The Poet And The Pendulum
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1. The Songwriter’s
Dead
Battlefield
Il silenzio deflagrò in mezzo a
loro e l’impatto spazzò via le ossa dei morti, i resti dei caduti.
La stanchezza si sollevò come
l’onda durante la marea, scavalcò la testa e le spalle, si infranse contro le
ginocchia e li fece tremare, rese insicuri i loro piedi e trascinò il cuore ben
oltre le fondamenta dello stomaco.
Il campo di battaglia brillava
allo scintillare immobile delle stelle; i loro volti vacui, filamentosi li
fissavano curiosi; le mandibole dei Chitauri schioccavano e sbatacchiavano,
seminascosti dalla spuma iridescente dei portali ancora aperti. Le creature
allungavano gli artigli, attendevano ringhiando nel ventre delle Navi Madri,
tuttavia osavano oltrepassare il sottile confine tra loro e le stelle.
Il loro Padrone era morto.
Il Padrone dei Chitauri era
morto.
Il Lord dell’Infinito era morto.
Il suo corpo mastodontico aveva
sollevato una nube tale da nascondere i contorni del mondo a chi era
sopravvissuto per vedere la tanto agognata e sofferta caduta di Thanos.
Un evento di tale portata
meritava di essere accolto con grida di gioia, sorrisi di sollievo, dalla consapevolezza
di aver appena scongiurato la più grande minaccia all’intero Multiverso: quel
cadavere, quel trofeo di stazza inaudita simboleggiava la fine del terrore.
L’intero Multiverso, ora al
sicuro, poteva dirsi finalmente salvo dagli occhi crudeli di Thanos, dal suo
sguardo in grado di sondare l’Anima degli avversari, e dalle sue mani capaci di
imbrigliare in un sol gesto la Mente, il Tempo e la Realtà, di incatenare tra
le dita il Potere e ridisegnare i confini dello Spazio.
Il Multiverso poteva finalmente
gioire e danzare sotto la volta del cielo e la presenza vigile degli Eterni
fino all’albeggiare e poi oltre, fino all’imbrunire.
Perché Thanos era morto, Thanos,
il Padrone dei Chitauri, il Lord dell’Infinito aveva cessato di spadroneggiare
e uccidere.
Il Multiverso poteva finalmente
festeggiare una vittoria come mai prima di allora.
Ogni vittoria, tuttavia, reclama
per sé un tributo.
Sempre.
Il prezzo grande o piccolo sia, non può
aspettare di essere pagato, il debito deve essere saldato immediatamente: non
si può rimandare, non si può attendere il momento più opportuno, non si può
nemmeno tentare di essere pronti.
Il prezzo della vittoria è una
spada di Damocle pronta a cadere all’ultima goccia di sangue versato.
E la spada era caduta.
Era stato un attimo. Un battito
di ciglia.
Il respiro spezzato e il cuore
che gelava e il sangue come piombo nelle vene e la cassa toracica ripiegata su
se stessa a stritolare i polmoni e lo sterno spaccato e le costole in frantumi
e i muscoli che si gonfiavano e poi si rinsecchivano e le membra che s’appesantivano
gravando sulle ossa e tagliando i legamenti e fracassando le articolazioni e la
testa che cascava all’indietro sul collo molle e gli occhi a seguire il movimento del capo all’interno delle orbite
rovesciandosi bianchi a guardare immoti le profondità del cranio e la bocca che
perdeva colore e s’apriva, si spalancava a vomitare fiato voce e sangue.
E il corpo che, infine, cadeva.
Crollato e collassato sulla terra
dura, coperto di polvere, il boato del contraccolpo come un ruggito nella
notte, onde di dolore propagatesi a scuotere i nervi e la coscienza.
Il loro sguardo, spalancato e
incredulo, le ginocchia che si abbandonavano a terra e si genuflettevano
dinanzi ad uno spettacolo terribile e definitivo.
Nel mezzo dello sgomento, Quill
si era alzato e Drax con lui e Gamora, chiuse le palpebre raccapriccianti di
Rocket, li aveva accompagnati a sollevare le membra divelte; lo tennero sulle
spalle, il capo piegato, gli occhi semichiusi e l’iride affaticata seminascosta
tra le ciglia. I loro passi spossati si
trascinavano a stento sul terreno brullo, incespicando nella polvere ed ogni
passo accumulava pena e lutto sulla schiena, piegandola, curvandola, fino a
quando, troppo stremati per continuare, non si lasciarono andare e caddero,
prima Gamora, quindi Star-Lord e infine Drax, colpito più dallo sguardo dell’uomo
di fronte a lui che dalla battaglia appena conclusa.
Drax il Distruttore conosceva
quello sguardo.
Conosceva il rimpianto delle cose
non dette, delle cose fatte, delle cose che sarebbero potute essere e non
sarebbero state mai: le aveva provate sulla pelle e nella carne e la sua mente
sconvolta aveva gridato per ore e ore e ore, per albe e tramonti rossi come il
sangue. Gridava e giurava vendetta e nel mentre il suo cuore rattrappiva nel
torace e piangeva ricordi e memorie e speranze e più le piangeva più le perdeva
e lo abbandonavano e andavano a nutrire, sconvolte, il suo rancore bollente
come acido.
Per questo non disse nulla,
quando l’uomo strisciò verso di loro, una lingua lucente e vermiglia a segnare
il percorso del suo dolore. Non disse nulla, perché conosceva la sofferenza che
riempiva l’addome, un vuoto dalle fauci spalancate e pronte a divorare e
sbranare.
Pronte a distruggere.
E nel mentre che l’uomo si
aggrappava a quel corpo tanto caro, gli eroi vennero vicini e si fecero loro
intorno, li nascosero agli occhi dell’Universo e della realtà, bandirono il
tempo dal frammento Non-Spazio che avevano così ritagliato e rimasero in
silenzio.
Ammutoliti dalla Morte e dalle
ferite che Thanos aveva loro inferto e forse non sarebbero mai guarite del
tutto.