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Autore: EffyLou    27/01/2018    1 recensioni
Johann Trollmann è un pugile, beniamino del popolo tedesco negli ultimi anni della Repubblica di Weimar.
Indisciplinato, imprevedibile, borioso. Non sono i suoi difetti più grandi. Johann Rukeli Trollmann appartiene ad un popolo scomodo: è uno zingaro. Conquista le platee di Germania e fa innamorare le donne tedesche.
Nella sofferenza che porterà il Nazismo, il suo unico punto fermo e pilastro incrollabile è Frieda. Johann tocca l'apice e il fondo, assaggia il successo e la disperazione, conosce la serenità e la guerra. La derisione nazista si scontra con l'orgoglio di uno zingaro, che proprio non vuole saperne di abbassare la testa a quelle umiliazioni.
C'è solo un modo per far tacere quell'anima in rivolta: ridurlo ad un numero e darlo in pasto al Porajmos, l'Olocausto del popolo zingaro.
- - - - - -
I veri combattenti non temevano la loro ultima battaglia, e se c'era una cosa che Rukeli aveva sempre fatto, era dimostrare di non temere neppure il Diavolo. Neppure il Nazismo.
Genere: Drammatico, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Novecento/Dittature, Olocausto
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27. Ich würde es nicht mögen
 
 
Johann era tornato a casa per pranzo, giustificandosi che il lavoro era durato più del previsto.
Poi era uscito di nuovo, insieme a Ferdinand erano andati a prendere un caffè nel pomeriggio. Avevano parlato della visita del minore con il dottor Ritter, dei tre giorni di tempo per decidere per la sterilizzazione.
Ferdinand gli aveva consigliato di farla. Era sempre meglio del lager, in fondo. Lui aveva firmato, si sarebbe operato dopo due settimane.
Prima di tornare a casa, all’ora di cena, passò a comprare verdure e latte in un emporio.
Non appena aprì la porta, un profumo di stufato di carne e patate gli invase le narici. Rita stava giocando con una bambola di legno sul tappeto davanti al divano, Ulma era accoccolata lì vicino e sorbiva pazientemente i giochi della bambina.
Aveva quasi tre anni ora. L’asilo era stato un toccasana: lasciava più tempo ai genitori per stare insieme e non trascurarsi, aveva aumentato l’appetito e la creatività, le capacità di linguaggio e di gioco erano molto migliorate. Rita parlava bene, per avere quasi tre anni. Qualche parola non si capiva, ma attraverso il resto delle sue brevi e semplici frasi risultava molto chiara.
I capelli erano sempre più ricci, sempre più neri. Gli occhi sempre più simili a quelli della donna che l’aveva messo K.O. solo con lo sguardo.
Frieda era in cucina, le mani nell’impasto per il pane, il forno acceso sotto i fornelli.
«Non vieni a dare un bacio a papà?» esclamò Johann, accovacciandosi di fronte alla porta e allargando le braccia, ad accogliere Rita che gli era corsa incontro. Gli stampò un bacio sulla guancia e lo abbracciò forte. Non dava segni di volersi staccare, quindi lui la tirò su facendola sedere sul suo braccio piegato.
Posò la busta con verdure e latte sul tavolo, si avvicinò a sua moglie di soppiatto come un leone che sta per saltare sulla gazzella. Le fece il verso dell’orso nell’orecchio, come faceva alle ragazzine al parco quando era più giovane. Frieda sobbalzò, facendo volare un po’ di farina. Si voltò per scoccargli un’occhiata a metà tra il rimprovero e il divertimento.
Johann si morse il labbro con un sorriso. «Voglio un bacio anche da te»
«Hai fatto sporcare tutto, non te lo meriti» replicò lei scoccandogli un’occhiata furba.
Quanto la amava. Sempre allo stesso modo, da quando l’aveva conosciuta.
Non riusciva a smettere di guardarla con un sorriso, era così immerso nel suo sguardo limpido che si accorse dopo che aveva il naso e le guance sporche di farina. Lei soffiò per scostarsi una ciocca di capelli dal viso, Johann gliela incastrò dietro l’orecchio.
«Grazie»
«Com’è farsi il bagno nella farina?»
Posò a terra Rita, che corse di nuovo a giocare.
Frieda gli rivolse un’occhiata dispettosa, agitando il sacchetto di farina nella sua direzione.
«Vuoi provare?»
«Non ti azzardare, vade retro»
«Che sarà mai, solo un po’ di farina!» replicò, falsamente piccata.
Johann si leccò il labbro inferiore. «Ma io voglio un bacio».
Le sollevò il viso tenendole il mento tra le dita, le posò un bacio lento e dolce sulle labbra. Il miele della sua saliva che sempre lo inebriava.
«Ho fame» le sorrise, le labbra che si sfioravano.
«Tu hai sempre fame» replicò inarcando le sopracciglia.
«È vero, è vero. È una fame che sento il doppio sai?» e sorride, malizioso e sfacciato come solo lui poteva essere. Lei gli tappò la bocca con un bacio veloce, quando si ritrasse scoppiò a ridere.
«Sei terribile, sfacciato e sporcaccione!»
«Ti sbagli, sono maniacalmente pulito» alzò un sopracciglio, il sorriso trionfale.
Alzò gli occhi al cielo. «Comincia ad apparecchiare, visto che hai fame. Tra poco mangiamo».
Si voltò, tornando con le mani nell’impasto. Lo modellò seguendo la forma allungata e compatta del pane, affondò la punta del dito. Poi se lo portò alle labbra, succhiando via gli ultimi rimasugli.
Johann sorrise malizioso, finendo di sistemare i piatti.
«Non posso mangiare la mia cena se ha ancora i vestiti addosso» sussurrò, passandole dietro con nonchalance e aprendo il cassetto delle posate.
Frieda avvampò. «Oh, dio» si lasciò sfuggire.
Non aveva capito che lui intendesse quel tipo di fame.
«Sì, è quello che ti farò gridare».
Lei si voltò, esterrefatta. Johann alzò le spalle come a dire che non poteva farci niente se era così.
Era su di giri, come al solito. La mattina aveva fatto quell’estenuante visita da Ritter. Gli sembrava un ricordo lontano.
Si avvicinò come una pantera, prima che Frieda infornasse il pane. Ci infilò il dito per controllarlo.
«A forza di metterci il dito, verrà una specie di pane bitorzoluto, fidati del mio giudizio e basta!» esclamò, le mani sui fianchi.
«Silenzio, sono io il mastro panettiere qui» il volto verso il basso, gli occhi che si spostarono sulla sua figura, maliziosi e dispettosi.
«Okay. Quindi così va bene, chef?» lo prese in giro lei.
Johann la guardò da sotto le ciglia. «Sì, sei diventata brava»
«L’allieva che supera il maestro. E ora togliti di mezzo, sei ingombrante, mettiti a tavola»
Lui inclinò la testa. «Cattiva»
«Brutto»
«Cornacchia».
Frieda gli schioccò un bacio sulla guancia, tenendogli una mano sull’altro lato del viso. Quando si ritrasse, Johann si accorse che lei gli aveva imbrattato la faccia di farina. Sbuffò dal naso, e alzò gli occhi al cielo con un sorriso.
Poi si misero tutti a tavola.
Rita raccontò al suo papà cosa aveva fatto a scuola, dello zucchero filato che la mamma le aveva comprato mentre tornavano a casa, della divertentissima pozzanghera in cui si era tuffata facendo imprecare Frieda.
Ormai mangiava da sola e non si sporcava quasi mai. Mangiava tutto, ma manifestava una forte antipatia verso gli spinaci e i pomodori. Il pane in tavola era quello fatto da Johann due giorni prima, ma era ancora morbido. Persino Rita capiva la differenza tra il pane che faceva suo padre e quello che faceva sua madre.
«Il pane di papà è il più buono».
Frieda appoggiò il viso sul palmo della mano e le fece una linguaccia. La bimba le regalò un sorriso da squalo che la rendeva così simile a Johann. Un pezzo di cuore.
«Diglielo, bambola. Mamma è solo invidiosa»
«Tu però non fai le polpette come le faccio io» replicò, fiera.
«Le faccio meglio»
«Non è vero, papà! – esclamò Rita, contrariata. – Le polpette di mamma sono le più buone!»
Frieda guardò suo marito con un sorriso sfacciato e trionfale, si grattò il naso con il dito medio, facendogli alzare gli occhi al cielo.
Misero a dormire Rita nella sua cameretta, dandole il bacio della buonanotte e spegnendo la luce.
Loro due, invece, quella notte avevano altri piani.

 
* * * *
 

Si era fatto settembre. Anno 1937.
A Johann era stata comunicata la data per la sterilizzazioneo. Ne aveva approfittato per fare qualche ricerca nella biblioteca di Hannover e chiedere a Gilda per telefono. Si imbarazzava a parlarne con altri, lo faceva sentire meno uomo, in qualche modo. Con lei non aveva questo problema, perché non gli importava del suo giudizio. E poi era l’unica in grado di dargli spiegazioni, essendo un’infermiera.
«Mi taglieranno via le palle?» aveva sospirato lui, davanti alla cornetta.
Lei aveva riso civettuola. «Ma no, sciocco! Non so come avverrà l’operazione. Ma posso dirti con certezza che eiaculazione ed erezione avverranno normalmente. Semplicemente, verrà impedito agli spermatozoi di fondersi con il resto del liquido seminale»
«Esiste un’operazione reversibile o che so io?»
«No, mi dispiace».
Non lo aveva nemmeno detto a Frieda ancora, anche se avrebbe dovuto. Si sentiva meno uomo. Tutta la sicurezza sfacciata che aveva di sé, tutta la sua boria… sembravano quasi scomparse. La sterilizzazione non avrebbe compromesso la crescita della barba o di altri peli maschili, ma l’avrebbe reso al pari di un bambino prima della pubertà.
«Che succede se non mi presento?» aveva sussurrato.
Gilda era rimasta in silenzio qualche istante di troppo. «Dipende. Se non hai dato l’autorizzazione, ti arrestano e ti mandano in un campo da lavoro. Se invece hai firmato ma non ti presenti, ti verranno a prendere e ti porteranno in ospedale con la forza. Ma nessuna ripercussione grave come il lager. Perché me lo chiedi?»
«Semplice curiosità».

 
Quel giorno Rita era a scuola, sarebbe uscita dall’asilo nel pomeriggio.
Frieda non lavorava quel giorno, e Johann avrebbe avuto il turno all’osteria solo in serata. Avevano deciso di fare insieme un giro per Hannover.
Lei avvolta nel suo cappotto beige con i bottoni neri, una sciarpetta rossa ed un cappellino di lana rosso da cui uscivano i capelli biondi. Aveva deciso di tagliarli di nuovo, fino alle spalle come quando l’aveva conosciuta. Un po’ gli dispiacque: amava farle le trecce, con i capelli così corti sarebbe stato più difficile.
Johann portava un cappotto di cammello con i bottoni di pelle, i pantaloni grigi, una sciarpa sottile, nera a strisce grigie incastrata nel cappotto, ed un berretto grigio e piatto sulla testa. I ricci che uscivano leggermente dalla visiera davanti. Portava i guanti a mezze dita.
Si erano fermati a bere qualcosa e a pranzo fuori.
Gli faceva bene passare il tempo con lei. Il lavoro, la famiglia, li aveva fatti trascurare più del dovuto. Era da un po’ che non passavano il tempo insieme così, come quando erano amici e fidanzati.
«C’è qualcosa che ti angoscia» esordì Frieda, abbandonandosi sulla sedia e incrociando le braccia al petto.
Erano al coperto, fuori tirava vento gelido. Il locale era caldo e loro avevano tolto i cappotti, i guanti, i cappelli, le sciarpe. Portavano entrambi dei maglioncini: lei un golfino corto, lui un maglione nero a collo alto.
Appoggiò il viso sul palmo della mano, con un sorriso. «Tu dici?»
«Oh sì. – mise in bocca un’altra oliva. – Ti conosco quasi meglio della tua famiglia. Sono la tua migliore amica, la tua amante, la tua fidanzata, tua moglie e la madre di tua figlia. Direi che basta»
Lui le regalò un sorrisetto furbo. «E cosa mi angoscia, secondo lei, signora Trollmann?»
Gustò quel nome rotolargli sulla lingua, la signora Trollmann. Quanto amava guardarla.
Frieda si era accorta che qualcosa turbava l’animo di suo marito, all’inizio era stata una delle sue solite intuizioni dovute all’empatia, ma poi aveva cominciato a palesarsi. Perciò nonostante le regalasse sorrisi e occhiate dispettose, lei notava un fondo di inquietudine.
Johann si accese una sigaretta con un fiammifero, e lo sventolò per farlo spegnere. Qualcuno una volta gli aveva detto che ogni volta che un cerino si consumava del tutto, un marinaio moriva. Oppure era un soldato? Non se lo ricordava, ma qualcuno moriva.
«Non lo so, dimmelo tu» replicò lei, sfarfallando le ciglia.
Sbuffò il fumo dalle narici, come un drago. La guardò così intensamente che per un attimo Frieda si sentì a disagio, come un cerbiatto che incrocia gli occhi del lupo un momento prima di essere azzannato. Johanna, in realtà, stava solo decidendo se dirglielo oppure no.
Prese un’altra boccata dalla sigaretta e lasciò cadere un po’ di cenere nella scodellina di vetro al centro del tavolo. Sbuffò ancora dalle narici, senza distogliere lo sguardo. Alla fine lanciò un’occhiata fuori dalla vetrata, e lei tornò a respirare. Cercò di placare il battito cardiaco. Quanto potere che aveva, con solo uno sguardo… riusciva a farle trattenere il respiro, battere il cuore, sentire ancora le farfalle nello stomaco e, per qualche motivo, farle salire l’adrenalina. Come se si stesse preparando a scappare.
«Devono sterilizzarmi» disse infine, tradendo amarezza.
Frieda inarcò le sopracciglia. «Che cosa? E perché mai?»
Lui alzò le spalle. «Sono zingaro»
Inclinò la testa da un lato, confusa. «E allora?»
«E allora non possiamo rischiare di “sporcare” la razza ariana. – mormorò, con voce piatta. – Il nomadismo è un gene che non deve essere diffuso, a quanto pare»
«Come se foste malati mentali? Vi trattano così, adesso?»
Le lanciò un’occhiata. «A quanto pare. Ed ho il vago presentimento che questo sia solo la punta dell’iceberg, che faranno anche di peggio»
«Come fai a non arrabbiarti neanche un po’? Vi trattano come animali! Come se foste malati di mente, geneticamente sbagliati, non so… Non è giusto, non è giusto»
Johann schiacciò la sigaretta nel posacenere, ed allungo le mani per prendere quelle di Frieda. Si sporse verso di lei, per guardarla meglio. «Io sono incazzato nero. Non vorrei farlo, ma ho già firmato»
«Non sarai meno maschio o meno virile. Fossi stato tu a scegliere di farla, non reagirei male. – mormorò. – Ma, Johann… è forzata. Per motivi assurdi».
Lui intrecciò le dita a quelle di Frieda, con una dolcezza che cozzava con la furia che sentiva montare. Aveva ragione, era una condizione imposta. Le imposizioni infastidivano chiunque, ma lui… lui non le sopportava. Talvolta persino le più semplici e logiche regole lo infastidivano, gli stavano strette.
«Potresti annullare la decisione» proseguì lei.
«Sì, così verrei trasferito in un lager» brontolò.
«Allora scappa».
Lo disse con una naturalezza tale che gli sembrò giusto, quasi scontato. Poi aggrottò le sopracciglia e strinse appena le dita sulle piccole mani di lei. «Io non vi lascio da sole»
«Non per molto. Posso cercare una soluzione mentre ti nascondi»
«Lasciarvi sole per fuggire e nascondermi… non mi piace, Frieda, non mi appartiene».
Per un attimo, ma solo per un attimo, al telefono con Gilda ci aveva pensato e gliel’aveva chiesto cosa sarebbe accaduto. Aveva avuto un momento di debolezza, ma tutto sommato non era sicuro che l’avrebbe fatto davvero. Avrebbe significato lasciare sole Frieda e Rita, alla mercé dei nazisti. Lui doveva proteggerle, doveva attirare la loro attenzione su di sé per non farla ricadere sulla sua famiglia; non poteva scappare. Era da vigliacchi lasciarle e nascondersi.
Lei si stizzì. «Smettila di fare il caprone. Cerca di evitare di sbatterci la testa stavolta, e proviamoci»
«Non vi lascerò per scappare e nascondermi» ribadì, stringendo di più le sue mani.
«Maledetto testardo, dammi ascolto per una volta! – sbottò sporgendosi verso di lui. – Non accadrà niente. Ti farò sapere io quando potrai tornare, prima devo cercare una soluzione».






 

Non ho molto da dirvi, in realtà, se non che ancora assistiamo all'andamento solito dei capitoli: un po' di momenti spensierati e un po' di momenti un po' tesi. Credo sia la caratteristica più evidente di questa seconda parte della storia, Der Mann. 
Ecco il primo ostacolo razziale, la prima contromisura nazista agli zingari: la sterilizzazione.

Come ho detto, essendo il nomadismo considerato un gene tipico zingaro ed ereditario - come le malattie mentali, pure - i nazisti ricorsero alla sterilizzazione forzata per questi individui. Secondo Ritter per prevenire il "fenomeno zingaro" bisognava sterilizzarli e ridurli a lavori sfiancanti. Era l'unico modo per renderli utili.
Senza contare che avevano i geni della pura razza, ma degenerati, e quindi onde evitare questa propagazione di "degenerazione" negli ariani, dovevano assolutamente smetterla di unirsi alle donne tedesche.

Un po' ironico il fatto che riesca ad aggiornare proprio oggi, che è la Giornata della Memoria.
Ho una piccola osservazione / polemica da fare, in effetti.

Trovo davvero sbagliato dire sempre e solo "Shoah". 
Con questa parola si fa riferimento solo all'olocausto degli ebrei, dimenticando il resto. In troppi credono che nella "soluzione finale" di Hitler siano morti SOLAMENTE gli ebrei. 
Se volete parlare di Giornata della Memoria, per favore, non parlate solo di Shoah.
Parlate di Olocausto. L'hanno subito tutte le minoranze: ebrei, zingari, omosessuali, slavi, disabili, donne considerate "facili".

Dire Shoah porta il pensiero solo agli ebrei, e non è giusto. 
È importante ricordare. Ma ricordiamole per bene le cose, non solo una fetta di questo sterminio. 
Nessuno di loro merita così poca considerazione e così poca memoria. Cerchiamo di ricordarli tutti quanti.

Grazie a tutti ♥ buon weekend e alla prossima! 

   
 
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