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Autore: _Lightning_    11/07/2018    6 recensioni
La Mark 46 pendeva dai suoi sostegni come la pelle di un animale ucciso, disarticolata, inerte e con l'elmo sfigurato ciondoloni sul petto in una tacita ammissione di sconfitta. Al centro della placca frontale, attraverso il reattore, spiccava la netta e slabbrata frattura orizzontale che non riusciva a fissare per più di qualche secondo senza che il dolore allo sterno si acuisse improvvisamente. Si portò davanti all'armatura, con lo sguardo proprio a livello del reattore in frantumi, costringendosi a fissare quella ferita sul suo secondo corpo di ferro.
Prese atto ancora una volta con un senso di smarrimento di quanto fosse profonda.

[post-Civil War // Introspettivo // Angst // PoV Tony // Missing Moments]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Schegge'
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"And I'll find strength in pain
And I will change my ways
I'll know my name
As it's called again"


[Cave – Mumford And Sons]


Sei mesi dopo, Calcutta, India


Prima o poi sarebbe impazzito, concluse Tony chiudendo seccamente la chiamata e partendo a velocità sostenuta con la sua Audi. Non poteva allontanarsi un paio di giorni che tutti decidevano di dare il meglio di sé, da bimbi-ragno iperattivi a un branco di criminali intenti a trafficare alla cieca con tecnologia aliena. Le sue mani si contrassero sul volante mentre scacciava l'immagine del portale – perché no, non aveva la forza di pensare anche a quello, e per quel giorno i suoi amici Chitauri sarebbero rimasti nel loro maledetto buco spaziale.

Come se non bastasse, il ragazzino aveva dovuto menzionare Rogers. Certo, aveva davvero bisogno di pensare anche a quell'idiota in tutina a stelle e strisce, tanto per scatenare una reazione a catena di pensieri che lo riconduceva inevitabilmente al cellulare antidiluviano sepolto nella tasca del suo kurta. Del suo scomodissimo kurta, rettificò tra sé, finendo per sbandare leggermente nel tentativo di allentare quel colletto soffocante, per poi liberarsi anche di ghirlanda e scialle con un gesto infastidito. Era molto più agitato di quanto avesse preventivato e, memore dell'ultima volta che aveva avuto un attacco di panico in auto, si accostò sul ciglio della strada sterrata fiancheggiata da alti e lussureggianti alberi tropicali. Nonostante il caldo umido e intenso fu scosso da un forte brivido che lo irritò ancor di più – perché era in India, all'Equatore, c'erano trentacinque gradi all'ombra e nessuna traccia di neve o freddo, quindi il suo corpo avrebbe fatto meglio a piantarla con quelle bizze illusorie.

Strinse più volte il pugno sinistro, controllandone il lieve tremito per poi poggiarlo sul volante; inziò a tamburellarvi con le dita, riacquistando a poco a poco la calma. Concluse che non stava per avere un attacco di panico; non ancora, almeno. Era semplicemente irritato come non si sentiva da tempo, e doveva ammettere che era una novità quasi piacevole, se non gli avesse anche fatto venir voglia di prendere a pugni qualcosa, o qualcuno. L'ultima volta che aveva perso le staffe era stato con Rogers e Barnes, e quello non contava nemmeno propriamente come "perdere le staffe". Percepì una lieve fitta al petto, ma scacciò la sensazione, classificando anch'essa come come irreale – perché le costole si erano saldate, lo sterno era guarito, non aveva un reattore in petto né barbigli metallici puntati al cuore e al diavolo tutto il resto.

Inspirò a fondo e a lungo, per poi espirare altrettanto a lungo, come a gettar fuori anche tutte le sue preoccupazioni. Ripeté il gesto più volte, metodicamente, come aveva imparato a fare dopo New York. Un respiro dietro l'altro, fino a che gli fu chiaro di non poter scacciare tutto ciò che continuava a tendere il suo volto in una maschera corrucciata. Poteva farsi passare l'irritazione per Peter, poteva ignorare il cellulare in tasca e poteva ritenersi almeno un po' soddisfatto nell'aver avuto la meglio su ansia e flashback invadenti. Quello che non poteva sicuramente dimenticare era il motivo per cui si trovava nel bel mezzo della giungla indiana con dei vestiti ridicoli e scomodi addosso, di ritorno da una festa priva di alcolici alla quale si era imbucato in mancanza di diversivi migliori. E al momento quasi sperava che quel motivo si palesasse davanti a lui sotto forma di enorme mostro verde rabbioso, tanto per non rendere vane otto ore e passa di insonne volo supersonico e una giornata passata a districarsi per le strade claustrofobiche di Calcutta sperando di non venir rapinato in un vicolo.

Guardò con intensità la fitta schiera di palme e piante esotiche davanti a sé, senza scorgere altro verde se non quello della vegetazione. Probabilmente avrebbe fatto meglio a chiamare la Mark e tornarsene a Mali– a New York, visto che il suo nuovo passatempo sarebbe stato fare da baby-sitter a futuri aspiranti Vendicatori minorenni e privi di buonsenso. Di sicuro sarebbe stata un'attività più produttiva di improvvisarsi investigatore per cercare fantomatiche tracce di Banner da un capo all'altro del mondo.
Anche la sua incursione in Canada a Bella Coola non aveva dato i risultati sperati. Non aveva mai condiviso appieno le speranze di Nat: riteneva come lei che Bruce fosse sopravvissuto allo schianto del Quinjet al largo dell'Indonesia, ma era chiaro che non volesse essere trovato. E se da un lato capiva la sua scelta, dall'altro una parte del fastidio che provava in quel momento era causato da lui – perché era molto più facile sparire, piuttosto che rimanere e affrontare le conseguenze dei propri errori.

Si abbandonò con un sospiro distrutto contro il sedile, togliendosi gli occhiali e prendendo a rigirarseli in mano per evitare di tuffarsi di nuovo in quel torrente di pensieri inconcludenti. Scosse appena la testa: quando e se avesse ritrovato Bruce, avrebbe avuto senso rispolverare azioni e scelte che ormai erano comunque indelebili sulla coscienza di entrambi – perché, in fin dei conti, rimaneva anche e soprattutto colpa sua e del suo ego e della sua incapacità di ignorarlo anche per un solo istante.

Strinse d'istinto il vecchio cellulare nella tasca, con così tanta forza che temette di poterlo rompere. Fare quella chiamata che rimandava da mesi sarebbe stato sicuramente più semplice di ritrovare un compagno disperso da quasi due anni. Lasciò il telefono quando la sinistra iniziò a dolergli per lo sforzo e chiamò con un semplice gesto l'armatura, decidendo che la sua Audi a noleggio avrebbe potuto fare la gioia di qualche fortuito passante; per quanto lo riguardava, otto ore di volo con aria condizionata incorporata gli sembravano una prospettiva più allettante di starsene a rimuginare nella giungla.

La Mark 47 atterrò docilmente a un passo da lui. Si affrettò a liberarsi di quel maledetto kurta e recuperò il cellulare prima di entrare nella rassicurante penombra della corazza. Decollò all'istante, stabilendo la rotta più rapida per New York e tornando a concentrarsi sul suo problema più urgente, ovvero un ragazzino ingestibile che sembrava molto propenso a ignorare le sue direttive nella convinzione di essere invincibile. Una vocina molto flebile, un po' troppo simile a quella di Pepper, gli ricordò che prima o poi avrebbe dovuto mollare le redini del neo-supereroe e lasciare che se la cavasse da solo. Tra qualche anno, forse non così tanti come sperava, Peter sarebbe diventato un Vendicatore e si sarebbero trovati a combattere fianco a fianco. E lui avrebbe dovuto fidarsi di lui, perché era quello che facevano i compagni di squadra e i mentori.

Quella realizzazione lo lasciò con un senso di vuoto impotente che si allargò dentro di lui, pressante. Era difficile tornare a fidarsi di qualcuno, quando un tuo amico ti aveva piantato uno scudo nel petto frantumandoti la gabbia toracica e lasciandoti al gelo in ipossia. Meglio nel petto che in testa, doveva riconoscerlo, ma non era sicuro che fosse un attenuante sufficiente per impedirgli di spaccare i denti al "volto pulito dell'America" non appena gli si fosse parato davanti. Impennò leggermente, perforando lo strato di nubi mentre cercava di tornare presente a se stesso – perché dopotutto non era così sicuro di poter ignorare ancora per molto quel cellulare che continuava a portarsi dietro.

Dubitava che Peter si sarebbe mai sognato di raggirarlo o tradirlo, ma aveva imparato che il suo istinto non era poi così affidabile. Neanche la paranoia era una risposta adeguata alle sue reticenze, ma preferiva passare per un mentore pedante e iperprotettivo, piuttosto che trovarsi di nuovo con un pugnale nella schiena. Parallelamente, doveva anche assicurarsi che Peter non diventasse l'ennesimo peso sulla sua coscienza – perché a popolare i suoi incubi bastavano città volanti, fiamme, bombe targate Stark e portali, senza doverci aggiungere anche un quattordicenne innocente reclutato in un momento di pura follia.

Dovette trattenere il sorriso amaro e carico di rimpianto che gli era salito alle labbra. Gli sembrava quasi ridicolo che si stesse ripromettendo di proteggere una singola persona, ed era allo stesso tempo lo percepiva come un fatto rassicurante: gli ricordava i tempi in cui gli bastava un'armatura a proteggere tutti, quando i suoi problemi più grandi erano qualche terrorista frustrato, un socio psicotico e un russo vendicativo. Poi erano arrivati dèi, alieni, mutanti e computer killer. E un giorno sarebbe arrivato qualcos'altro per cui neanche tutte le sue armature sarebbero bastate.

Il suo cuore mandò una serie di battiti più forti e concitati. Un avvertimento, come il fronte temporalesco che si profila all'orizzonte appena in tempo per invertire la rotta. Lo ignorò, rimanendo saldo al timone e aumentando di riflesso la velocità – perché non sarebbe mai stato capace di tirarsi indietro in tempo, né aveva mai voluto farlo – perché non sarebbe stata una maledetta visione a farlo tornare sui suoi passi – perché poteva ancora impedire che quella visione si avverasse e...

Sangue. Sulle rocce, sulle sue mani troppo deboli, sui corpi esanimi dei suoi compagni; rosso sul ghiaccio sporco e graffiante; schizzi cremisi sulla sabbia rovente; macchie scomposte tra le macerie; un rivolo grigio sulla pellicola sgranata di un filmato, più denso ad ogni colpo brutale; fiamme, alte e roventi che inghiottivano una sagoma amata; un portale, un occhio rivelatore spalancato sulla Terra priva di protezioni, vulnerabile alle enormi creature che si avvicinavano.

Serrò le palpebre, a serrare anche quell'orbita nera su cui si affacciavano i suoi dèmoni, col cuore che gli martellava nel petto e la tentazione di slanciarsi fuori dall'armatura e lasciarsi precipitare. Invece accelerò ancora, spingendo i propulsori al massimo. Deglutì nonostante avesse la bocca competamente asciutta; oltre il fischio statico che gli perforava i timpani percepiva appena il rombo del vento attorno a lui. Dovette concentrarsi a fondo per distinguerlo, come se stesse sintonizzando una vecchia radio che faticava a captare il segnale, ma vi si ancorò nel tentativo di sfuggire a quel vortice che minacciava di risucchiarlo nelle sue viscere. Un boato assordante risuonò come un colpo di pistola quando sfondò il muro del suono, riscuotendolo e impedendogli di precipitare oltre la soglia del panico.

Passarono molti minuti prima che riuscisse finalmente a schiudere i denti digrignati, ritrovandosi con la mascella indolenzita, e nonostante tutto lo spettro di ciò che tormentava le sue notti continuò a balenargli davanti – perché tutto ciò sarebbe accaduto, e allora non avrebbe saputo cosa fare e avrebbe sbagliato – perché avrebbe sbagliato, accumulando altri errori sulla propria coscienza, e forse per una volta sarebbe stato meglio non fare nulla.

Un repentino moto di rabbia lo infiammò da capo a piedi, scacciando il consueto senso di oppressione e impotenza che aveva ormai imparato ad accettare come un compagno sgradito ma inscindibile da lui. Si sentì improvvisamente furioso con se stesso per aver anche solo pensato di non agire. Era già rimasto a guardare per metà della sua vita, mentre raccoglieva i frutti della sua indifferenza cresciuti nel sangue altrui. Molti anni prima aveva compiuto una scelta, nella grotta dove aveva toccato con mano i risultati dei suoi errori rimanendone inorridito e nella quale aveva rinchiuso tutto ciò che lo aveva consumato. Lì aveva scelto di morire facendo ciò che riteneva giusto, e non era morto solo perché qualcun altro aveva scelto di farlo al posto suo.

A volte nei suoi sogni tornava in quella grotta, si trovava dinanzi alla stessa scelta e ogni volta rimaneva immutata. Ogni volta si ritrovava ad annaspare in cerca d'aria tra una sorsata d'acqua torbida e l'altra. Ogni volta tornava con una batteria stretta al petto, anche allora dolorante. Ogni volta riviveva la sensazione delle scintille della forgia che gli pizzicavano le braccia affaticate, il calore ustionante dei vapori sul volto, così rassicurante rispetto al gelo che ormai lo intorpidiva. Ogni volta sentiva il peso schiacciante del ferro grezzo, il sibilo di un reattore malmesso e l'eco metallica del proprio respiro nel casco buio, soffocante e privo di schermate azzurrine, pochi istanti prima dello scontro. Ogni volta usciva da quella grotta con una vita in più sulla sua coscienza e la consapevolezza di poterne salvare molte altre grazie a quel sacrificio.

In tutti quegli anni non era mai rimasto a guardare, anche quando aveva preso coscienza che ogni azione gli si sarebbe inevitabilmente ritorta contro – perché era volato in un portale alieno con una testata nucleare sulle spalle per sentirsi dire che combatteva per se stesso – perché aveva sognato un'armatura attorno al mondo che non aveva protetto nessuno – perché aveva firmato degli Accordi per salvaguardare i suoi amici finendo invece per scinderli, e nonostante tutto sapeva in cuor suo di aver fatto tutto ciò perché credeva fosse giusto.

Non si sarebbe mai tirato indietro e così facendo non avrebbe mai smesso di sbagliare, ma poteva ancora evitare a se stesso e agli altri di commettere gli stessi errori. Era un pensiero confortante, così come il ricordo di ciò che lo aveva portato a emergere da un'oscurità molto più cupa di quella in cui si trovava adesso. Nel momento in cui era uscito da quella grotta aveva deciso che doveva esserci una ragione, se era ancora vivo; una ragione oltre al magnete che aveva nel petto.

E se era vivo adesso, forse quella ragione era ancora valida – perché lui era Iron Man, e sarebbe uscito anche da quella grotta.



 

Note Dell'Autrice:

Ehm, salve.
Sì, sono in ritardo mostruoso, ma la sessione non mi lascia respiro e questo capitolo si è rivelato molto ostico. Il risultato è una supercazzola infinita in cui Tony mette qualche punto fermo nella sua esistenza, arrivando, come ci si aspetta da qualcosa scritto da me, a illa grotta in Afghanistan.

Chiarimento: le parti in corsivo rappresentano una sorta di "voce della ragione" di Tony, un meccanismo di difesa che lo aiuta a fronteggiare almeno parte di ciò che lo tormenta. Non tutto ciò che dice è oggettivamente vero o sensato al 100%, è solo ciò che si ripete per mantenere un certo equilibrio mentale ed è da considerarsi parte integrante del suo PoV. Di qui il finale pseudo-trionfalistico: in questo frangente ha bisogno di spronarsi e di credere di stare facendo e aver fatto la cosa giusta, anche se non si sta perdonando nulla di ciò che ha commesso.
Come sempre i riferimenti/riprese/citazioni del MCU si sprecano.

Ringrazio tantissimo _Atlas_, shilyss e T612 che hanno commentato gli scorsi capitoli (appena posso recupero tutti i vostri scritti :P), chiunque legga e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite <3
La buona notizia è che il capitolo successivo è pronto, quindi aggiornerò puntualmente mercoledì prossimo :D
Alla prossima settimana,

-Light-

P.S. Bella Coola è dove si rifugia Banner dopo gli eventi del film di Hulk; Calcutta è dove lo recupera Nat nel primo Avengers. Il lieve attacco a Bruce è dovuto al fatto che si esonera dalla responsabilità di Ultron, come se non avesse collaborato volontariamente con Tony o concordato sul fatto di tenere segreta la cosa. È ovvio che sia in primis colpa di Tony, lui stesso lo ammette, ma lasciare un amico a prendersi l'intera colpa del fatto, lavandosene le mani e ponendolo come unico responsabile è un atteggiamento secondo me piuttosto egoista. E tutto questo prima che Hulk prenda il sopravvento e lo porti nello spazio. Fight me.
P.P.S. Per chiarimenti sull'insistenza sul braccio sinistro malmesso di Tony in questa raccolta, sono riferimenti a una teoria che circola sul web al riguardo, e che io trovo abbastanza coerente con quello che accadrà probabilmente dopo Infinity War.
   
 
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