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Autore: Luxanne A Blackheart    22/04/2018    1 recensioni
Un grosso edificio è stato costruito nel centro di una grande città americana. Impiegati in smoking e tailleur vi lavorano, circondati dal lusso e da vetrate nere sempre pulite e immacolate.
Nessuno sa che cosa ci sia al suo interno, oltre ad una piccola casa editrice che accetta i vari talenti provenienti da tutto il paese.
Ophelia Adams scrive da tutta la vita e si ritroverà catapultata, per ordine della madre, in una situazione più grande di lei, piena di effetti collaterali.
Uno di questi sarà proprio Jacob Robertson, tra gli editori che lavorano nell'edificio Senza Nome, un uomo bellissimo quanto misterioso.
I suoi occhi azzurri celano una verità importante, che Ophelia dovrà comprendere poco alla volta...
Riuscirà a capire cosa succede nelle ore più buie della notte, nei silenziosi e inquietanti sotterranei dell'edificio?
Riuscirà a capire le sfumature dei begl'occhi di Jacob?
Genere: Comico, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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DUE.






Condividevo un appartamento con le mie due migliori amiche: Vanessa e Aurora, coppia che avevo proclamato tra le più adorabili in assoluto. Le avevo fatte conoscere io, qualche anno prima ed era per merito mio se un bell'anello brillava sui loro anulari sinistri.


Si erano incontrate, innamorate e si sposavano. Io, invece, passavo da una sbandata all'altra. Non ero una ragazza da relazioni, non che io non le volessi, ma perché tutti si innamoravano della mia spalla, in questo caso di Vanessa o Aurora.


Avevo avuto solamente due ragazzi seri in tutta la mia vita, uno dei quali - Robert - si era sposato e l'altro – Alejandro - era diventato uno dei miei migliori amici. Pensandoci, era strano, ma non per noi.


«Vi presento la nuova segretaria dell'edificio Senza Nome! Ho avuto il posto, puttanelle!», urlai, entrando in casa e abbandonando in un angolo Kurt Cobain e le mie chiavi. Aurora e Vanessa mi vennero incontro, stringendomi forte e baciandomi entrambe le guance.


Erano simili di aspetto fisico: entrambe bionde, occhio celesti e fisico alto e asciutto. Ma Aurora era assolutamente pazza, nonostante sembrasse la più civile tra le tre e Vanessa, be', anche lei lo era, ma sapeva controllarsi. Quando Aurora perdeva il senno, di solito dopo due birre, nessuno poteva più farla ragionare, a meno che non le si rompesse qualcosa in testa per farla svenire.
Ci avevo provato una volta e aveva funzionato.


«Oh, la nostra bambina! Finalmente la finirai di rompermi il cazzo a lavoro ogni giorno. Sei stata il mio incubo, Ophelia.»


«Tu sì che sai come rendere una persona felice, Aurora, le tue parole sono sempre estremamente rincuoranti.», la rimproverò con lo sguardo Vanessa, abbracciandomi.


«E tu mi hai chiesto di sposarti per questo!», sorrise e tutte e tre ci sedemmo su l nostro striminzito divano a guardare l'ennesima replica di How I Met Your Mother.


Eravamo un trio ben assortito, un'unica sola cosa che adesso stava per sdoppiarsi. L'estate era vicina e le mie due migliori amiche si sarebbero sposate, avrebbero preso una casa tutta per loro, lasciandomi da sola in quell'odioso appartamento, che sopportavo solo grazie alle figure di Vanessa e Aurora.


Quelle due pazze bionde erano le uniche ragioni per cui riuscivo a tirare avanti.


«Ragazze, vi voglio bene, lo sapete?», sbottai all'improvviso, abbracciandole strette, mentre loro mi supplicavano di lasciarle andare.


«Sì, certo, tesoro, ma adesso mollaci, riesco a sentire la consistenza delle tue tette e non è una bella sensazione!», mi supplicò Aurora, cercando di staccarsi dalla mia morsa ferrea.


«Come se ti dispiace, Rora!»


«Sei come la nostra bambina spastica, Ophelia, non potremmo mai pensare a te in quel modo.»


«Concordo, ew!»


Le lasciai andare, mollando loro un'occhiata affranta. «Perché non siete come le altre lesbiche? Preferirei subire una molestia almeno una volta al mese da voi due, piuttosto che sentirmi rifiutata così, è veramente brutto!»


«Aaah, ma smettila! Le lesbiche a cui tu ti riferisci si chiamano maschi etero e ne puoi trovare a bizzeffe in metropolitana.», sentii la voce di Vanessa provenire dalla cucina.


«Maschi etero, ew.», Aurora fu attraversata da un brivido sincero di disgusto e io risi profondamente.






Mi era stato assegnato un ufficio con tanto di scrivania e computer al terzo piano, ovvero lì dove era situata la casa editrice.


Il mio compito era quello di seguire il mio capo, il signor Cole, prendere i suoi appuntamenti, passargli le telefonate... In pratica ciò che faceva la ragazza rossa, che avevo scoperto si chiamasse Stacey.


Per quel giorno avevo scelto di vestirmi in modo un po' più elegante, ma niente gonne, le odiavo, in compenso avevo indossato un paio di tacchi, di cui mi ero pentita circa mezz'ora dopo.


I piedi avevano cominciato a dolermi incredibilmente, tanto che quando camminavo sembravo una che aveva problemi alle articolazioni. Il primo giorno e avevo già fatto una figuraccia con tutto l'ufficio; quelli mi avrebbero mangiata come tacchino il giorno di Ringraziamento.


«Buongiorno, Ophelia.», il viso solare e sorridente dell'uomo mi misero subito di buon umore e mi alzai di getto, quando il signor Cole entrò nel mio ufficio.


Ero un disastro, mi volevo sotterrare.


«Vedo lei si sia ambientata bene nell'ufficio, ma sono passato per dirle che io non sarò il suo superiore, ma Jacob, il mio collega, non so se lo ricorda.»


Sussultai, ma cercai di assumere la mia migliore faccia indifferente, anche se dentro di me urlavo in aramaico antico.


«Sì, come dimenticarlo quel gran simpaticone.», mi sedetti, facendo finta di scrivere qualcosa sul computer.


«Be', devo dire che lei le poche volte che apre bocca è per insultarmi velatamente o semplicemente per saltarmi addosso nel bel mezzo del corridoio.», Jacob, alias signor-palo-in-culo, entrò nel mio piccolo ufficio, nel suo completo blu notte abbinato ad una cravatta dalla strana geometria azzurra. Gli occhi azzurro - ghiaccio mi osservavano con aria da superiore.


Lo odiavo.


William Cole ci guardò, alzando il sopracciglio. Aveva chiaramente frainteso qualcosa che non sarebbe mai accaduto.


«Non è come pensa, signor Cole.», cercai di giustificarmi, anche se non conoscevo bene la risposta. Probabilmente non volevo fare figuracce o passare addirittura per quella che ha cercato di farsi il capo al primo colloquio.


«Dovresti saperlo, William, che quelle così non sono il mio tipo.», aggiunse, con freddezza. Le sue parole non mi colpirono minimamente.


«Bene, credo che voi due troverete il modo di andare d'accordo. Signorina Adams, spero che la nostra struttura le sia di suo piacimento e che qui da noi si trovi bene.», William mi sorrise gentilmente e io ricambiai, mentre sotto al tavolo cercavo di togliermi le scarpe col tacco. I piedi mi pulsavano terribilmente e certamente non avrei potuto continuare a passare così il resto delle mie giornate.


«Grazie, signor Cole. Buona giornata a lei!», esclamai con fin troppa enfasi, quando i piedi nudi toccarono il freddo pavimento.


Rimanemmo solo noi tre: io, il signor Robertson e i suoi glaciali occhi calcolatori che mi fissavano. Lo guardai di rimando, arricciando le labbra come facevo ogni volta che non mi sentivo a mio agio.


«Che cosa fa lì impalata? Mi vada a prendere un dannato caffè! Nero e senza zucchero, si sbrighi!», sbraitò e il mio sopracciglio destro si alzò automaticamente, contrariato.


«Come vuole, visto che lo chiede tanto gentilmente.», borbottai, abbassandomi e rimettendomi le scarpe. Sentivo inconsciamente i miei piedi urlare come disperati e pregarmi di andare scalza al più vicino Starbucks – cosa che avrei anche fatto, se il mio capo non fosse stato un tale imbecille mestruato.


Mi alzai, aggiustandomi i pantaloni giallo canarino che indossavo e cominciai ad avviarmi, senza degnarlo di uno sguardo.


Avrei dovuto addirittura pagarglielo, sto spilorcio!


«Dove crede di andare?», mi fermò.


«A prenderle il suo dannato caffè nero e senza zucchero?», citai.


« Dobbiamo discutere di alcune cose prima.»


«Ovvero?»


«Ho delle regole molto ferree, che lei dovrà rispettare. In caso contrario, rischia il licenziamento.», mi guardò ancora una volta, abbassando leggermente il capo, come per assicurarsi che io avessi capito. Annuii, anche se dentro di me volevo prenderlo a pugni.


«Me le dica, allora. Dobbiamo lavorare tutti, mi sbaglio?», cercai di stare il più calma possibile. Dovevo essere migliore di lui e della sua odiosa aria da sbruffone. Dovevo mostrarmi superiore, professionale e sopportare tutte le possibili umiliazioni, poiché avevo un disperato bisogno di quel lavoro.


Quindi, per quanto il mio datore di lavoro fosse un coglione con tanto di attestato a provarlo, dovevo sforzarmi di tenere la bocca chiusa.


«Bene. Regola uno: il mio caffè nero dovrà essere sempre poggiato sul mio tavolo, assieme a tutte le pratiche di cui dovrò occuparmi.
Regola due: quando la chiamo, lei mi raggiunge. Odio aspettare e se io le dovessi chiedere di saltare, lei lo farà.
Regola tre: qui si lavora, si scordi il cellulare.
Regola quattro: è severamente vietato piangere o piagnucolare. Se mai dovessi vederla piangere, la licenzio.
Ha solamente quattro regole da rispettare, è in grado di farcela? È in prova fino alla fine del mese. Se sarò soddisfatto del suo operato, potrà rimanere, altrimenti la licenzierò. Ora scatti!», corsi letteralmente allo Starbucks più vicino per comprarli il suo dannato caffè.


Sapevo sarebbe stato un mese di puro inferno e avrebbe fatto di tutto pur di licenziarmi.
   
 
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