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Autore: Adeia Di Elferas    16/08/2017    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Mi pare anche che vi stiate rimettendo...” disse piano Caterina, dopo aver spiegato abbastanza frettolosamente che gli impegni di Stato la reclamavano.

Giovanni fece una breve smorfia di assenso. Era seduto sul letto, la schiena appoggiata alla testiera imbottita e, in effetti, ormai lo si poteva considerare del tutto rimesso.

Il pensiero, però, di dover passare la giornata lontano dalla Tigre pareva averlo fatto di nuovo precipitare nel penoso stato in cui era rimasto confinato fino a poche ore prima.

“Sì, mi sento molto meglio.” disse a voce bassa il Medici, senza tradire troppo il suo dispiacere con l'intonazione della voce.

Alla Contessa, però, non sfuggì quel repentino cambiamento d'umore e per qualche istante fu tentata di lasciar perdere la riunione del Consiglio e restare ancora un po' assieme all'ambasciatore di Firenze.

Avevano in programma di leggere assieme ancora qualche pezzo dell'Inferno di Alighieri. Giovanni aveva assicurato di conoscere alcuni dei direttissimi discendenti di certi personaggi messi dal poeta a rosolare in eterno tra le fiamme e si era riproposto di commentare ad hoc tutti i versi più significativi.

Caterina avrebbe davvero voluto indulgere in quel passatempo, che, spogliato dall'interesse letterario più verace, restava solo un piccolo angolo di pettegolezzo. E un modo come un altro per restare in compagnia del fiorentino.

Tuttavia, malgrado la sua mente stesse andando con nostalgia alle ore da poco trascorse assieme al Medici, passate a leggere, scherzare e dimenticarsi del resto del mondo, la Contessa assunse un'espressione dura e ribadì: “Purtroppo questo Stato è in mano mia e non posso lasciare che siano gli altri a pensarvi.”

Non doveva lasciare per nessun motivo che Giovanni la distraesse troppo dalla ragion di Stato. Era un errore grossolano che aveva già commesso con Giacomo. Non poteva caderci una seconda volta.

“Lo capisco.” annuì piano l'ambasciatore, lisciando appena il risvolto della coperta che si era tirato fino al petto: “Lo capisco perfettamente.”

“Certo che lo capite.” soffiò la Tigre, che in quel momento avrebbe quasi sperato in una richiesta tanto accorata di restare, da parte di Giovanni, da non poterla rifiutare.

Senza aggiungere altro, Caterina fece un cenno del capo al toscano e lasciò la stanza.

Andò un momento nella sua camera, che stava proprio accanto. Si cambiò rapidamente d'abito e poi si diede una veloce controllata allo specchio.

Voleva apparire in ordine, davanti al Consiglio. La sua assenza era di certo stata notata e se qualcuno avesse saputo o si fosse accorto in qualche modo anche della concomitante latitanza del Medici, in breve molti avrebbero cominciato a pensare che la Contessa e l'ambasciatore avessero passato tutto quel tempo assieme.

Era in effetti quello che davvero avevano fatto, ovviamente, ma si era trattato di una compagnia reciproca molto diversa da quella a cui tutti avrebbero pensato nel sapere coinvolti la Tigre e un uomo.

Mentre si guardava riflessa sulla superficie un po' irregolare che le rimandava la sua immagine, Caterina ebbe un breve momento di smarrimento.

Le striature bianche, tra i capelli biondi, ormai non si nascondevano più tanto. La sua pelle iniziava a risentire della mancanza delle consuete attenzioni che le aveva riservato prima della morte di Giacomo. Le sue labbra erano tirate in un'espressione neutrale che tradiva una certa infelicità. E i suoi occhi erano stanchi.

Più di qualsiasi altro dettaglio del suo viso, fu quello ad attirare la sua attenzione.

Negli ultimi mesi poteva dire di non essersi mai soffermata a indagare il proprio riflesso allo specchio e dunque scoprirsi così, all'improvviso, l'aveva lasciata senza parole.

Con il suo consueto senso pratico, che saltava fuori anche in quell'ambito, la Tigre riconobbe con se stessa di avere ancora una aspetto superiore alla media, ma anche che, se voleva ricominciare a sfruttare la propria bellezza perfino in campo diplomatico, sarebbe stato meglio ritornare a starvi più attenta.

Ripromettendosi di ricominciare a insistere con le sue creme, rimedi e trattamenti, Caterina raddrizzò le spalle e lasciò la camera, diretta alla sala del Consiglio dell'ormai mezzo demolito palazzo Riario.

 

Le foglie secche e coperte da un sottilissimo strato di ghiaccio scricchiolavano sotto i piedi di Francesco Dal Verme.

Il giovane, il cappello imbottito in testa e un pesante mantello bordato di pelo sulle spalle, aveva rifuggito la compagnia degli usurpatori e si era messo a girovagare per le strade più solitarie di Bobbio.

Aveva un appuntamento a breve, e sapeva che avrebbe dovuto essere in orario, perché l'uomo con cui doveva incontrarsi non era uno di quelli disposti ad aspettare i comodi di chicchessia.

Di norma era sua sorella Francesca a occuparsi di quelle cose, ma, con quel freddo, Francesco aveva sentito il dovere di offrirsi al suo posto. Anche se tra i due era sempre stata lei, quella capace di prendere decisioni, quella che li avrebbe riportati in possesso dei beni del loro defunto padre, quella abbastanza forte da far sì che nessuno li avesse ancora tolti di mezzo, ogni tanto anche a Francesco piaceva rendersi utile.

Senza contare che l'aria a palazzo si stava facendo troppo tesa, per i suoi gusti.

Galeazzo Sanseverino, benchè fosse un uomo d'armi, si stava dimostrando molto più malleabile della sua giovane e impertinente moglie. Anzi, con qualche parola messa al momento giusto in mezzo a un discorso e qualche mezza promessa detta quasi per caso, molto probabilmente avrebbero potuto tirarlo dalla loro parte in modo rapido e indolore.

Bianca Giovanna Sforza, invece, malgrado i modi apparentemente cordiali e disponibili, appariva ogni giorno più chiaramente identica a suo padre.

Anche se Francesco non aveva mai conosciuto davvero il Moro, aveva finito per immaginarselo come la versione maschile di quella insopportabile quattordicenne pingue e ficcanaso.

All'inizio non era stato, però, d'accordo con Francesca, che avrebbe voluto passare subito alle vie di fatto. Le aveva chiesto di aspettare e così lei aveva fatto. Tuttavia, poi, il tempo era passato e quando avevano avuto la certezza che l'intrigante Sforza stesse redigendo un resoconto dettagliato dei loro traffici da spedire al Duca suo padre, non c'era stato altro da fare che mettersi nell'ordine d'idee di agire.

I rintocchi un po' afoni della chiesa poco lontana dissero a Francesco che era tempo di raggiungere la viuzza in cui si sarebbe incontrato con quell'uomo, verso cui nutriva uno spiccato timore.

Dando un colpetto al bavero della giubbetta grigia, in modo da farsi forza, e tirandosi bene il cappuccio fin sulla fronte, il Dal Verme si mise a camminare svelto, le lunghe gambe fasciate in spesse brache di cuoio bollito, e pregò Dio che tutto filasse liscio.

 

Con il passo marziale di chi si prepara a una vera e propria battaglia, Caterina aveva raggiunto il ponte levatoio e si apprestava a passare accanto alla statua che ritraeva Giacomo.

Per lei, trovarsi quotidianamente davanti quell'opera in bronzo era ormai solo una tortura. Tutte le volte che la vedeva o le passava accanto, era tentata di soffermarsi di più sui lineamenti del suo secondo marito.

Anche se coloro che vi avevano lavorato non erano del tutto riusciti a cogliere la bellezza di Giacomo, per la Contessa era già abbastanza trovarvi una vaga somiglianza.

Era come una pugnalata in mezzo alle coste, qualcosa che le toglieva il fiato e la ripiombava nel baratro dal quale, con immensa difficoltà e non pochi scivoloni, stava lentamente risalendo.

Se non avesse avuto paura di indispettire la Corporazione che gliene aveva fatto dono, la Tigre avrebbe ordinato quel giorno stesso di demolire la statua e rifonderne il bronzo, riutilizzandolo per costruire cose più utili, come armi o armature.

In fondo, Giacomo non aveva alcun bisogno di un monumento simile che ricordasse a tutti quello che ne era stato di lui.

Vedere il suo corpo ritratto a quel modo, fiero e svettante, era solo un modo come un altro per riportare alla mente di tutti la fine che aveva fatto: ridotto a brandelli, un piccolo agglomerato di carne, sangue e ossa.

Giacomo sarebbe stato giovane e bello per sempre. Era morto a ventiquattro anni, nel fiore della vita, e non sarebbe mai invecchiato. Non c'era necessità di ricordare a tutti che il suo meraviglioso corpo era stato fatto a pezzi.

Mentre si sforzava di non alzare gli occhi verso la statua, per non ricadere nel solito circolo vizioso che la sua mente le riproponeva senza fallo, Caterina non si accorse di aver incrociato Tommaso Feo.

Fu lui a fare qualche passo indietro e riproporsi: “Mia signora – cominciò, con tono un po' spento, mentre i suoi occhi scuri correvano al volto bronzeo del fratello – vi avevo domandato un colloquio, se ricordate...”

La Tigre si accigliò. Era vero. Il giorno del matrimonio di Ridolfi, Tommaso le aveva strappato la promessa di qualche momento da soli per parlare di cose importanti. Se n'era completamente dimenticata.

“Sto andando al Consiglio...” disse, evasiva: “Si tratta di una cosa importante?”

“Direi di sì.” confermò il Governatore di Imola.

Caterina lo guardò per un paio di momenti. La stessa disillusa stanchezza che aveva visto nei suoi occhi riflessi allo specchio, la poteva scorgere anche in quelli del cognato.

Il desiderio di trovare in lui un appoggio riaffiorò in lei con forza, ma la Leonessa si rese conto subito che quella sensazione era solo ingannevole e legata al momento di debolezza che stava vivendo.

Con Tommaso era già stata sufficientemente egoista, continuando a chiedere e pretendere da lui senza mai dar nulla in cambio. Non voleva continuare a farlo.

“Ed è una cosa urgente?” chiese, mentre l'uomo si sistemava il bordo spesso del mantello attorno al collo, forse infastidito dall'aria pungente che cominciava a spirare dalle montagne.

Anche se non faceva ancora troppo freddo, era probabile che presto sarebbero cominciate le nebbie, e poi le piogge e, senza dubbio, anche le nevicate.

“Urgente non tanto, ma gradirei parlarvi il prima possibile.” spiegò Tommaso, a voce bassa.

“Prima che torniate a Imola, di certo troveremo il momento.” sentenziò la Contessa, senza impegnarsi con orari e date precise.

Il cognato fece un secco cenno con il capo e rinunciò a ottenere di più. Lasciò libera la donna di dedicarsi alle sue attività e decise che lui, per quel giorno, non avrebbe fatto nulla, se non starsene nella camera che gli avevano riservato alla rocca a leggere e a perdere tempo.

 

Il castello di Bracciano era immerso in un silenzio spettrale. Bartolomea e Bartolomeo erano da soli, nella sala in cui di solito si riunivano assieme ai comandanti per decidere le campagne militari.

Sulla scrivania, accanto alle mappe ancora spiegate e ricoperte di segnalini che indicavano la posizione dei nemici che stavano avanzando via via verso di loro, avevano sistemato un paio di piatti con formaggi e carne e una grossa brocca di vino.

Presi com'erano dalla riorganizzazione delle reclute, marito e moglie avevano cominciato a mangiare negli orari più disparati.

Così come non avevano più orari fissi per andare a riposare, non era inconsueto che facessero colazione a metà mattina, buttando giù abbastanza cibo da poter saltare il pranzo.

Bartolomea non aveva quasi aperto bocca, né per parlare, né per mangiare, da quando si erano messi a tavola. I suoi occhi scuri correvano di quando in quando alla finestra che dava sul cielo terso e gelido che si stendeva sul loro castello.

Parimenti, Bartolomeo, già di per sé poco loquace, aveva appena trovato le parole per invogliarla a assaggiare un po' di carne salata.

“Per tenerti in forze in vista dei giorni che ci attendono.” aveva precisato, porgendole con delicatezza il piatto.

La donna, apprezzando molto quel gesto di tenerezza che, come tutti gli slanci grandi e piccoli di Bartolomeo, aveva conferito all'uomo grande e grosso che aveva davanti una gentilezza degna di un principe, aveva fatto del suo meglio e aveva inghiottito quasi interi i primi pezzetti che le erano capitati sotto la punta del coltello, e poi era passata al vino.

Senza che nessuno dei due sapesse chi avesse preso l'iniziativa, avevano stretto l'uno la mano dell'altra, appoggiandole poi sulla superficie un po' rovinata della scrivania.

Erano ancora in quella posa statica, quando entrò uno dei loro soldati più fidati, camminando con la fretta di chi ha una notizia di vitale importanza.

Bartolomea, istintivamente, tentò di ritirare la mano, per non mostrarsi in quell'atteggiamento dall'armigero, ma il marito gliela riafferrò, guardandola dritta negli occhi, appena prima che potesse nasconderla sotto al tavolo.

Deglutendo a fatica, la donna accettò quella presa forte e sicura e la ricambiò.

'Al diavolo la mia rigidità – pensò l'Orsini, con un mezzo sospiro – devo approfittarne, finché posso.'

“Cos'è successo?” chiese la signora di Bracciano, rivolgendo il suo sguardo corvino al soldato.

L'uomo, che in effetti era così poco avvezzo a vedere dimostrazioni di affetto tra i suoi signori da restare un momento interdetto, si riscosse e annunciò: “Hanno avvistato Juan Borja e il suo esercito.”

“Dove?” chiese Bartolomea, a voce bassa.

“A un paio di giorni da qui. Sono fermi, ma pare che abbiano tutta l'intenzione di muoversi al più presto.” spiegò l'armigero.

La donna lo ringraziò con un cenno del capo e gli fece capire che doveva andarsene.

Una volta sola con il marito, l'Orsini abbassò le spalle e si guardò attorno sconfortata.

Lasciando la mano del suo uomo, si alzò e andò alla finestra, l'indice sulle labbra, pensierosa. Era il momento di dirglielo. Doveva spiegare a suo marito cosa aveva in mente per lui.

Non era più tempo di tergiversare. Se Juan Borja avesse attaccato presto, forse lei sarebbe morta durante l'assedio e a quel punto chi avrebbe spiegato a Bartolomeo che fare? Nessuno era al corrente del suo piano...

“Ce la caveremo anche stavolta.” la incoraggiò Bartolomeo, arrivandole alle spalle e abbracciandola.

Il calore del suo uomo le arrivò piacevole e confortante. E la convinse ad aspettare ancora. Quando il Borja fosse arrivato alle porte del loro castello, ecco, solo allora gli avrebbe confessato di aver scritto ai Baglioni e a quel punto gli avrebbe detto tutto e lo avrebbe convinto a fare quello che voleva lei.

Doveva salvarlo, era suo preciso compito, come moglie.

Avevano diciotto anni di differenza. Bartolomeo si era già sacrificato anche troppo, per starle accanto.

“Andiamo a controllare i cannoni – fece la donna, schiarendosi la voce – voglio che tutto sia a posto, per quando il figlio del papa arriverà a reclamare la mia testa.”

“La nostra testa.” fece eco Bartolomeo, senza sapere che quelle parole gettavano solo altro ghiaccio sopra al gelo che aveva incarcerato il cuore di sua moglie.

 

Giovanni Medici ci mise un po' a riprendersi dalla delusione dell'improvviso distacco della Tigre, ma alla fine riuscì ad alzarsi dal letto, indossò abiti puliti e sufficientemente in ordine, si pettinò i capelli – i cui riccioli si erano fatti un po' crespi a causa del lungo allettamento – e poi decise di andare nella sala dei banchetti per vedere se ci fosse qualcosa da mangiare.

Era ancora abbastanza presto, quindi era possibile che pure altri stessero raggiungendo il desco per mettere qualcosa sotto i denti per colazione. Il Popolano, però, avrebbe preferito non trovare nessuno.

Anche se fisicamente stava molto meglio, il suo umore era peggiorato all'improvviso e tutto d'un colpo era tornato anche il senso di nostalgia per la propria casa, per Firenze e per la propria famiglia che aveva cercato fino a quel momento di chiudere in un angolo di sé.

Quando arrivò a destinazione, notò con un sospiro di sollievo che a parte lui, nella stanza c'erano solo il Capitano Mongardini con un soldato al fianco. I due stavano mangiando in silenzio pane e formaggio e quasi non alzarono nemmeno gli occhi su di lui, quando si sistemò a qualche sedia di distanza da loro.

Mentre si versava un po' di acqua e afferrava un pezzo di pane nero, Giovanni diede uno sguardo al Capitano e al suo accompagnatore.

Trovava Mongardini un uomo quanto meno inquietante. Coi suoi piccoli denti tutti uguali e il suo sguardo freddo, sembrava uno capace di ammazzare perfino un neonato.

Con un brivido di gelo lungo la schiena al pensiero che, forse, nei giorni d'inferno che erano seguiti alla morte di Giacomo Feo, uomini come Mongardini avessero davvero fatto cose orribili come uccidere dei neonati, il fiorentino lanciò un occhio anche sull'altro uomo.

Era molto giovane, di bell'aspetto, slanciato e dalle braccia muscolose. Come se la sua mente quella mattina non fosse in grado di rimandargli immagini se non negative e nauseanti, il Medici pensò che quello poteva essere il tipo di uomo che la Contessa riceveva nelle sue stanze nel corso delle sue notti solitarie e tormentate.

Anzi, poteva benissimo essere che proprio quel ragazzo che stava a meno di due metri da lui fosse davvero stato nella stanza della Tigre a...

Giovanni scosse con forza il capo, ma né Mongardini né l'altro parvero notare il suo gesto. Anzi, con riluttanza, stavano finendo di mangiare e si stavano alzando, per tornare alle loro occupazioni.

“Ambasciatore...” sussurrò il Capitano, passandogli alle spalle, e trattenendo uno sbadiglio.

Il fiorentino ricambiò con un cenno del capo per Mongardini, ma evitò come la peste di incrociare anche solo lo sguardo dell'altro.

“E vostro cugino?” chiese il Capitano, come colto da un pensiero improvviso, appena prima di essere troppo lontano per rivolgersi a Giovanni: “Sembra, fin che dalla sera del suo matrimonio, sia ancora in stanza con la sua sposa... Dobbiamo preoccuparci?” domandò, con un sorrisetto che voleva solo essere ironico.

Il Popolano finse di essere perfettamente al corrente di tutto quello che era successo negli ultimi giorni, quando, invece, si era solo goduto il totale isolamento assieme a Caterina. Il tempo era scorso lento, tra letture e commenti a riguardo di questa novella o quella poesia, e tutto ciò che era accaduto fuori da quella stanza in quelle ore non aveva avuto alcuna importanza, per l'ambasciatore.

“Va tutto bene, direi.” rispose: “Anzi, credo che in molti lo stiano invidiando.”

Mongardini annuì e gli diede ragione, poi mollò una pacca eccessivamente forte sulla spalla del soldato che lo affiancava e lasciò la sala.

Giovanni, rimasto solo, mangiò qualcosa con grande lentezza. Scelse i cibi che gli parevano più innocui e così finì per riempirsi praticamente solo di pane.

Non sempre quell'attenzione gli fruttava davvero dei lunghi periodi di benessere, ma era certo che, quando si lasciava andare troppo, il suo male si ripresentava senza fare sconti. Dunque meglio non cacciarsi da soli nei guai.

Quando fu sul punto di alzarsi da tavola, il Popolano scorse sulla porta la figura robusta e ingombrante di suo cugino.

Pazientemente, attese che Simone si stropicciasse gli occhi, sbadigliasse un paio di volte e si stiracchiasse, come se fosse stato per conto suo nelle sue stanze e non nel mezzo di un salone in cui sarebbe potuto arrivare chiunque in qualsiasi momento.

“Cugino!” esclamò, andando incontro a Giovanni e sedendoglisi accanto.

Questi notò come Simone indossasse gli stessi abiti del giorno del suo matrimonio. Forse si era vestito in fretta e aveva messo addosso la prima cosa che gli era capitata tra le mani.

Anche se erano tutti sgualciti, si vedeva subito che quegli abiti erano di foggia finissima, eleganti e composti da tessuti di prima scelta. Dunque i sarti abili e il buongusto non mancavano alla corte di Forlì. Eppure la Leonessa pareva così disinteressata a quel genere di cose...

Giovanni non si riteneva un uomo vanitoso, tanto che spesso indossava i medesimi abiti, a rotazione, per molto tempo, finché si rovinavano, senza mai seguire troppo le nuove mode o lasciarsi prendere la mano coi colori accesi.

Tuttavia era sempre vestito abbastanza bene e trovava utile mantenere una certa eleganza, soprattutto quando si aveva a che fare con stranieri, amici o nemici che fossero.

La Tigre, invece, sembrava non dare quasi alcun peso a quel genere di apparenze. A conti fatti, però, il Popolano doveva ammettere almeno con sé stesso che quel dettaglio del comportamento della Contessa era stata una delle cose che più d'ogni altra l'aveva incuriosito.

“Sto morendo di fame...” sussurrò Ridolfi, prendo a piene mani dai vassoi di cibo che giacevano sulla tavola.

“Mi hanno detto che sei rimasto chiuso nella tua stanza assieme alla tua signora fin dalla sera del vostro matrimonio.” disse Giovanni, tanto per non stare zitto e per avere conferma delle chiacchiere del Capitano Mongardini.

“Non s'aveva voglia di smettere. Nessuno di noi due.” ribatté con semplicità Simone, alzando le spalle, cacciandosi in bocca un pezzo molto grosso di formaggio stagionato e facendovi subito seguire una lunga sorsata di vino nero.

“Dunque lei ti soddisfa?” chiese Giovanni, abbandonandosi, ancora un po' indebolito, contro lo schienale di cuoio della sedia.

“Direi proprio di sì.” confermò Ridolfi, addentando un pezzo di pane e masticando con la bocca un po' aperta.

Le sue guance erano coperte dalla barba non fatta di quasi tre giorni e nei suoi capelli, che erano stati risistemati alla bell'e meglio appena prima del matrimonio, si poteva vedere ben più di un nodo.

“E quindi adesso hai chiuso coi bordelli, immagino...” soppesò il Medici, guardando come ipnotizzato la mandibola di Simone che andava su e giù mentre masticava tutto quello che gli capitava sotto tiro.

“E perché?” chiese l'altro, strabuzzando un po' gli occhi.

“Come perché?!” esclamò il Popolano, appoggiando i gomiti al tavolo e protendendosi un po' verso il cugino: “Hai detto che tua moglie ti piace, no? E dunque, hai davvero intenzione di continuare lo stesso a giacere con altre donne?”

“Oh, ma certo che ho intenzione di addomesticarmi ancora con altre donne!” controbatté Simone, smettendo per un momento di mangiare, e alzando la voce, incredulo: “Quando il prete ti sposa, mica ti spegne, sai?”

Giovanni stava già scuotendo il capo, quando Ridolfi iniziò a spezzettare un altro pezzo di pane e, accompagnandolo con del formaggio, ricominciò a masticare e parlare: “E, dopotutto, nelle poche chiacchiere che ho potuto scambiare con la mia signora nei momenti di pausa – disse, con un'espressione abbastanza indecifrabile – anche lei è una a cui piace darsi da fare. E io, caro il mio Giovannino, non ho alcuna intenzione di imporle di smetterla. Perché dovrei? Con la pratica, si diventa perfetti.”

A quel punto il Medici restò zitto per qualche istante, ragionando a fondo sulle parole del cugino e sull'intonazione che vi aveva dato: “E se lei restasse incinta?” gli chiese, pensando a quali potessero essere le peggiori conseguenze di quella sconsiderata e indecorosa condotta che entrambi gli sposi sembravano desiderosi di mantenere.

“Dubito che le sia facile, ormai... Da quello che mi ha detto, è possibile che non sia più fertile. In ogni caso, anche se il figlio non fosse mio, non lo si potrebbe mai sapere con certezza. E non mi interesserebbe nemmeno, se esistesse un modo per saperlo. Chissà quanti figli miei stanno crescendo gravando sulle tasche ignare di altri uomini che li hanno creduti propri... Io, per uno, non andrei di certo in miseria.”

“Hai un modo di ragionare che mi fa venire il mal di testa.” obiettò Giovanni, portandosi una mano al capo che, in effetti, cominciava a dolergli un po', ma forse solo per via della convalescenza.

“Senti – fece Ridolfi, accantonando il cibo e dandoci dentro col vino – piuttosto, tu? Venendo qui ho incrociato quel noioso di Cardella, che stava andando al Consiglio, assieme al Feo e se ho origliato bene le chiacchiere preoccupatissime tra cancelliere e castellano, sembra che, come io ho passato tutti questi giorni in compagnia di mia moglie, tu li abbia passati con la Leonessa di Romagna. Sei finalmente riuscito a...?”

“In questi giorni sono stato male.” tagliò corto Giovanni, alzandosi in piedi: “Ora scusa, ma mi sono ricordato di una cosa importante che devo fare...” e, lasciando interdetto il cugino per il modo frettoloso in cui si era congedato da lui, il Medici raggiunse la porta a passo svelto, benché un po' claudicante.

 
   
 
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