrato sulla roccia, il petto che si alzava e si abbassa
freneticamente, i muscoli scossi da fremiti incontrollati, spossati
dalla
fatica, e il respiro rotto, raschiante.
Un leggero tonfo
alle sue spalle gli fece sollevare lo sguardo inebetito: Adam si era
lasciato
scivolare dalla corda, atterrando lieve ed elegante.
«Stai lontano da
me!» gli intimò, ma la minaccia risultò
piuttosto patetica dal momento che era
piegato in due dalla fatica e dal dolore.
«Non voglio farti
del male» rispose Adam, allargando le braccia per dimostrare
che non portava
con sé alcuna arma.
«Sei un traditore!»
gridò Arandil, rialzandosi con un enorme sforzo e
puntandogli la spada di
Krugar contro il petto. Le gambe tremavano e non sapeva quanto ancora
sarebbero
riuscite a reggerlo.
L’accusa aleggiò
nell’aria, pesante nella sua gravità.
«Non è come credi»
si difese Adam, «Ho solo finto di voler condividere con lui
quelle
informazioni. Avevo bisogno di conquistare la sua fiducia, per
distruggerlo
dall’interno.»
Adam appariva
convincente ma il suo piano sembrava fin troppo complicato ed
elaborato, e
l’elfo non riusciva ancora a credergli pienamente.
«Quale guadagno
avrei ottenuto nel dirglielo?» gli domandò Adam.
«Un alleato, con cui
sovvertire il sistema e rovesciare l’Impero»
sputò Arandil.
«Mi credi davvero
capace di un’azione simile?» lo guardò
scettico l’altro.
L’elfo non sapeva
più a cosa credere, non riusciva più a
distinguere il vero dal falso: fino a
qualche giorno prima aveva sentito con le sue stesse orecchie il piano
di
conquista e dominio del Dragoron, e quello stesso glielo stava
smentendo
tassello per tassello, sostenendo che fosse solo una copertura.
«Non so più chi tu
sia davvero» mormorò, «Non riesco
più a fidarmi delle tue parole. Sembravi così
convincente quando parlavi con Krugar e mi hai attaccato.»
«Non ti sei accorto
che ti ho salvato la vita più volte? E che sbagliavo
volontariamente le
stoccate?»
Arandil spalancò gli
occhi: si spiegava lo strano atteggiamento che aveva tenuto quella
volta, la
sua esitazione e l’improvviso deterioramento delle sue
tecniche di scherma.
«Tu mi stavi
aiutando?» domandò.
«Stavo provando a
tenere il piede in due scarpe, in realtà»
sospirò l’altro togliendosi il
cappello e passandosi una mano tra i capelli corvini, appena spruzzati
d’argento, «Non volevo far saltare la mia copertura
con l’orco, ma nemmeno
farti del male…Sono pur sempre un Dragoron!»
L’elfo si stava pian
piano convincendo, aveva abbassato l’arma, sebbene lo
continuasse a fissare con
sguardo circospetto.
Adam tirò un
impercettibile sospiro di sollievo, Arandil sembrava aver abbassato la
guardia
nonostante il suo sguardo inquisitore non lo abbandonasse per un solo
istante.
«Non ho mai voluto
tradirvi, non ho mai pensato di farlo. I Dragoron sono
l’unica famiglia che ho,
l’unico luogo in cui non vengo giudicato per la mia origine e
la mia
provenienza; dove non vengo etichettato come
“bastardo” e vengo guardato con
disprezzo, ma dove sono valutato in base alle mie sole
capacità, alle mie
forze. Come potrei ingannare chi mi ha permesso di fare pace con me
stesso?»
Detestava
profondersi in questo genere di smielati sentimentalismi, ma se fosse
servito a
bruciare qualsiasi dubbio ulteriore dell’elfo, allora era
disposto a fare la
figura della checca sentimentale.
Arandil era esausto,
non sarebbe riuscito ad affrontare Adam in condizioni ottimali,
figurarsi in
quello stato. Credergli risultava più semplice e
conveniente: non aveva né la
forza né la voglia per contrastarlo.
Lasciò cadere l’arma
di Krugar, completamente svuotato e accettò le parole
dell’altro. Quel duello e
la sua conclusione avevano fagocitato ogni scintilla di energia, non
sentiva
più nemmeno il dolore ma solo un eco sordo e lontano,
prevaricato dall’immensa
stanchezza che attecchiva alle sue membra provate. Abbassò
definitivamente la
guardia e Adam ne approfittò.
«Mi dispiace»
mormorò e con un calcio alla tempia, spedì
Arandil nel mondo delle tenebre.