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Autore: Damnatio_memoriae    06/08/2018    6 recensioni
Andrea è una studentessa che ama scrivere.
Vittoria è una studentessa che ama leggere.
Sembra già tutto preparato a tavolino e lo sarebbe ancora di più se entrambe si rendessero conto di chi è la persona che hanno vicino. Ma fraintendersi è facile, troppo facile, e le parole possono far male, soprattutto quelle scritte. Sono gli opposti che si attraggono o i simili che si pigliano?
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Universitario
Capitoli:
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On my own

Capitolo VII
 
So I surrender my soul
I'm reaching out for your hope
I lay my weapons down

I'm ready for you now
 

La professoressa Tommasi si sistemò gli occhiali sul naso, aprì il registro di classe e con il dito passò sui nomi degli studenti della III°D, pronta a procedere con l’appello.
«Alfonsi?» chiamò con la sua usuale voce stridula, senza scomodarsi ad alzare gli occhi sull’alunno.
«Presente!» rispose il ragazzo della prima fila.
«Astigiani?».
«Presente» ripetè distrattamente Vittoria, in quel giovedì mattina svogliato che proprio non la vedeva al massimo della forma. Sconsolata, fece scivolare il bacino sulla sedia e allungò le gambe nel tentativo di distendersi, ma quella classe era diventata fastidiosamente piccola dopo l’accorpamento della II°A e della II°D e subito si ritrovò per sbaglio a colpire lo zaino del compagno seduto di fronte a lei. Poggiò i palmi delle mani sul bordo del banco e si tirò su, sedendosi più compostamente. Incrociò le mani per farle scrocchiare e piegò il collo a destra e a sinistra nel tentativo di rilassare le spalle.
«Sembri un robot da cucina arrugginito» le bisbigliò all’orecchio Matteo, seduto di fianco a lei. Da che ne aveva memoria, erano sempre stati compagni di banco, sia al Ginnasio che al Liceo.
«In effetti mi sento un tostapane stamattina» lo assecondò «Un tostapane senza corrente. Ieri l’allenatore mi ha distrutta, non credo di aver mai fatto tante vasche tutte insieme».
«Ti prepari per la gara?».
«Già» rispose con una smorfia che lasciava trasparire tutto il suo malcontento «Non vedo l’ora che finisca questa stagione».
«Pensavo ti piacesse nuotare. È praticamente l’unica cosa che non ti è venuta a noia da quando ti conosco. Oltre al sottoscritto, ovviamente» sottolineò, dandole un buffetto sulla testa e scompigliandole i capelli.
«Tutti si stufano di tutto dopo dodici anni» borbottò e aggiunse guardandolo di sottecchi: «Noi da quanto tempo ci conosciamo esattamente?».
«Undici faticosissimi anni» rispose orgoglioso, gonfiando il petto come se fosse un gallo.
Lo guardò di sottecchi, arricciando il naso. «Fossi in te, allora, mi preparerei al peggio. In ogni caso, al momento l’unica acqua che non mi fa venir voglia di fingermi malata è quella del rubinetto. E forse nemmeno quella».
«Romano?» continuò a chiamare la professoressa Tommasi.
«Presente!». La ragazza seduta dietro Matteo alzò la mano e Vittoria si piegò all’indietro, guardandola sottosopra. Avrebbe riconosciuto anche nel mezzo della strada più affollata quella lunga treccia scura– ormai un segno più che distintivo -, gli occhi grandi sempre entusiasti, le guance colorate dal fard e un’angolazione della bocca che le dava un’aria tanto furba.
«Ci sei mancata» le disse a bassa voce per non farsi sentire «E un po’ sei mancata anche a Manuel, ma non lo ammetterà mai. Lo sai come è fatto».
«Male?» tirò ad indovinare lei, aprendo la zip del suo astuccio per tirarne fuori matite e penne colorate.
«Decisamente!» rise Matteo «Senza di te non sa a chi scroccare il pranzo».
«Romano!» la riprese con aria severa la docente «Deve recuperare la verifica della scorsa settimana».
«Certo» la assecondò la studentessa, pronta ad annotare tutto sulla sua agenda «Quando?».
«Il primo giorno utile».
«Lunedì?».
«No, il primo giorno utile di questa settimana».
«Ma…» la sua faccia cambiò subito espressione «Ma oggi è giovedì…».
«Bene. La farà domani».
«Domani?!».
«Sì, Romano, domani. Non prenda impegni dalle otto alle dieci. E adesso» rivolse la sua attenzione alla lavagna «Parliamo della rimilitarizzazione della Renania. Eravamo rimasti al 1935…».
Matteo strappò un pezzo di carta dal suo quaderno, lo appallottolò e lo lanciò dietro di sé. «Hey, Cla! Claudia!» chiamò.
La ragazza alzò gli occhi per guardarlo. «Eh?».
«Si vede che sei mancata anche alla Tommasi, vero?».
«Se solo lo avessi saputo mi sarei data malata per altri due giorni» ammise.
«E pensare che una volta eri la sua preferita».
Sorrise e due fossette le bucarono le guance «Già, è un brutto vizio: all’inizio piaccio a tutti».
La lezione proseguì senza sosta per le due ore successive e il suono della campanella non fu sufficiente a fermare la professoressa, che rubò altri cinque minuti ai suoi studenti per assegnare i compiti da svolgere per il fine settimana.
Quando intorno alle dieci il bisogno di caffè si fece impellente, Vittoria prese Claudia sottobraccio e insieme a lei attraversò il corridoio mentre gli studenti delle classi vicine si affrettavano a ritornare in aula.
«Allora?» la incalzò subito Claudia senza badare ai convenevoli, lanciandole un’occhiata smaliziata «Tu e Giorgio siete in dirittura d’arrivo?».
«All’incirca» rimase vaga la bionda «Se con “arrivo” intendi più un vicolo cieco che una pista d’atterraggio».
«Che cosa hai combinato questa volta?».
«Perché dai per scontato che io abbia combinato qualcosa?».
Claudia alzò gli occhi al cielo «Giorgio fatica a trovare le palle per allacciarsi gli stivali, figurarsi se trova il coraggio per tenere testa a te».
«E questo sarebbe un punto a suo favore o no?».
«Dipende» fece spallucce «Non abbiamo bisogno tutte di un maschio Alfa e tu sei più credibile come uomo che come donna».
«Meschina» la riprese scherzosamente Vittoria, pizzicandole il braccio. «Avanti, perché non me lo dici anche tu?».
«Dirti cosa?».
«Che sarebbe più opportuno che io tornassi sui miei passi, che Giorgio è l’uomo perfetto per me, che sto agendo in maniera troppo avventata. Oppure che era ora che io mi decidessi a rompere un fidanzamento che non aveva ragione d’essere. Scegli la tua versione».
«In entrambi i casi non ci faccio una bella figura, dico bene?».
«Esatto» rise.
«Tu cosa ti senti di fare?».
«Un omicidio».
«Qualcosa che non sia perseguibile penalmente?».
La bionda arricciò il naso e assunse un’aria pensierosa. «Così me la rendi difficile…».
«Perché semplicemente non ti prendi un po’ di tempo?».
«Non credo che il ticchettio delle lancette di un orologio mi aiuteranno a capire se rimanere insieme a Giorgio è effettivamente quello che desidero» incrociò le braccia al petto, continuando a camminare. «Lo vedo che mi guardi» la riprese poi dopo qualche attimo di silenzio «Sputa il rospo. Il peggio che possa accadere è che io ti costringa a ringoiarlo. Riesco a vedere chiaramente gli ingranaggi che stridono nella tua testa».
«E’ solo che è un po’ ambiguo…Ti ho lasciata che spulciavi i piani di studio per l’università, che guardavi dove partire dopo il diploma insieme a Giorgio e che facevi il giro di chiamate per sapere chi sarebbe venuto a vederti alle regionali di nuoto. Faccio appena in tempo a farmi passare la gastrite e scopro che ti senti più single che impegnata, che non sai se valga la pena o meno andare all’università e che, se potessi, ti frattureresti un femore pur di non rimetterti un costume».
«Temi mi abbiano rapita i russi per farmi il lavaggio del cervello?».
«O quello o una sbandata».
«Con la moto?».
«Peggio: con un ragazzo».
«Ma per favore!».
«Chi è? Lo conosco?» la strattonò con fare bambinesco.
«Quando hai finito di montare questo bellissimo film regalami un biglietto per il cinema. Ultima fila, posto centrale, lontano dai bambini che masticano i pop-corn nelle mie orecchie, grazie».
«Non sarà mica Matteo, vero?».
«Ti prego, che immagine squallida».
«Lui non sarebbe dello stesso avviso. Quindi, io non lo conosco?».
«Davvero Claudia, non c’è nessuno da conoscere. Non ho bisogno di una cotta per rivedere le mie priorità».
«Mhmh…Non mi hai convinta del tutto, ma mi voglio fidare. Sono troppo impegnata a pensare a come nascondere ai miei genitori l’insufficienza che prenderò domani» ammise, mettendosi in fila dietro un ragazzo fermo alle macchinette.
«Che fai?» le domandò Vittoria perplessa, passando oltre.
«Attendo pazientemente il mio turno».
«No, non qui. Andiamo alle altre macchinette: danno il resto».
«Quali altre macchinette?».
Vittoria le diede le spalle, alzò le braccia verso il soffitto e si stiracchiò fino a quando non sentì le ossa scricchiolare. «Quelle che hanno montato nell’altra ala».
L’espressione di Claudia passò in un attimo da allegra a dubbiosa, da dubbiosa a malinconica e da malinconica a spaventata. Gli occhi si velarono di una punta di tristezza e tutta la sua figura esitò, ma Vittoria non riuscì a vederlo. «All’artistico?» domandò con voce incerta e per nasconderla finse un colpo di tosse.
«Già» confermò con noncuranza l’amica, scendendo gli scalini due a due, convinta di essere seguita.
«No, Vicky aspetta…» tentò di fermarla, allungando inutilmente le mani e mancandola per un soffio.
«Che c’è?».
Prese tempo, ferma sul pianerottolo. «L’intervallo è quasi finito, ormai siamo qui».
«Non essere pigra: l’accidia è un peccato capitale».
«Però io non…».
«Oh, andiamo! Sei un’antropologa nata, vedilo come un esperimento sociale: Caronte incontra Van Gogh».
Borbottò, stringendosi nelle spalle: «Immagino i dialoghi macabri».
«Facciamo così» le concesse infine «Ci vado da sola se tu mi copri per i prossimi dieci minuti. Sicuramente quello di Educazione fisica sarà già arrivato in classe».
«Andata» le accordò la mora, visibilmente sollevata, gli occhi di nuovo lucidi e vispi. Scese anche lei le scale per batterle un sonoro cinque, poi la ammonì giocosamente. «Ma non tardare troppo, altrimenti ci tocca fare le flessioni per punizione».
 
«Qualcuno sa di noi?» le domandò a bruciapelo Sasha, improvvisamente seria, le braccia distese sul materasso dell’ospedale, le flebo ancora attaccate.
L’altra, colta alla sprovvista, sussultò. «Che cosa pensi ci sia da sapere?» riuscì a risponderle poi con voce incerta.
«Andiamo Noemi, non sono nata ieri. Lo riconosco il modo in cui mi guardi e l’attenzione che ci metti quando lo fai. Ed è tremendo star fermi in questa stanza così spoglia senza poter far altro che fissare il soffitto, ma io ne sono costretta, tu no. Eppure ti trovo al mio capezzale ogni giorno, anche se nessuno sembra conoscerti. La mia famiglia non ti ha mai vista, i miei amici non sanno chi tu sia» si allungò, non senza una certa dose di fatica, per prendere il cellulare poggiato vicino al letto «E non c’è traccia di te, qui dentro. Non ti vedo in nessuna foto, in nessun messaggio, in nessuna mail. Non ho il tuo numero, né il tuo contatto facebook, o instagram. Sei sfuggente, sei…» cercò le parole, ma Noemi finì la frase per lei.
«Un fantasma» bisbigliò amaramente.
«E cos’altro?».
«Niente di più».
«È impossibile».
«Non c’è nulla di mio vicino a te, lo hai visto tu stessa. È come se non fossi mai esistita. E ora sei libera anche dal peso del mio ricordo. Chissà, forse hai sempre desiderato andasse così».
«Tutti lasciano delle tracce quando entrano nella vita delle altre persone».
«Forse ti vergognavi troppo di me per lasciarmi entrare del tutto».
La ragazza corrugò la fronte, presa in contropiede. «Non sento di essere quel tipo di persona, Noemi».
«Il problema è che non sei quello che pensi, sei quello che fai».
«E tu devi odiarmi molto per quello che ti ho fatto, dico bene?» ribattè risentita.
«No» strinse i pugni «Non potrei odiarti nemmeno se lo volessi» confessò a bassa voce, più a sé stessa che a Sasha.
«Dove stai andando?» le chiese la rossa quando la vide alzarsi dalla sedia e mettersi in spalla il suo zaino. «Non puoi scappare ogni volta che tocco l’argomento. Devi dirmi la verità. Ehi! Sto parlando con te! Merito di sapere!».
«Sono io che non me lo merito!» esplose fremente e davanti all’espressione sbigottita della ragazza tutta la sua compostezza sembrò come evaporata. «Non mi merito di doverti raccontare una storia che per te non è mai stata nulla più di un gioco. Sono io che non mi merito di ricordare tutte le cose che abbiamo costruito e che hai disfatto, tutte le promesse che mi hai fatto e che poi non hai mantenuto. Non mi merito di doverti ripetere tutte le cose che mi hai detto e che io mi ricordo, altrochè se me le ricordo!» pianse «Non potrebbero essere più indelebili nemmeno se tu me le avessi incise addosso. E io mi ricordo ogni parola, ma ti sei impegnata così tanto per farmi credere che fossero solo questo, parole, che alla fine sei riuscita a convincermi. Ma io non riesco comunque a dimenticarle». Si avventò su di lei, strappandole il cellulare dalle mani e agitandoglielo davanti agli occhi «Non hai tenuto nulla di me perché era più facile cancellarmi che scendere a patti con quello che avevamo fatto. Vuoi sapere chi eravamo? Per me eravamo tutto. Per te? A malapena uno sbaglio, una curiosità, un errore che non si pronuncia ad alta voce, perché se di quello che è stato ne siamo a conoscenza solo noi è un po’ come se non fosse mai accaduto niente. Ma il tuo niente mi ha fatto male, Sasha. E l’espressione che hai ora…l’aria di chi crede che io abbia confuso l’amore con una cotta, la dice lunga su chi sei tu».
 
Una notifica sulla cartella di posta elettronica la informò dell’arrivo di una nuova recensione ma, a differenza dei giorni passati, Andrea aveva smesso di sperare che si potesse trattare di Vittoria.
Le aveva lasciato addosso una sensazione ambigua la confessione – che alle orecchie di Andrea era sembrata più un tragico ultimatum – della ragazza e oramai aveva smesso di contare i giorni che erano passati dal loro ultimo incontro.
Si era rifiutata categoricamente di cercarla, in parte per via dell’imbarazzo che l’avrebbe di sicuro colta se le avesse rivolto la parola; in parte perché era maturata nella sua testa la convinzione che – a tempo debito – ci avrebbe pensato Vittoria a rompere il ghiaccio. Ma dopo una decina di giorni il ghiaccio si era fatto più duro e gelido, il debito del tempo non era stato saldato e quella parte del suo cervello che l’aveva convinta ad attendere fiduciosa le aveva poi chiarito che, così facendo, avrebbe aspettato inutilmente.
Non era sicura di poter definire “mancanza” il sentimento che provava da quando Vittoria l’aveva lasciata da sola in quel bagno, senza avere una risposta alle sue pretese. Di certo si sentiva turbata, angosciata, stupita, se per Vittoria o per il ricordo che la legava ancora a Maeries non aveva più importanza.
Il suo imbarazzo e il suo malessere li aveva trasformati, come sempre, in parole e le parole erano diventate capitoli, scritti e riscritti senza sosta, aggiornati, corretti, eliminati e ricaricati. Sapeva che Vittoria li avrebbe letti, perché quella storia era nata per lei ed era continuata su sua richiesta. Perché era la sua preferita, o così Maeries le aveva detto. Eppure nessuna recensione gliene aveva ancora dato conferma, nessun messaggio privato le era arrivato per pregarla di continuare al più presto, nessun segno che di quello che scriveva gliene potesse ancora importare qualcosa – se mai gliene fosse importato davvero.
«Forza secchia!» le urlò nelle orecchie Salvemini, facendola sobbalzare e per poco Andrea non rischiò di far cadere tutte le monetine che teneva in mano sul pavimento. «Non ho mica tutto il giorno! È già suonata la campanella!».
«Ma che ti dice il cervello?» gli urlò di rimando lei, dando le spalle all’unica macchinetta funzionante del piano.
«Mi dice che sei un’incapace! Levati, adesso faccio io!».
«Non è il tuo turno!».
«E me frego» ribattè prontamente il ragazzo, infilandosi una mano nella tasca dei jeans per estrarre due euro, ma Andrea non si schiodò dalla sua posizione.
«Ho detto che non è il tuo turno!».
«Se non te ne vai immediatamente…» alzò il dito minaccioso.
«Cosa? Il massimo che potresti fare per stupirmi sarebbe coniugare i verbi al tempo corretto».
Salvemini sbuffò, visibilmente irritato. La spinse via con un braccio e, imprecando, si piazzò prepotentemente di fronte alla macchinetta. Regolò lo zucchero, ma prima di poter selezionare la bevanda che desiderava e pagarla, una mano più veloce della sua gli rubò la scena, lasciandolo interdetto.
«Che diavolo stai facendo?» urlò poi alla ragazza che gli si era parata di fronte e che, con disinvoltura, quasi senza accorgersi – o curarsi – della sua presenza, aveva inserito le sue monete e aveva premuto il tasto del caffè.
«Mhm?» domandò lei sovrappensiero, girando appena il viso, ma l’occhiata che gli riservò sembrò bastargli.
«C’ero io!».
«Ah, sì?» gli sorrise Vittoria, riservando uno sguardo complice per Andrea. «Che sbadata. Eppure non mi sembrava stessi dando così tanta importanza alla fila, dico bene?». Si chinò per prendere il suo caffè e lo mescolò con il cucchiaino di plastica.
«Vuoi forse litigare? Non mi farò problemi solo perché sei una femmina!».
«Non ho remore a crederti». Sorseggiò il suo caffè, ma non riuscì a trattenere una smorfia quando si rese conto di quanto fosse zuccherato. «Però, vedi…oggi non sembra essere proprio la tua giornata fortunata. Io sono di cattivo umore e questo caffè disgustoso non mi ha resa di certo più clemente. Hai spinto un rappresentante d’istituto e ora ne stai minacciando un altro e siamo ai limiti del comico se penso che su quella porta, sì proprio quella, campeggia una scritta che dovrebbe avere un chè di minaccioso: Sala Insegnanti. Se non fosse che io ho amici più minacciosi di un paio di professori frustrati che insegnano matematica a quelli come te. Se ci aggiungiamo poi la nuova politica del Preside a tolleranza zero sul bullismo e il fatto che ti trovi fuori dall’aula a lezione iniziata, bhè…allora direi che stai facendo il prepotente con la prepotente sbagliata. Ma non fartene un cruccio» lo vezzeggiò, assestandogli una pacca sulla spalla. «Sono cose che capitano, lo capisco, ma questa volta sono capitate vicino a me e faccio un po’ fatica a girare la testa dall’altra parte, è un vizio di famiglia, sai? Padre avvocato, zio poliziotto, cugino carabiniere, cose così ecco. Possiamo dire che ormai l’Arma italiana porta il mio cognome e non vorrei mai che qualche piedi-piatti portasse il suo amico a quattro zampe a ficcanasare nel tuo zaino, quindi facciamoci entrambi un favore, che ne dici? Ti riprendi i tuoi spiccioli e torni al prossimo intervallo. Io in cambio ti lascio andare in classe senza fare la spia alla vice-preside che, per pura coincidenza, mi adora. Andata?» gli domandò un’ultima volta, ma il ragazzo già le aveva voltato le spalle – non senza essersi preso la soddisfazione di riservarle un gestaccio.
Andrea posò gli occhi prima su Vittoria, poi su Salvemini, e quando vide che il suo compagno di classe si era allontanato a sufficienza cominciò con impaccio: «I-io…».
«Lo so». La interruppe prontamente la bionda, buttando nel cestino il bicchierino ancora pieno e sistemandosi intorno ai fianchi la maglietta «Non avevi bisogno del mio aiuto».
«In realtà stavo per ringraziarti» si risentì.
«Davvero? Strano, sarebbe la prima volta da quando ti conosco».
«Evidentemente da quando mi conosci non hai fatto nulla per meritarti un ringraziamento».
«Altro che ringraziamenti, con te mi servirebbe un’aureola».
«Certo» ribattè stizzita «Sei così Santa e immacolata che la scambieresti per un frisbee».
«Allora?» la incalzò Vittoria, tamburellando le dita sulla macchinetta «Lo prendi questo caffè sì o no?».
La mora fremette, rossa in viso. «Io non bevo il caffè» le fece presente alzando altezzosamente il mento e avvicinandosi a lei quel tanto che bastava per premere il tasto del thè.
«Ecco perché sei sempre intrattabile…» alluse, storcendo la bocca.
«Senti» alzò la mano e, a palmo aperto, gliela avvicinò al viso, come a volerla zittire una volta per tutte «Se ti piaccio così poco, vorrà dire che…». La voce le morì in gola. Si bloccò ripensando a quello che Vittoria le aveva confessato, al modo in cui l’aveva guardata e al totale silenzio dei giorni che erano seguiti e si sentì in difetto per aver iniziato la frase in una maniera tanto sconveniente.
«Vorrà dire che cosa?».
«Nulla» rispose in fretta, abbassando lo sguardo, e ringraziò il suono prolungato della macchinetta che l’avvisò di ritirare la sua bevanda. Aprì lo sportello in plastica e, per non bruciarsi, prese il thè tenendolo per i bordi. Il vapore le appannò gli occhiali.
Contrariata, Vittoria le trattenne il braccio, posando la mano sul polso di Andrea prima che questa potesse avvicinare il thè alla bocca. «Abbiamo la memoria corta qui, ragazzina» affermò gelida, quasi le avesse letto nel pensiero.
«La mia memoria funziona benissimo».
«A me non sembra».
«Perché non ti limiti ad evitarmi come hai fatto fino ad ora?» si ritrovò a rinfacciarle, più astiosa di quanto avesse voluto.
«Non pensavo ti importasse».
«Non è quello che ho detto» la sorpassò, sottraendosi al suo contatto.
«Ma è quello che intendevi».
«Affatto».
«Andrea, ti sto parlando» l’afferrò di nuovo prima che potesse muovere anche solo un altro passo, stanca di doverla perennemente inseguire.
«Lasciami».
«Credo di essere stata poco chiara con te, quindi permettimi di rimediare: quando ti parlo non devi voltarmi le spalle. Se avessi voluto sprecare la mia voce sarei andata a vendere sogliole al mercato».
«Io non prendo ordini da te».
«Non è un ordine, è un invito a non farmi arrabbiare».
«Altrimenti?».
«Non mi istigare Andrea, non è giornata».
«E tu non minacciarmi. Non mi metti di certo in soggezione».
«Andrea! Andrea, vieni qua!» proruppe e quando l’ebbe raggiunta di nuovo la afferrò, senza avere davvero l’intenzione di strattonarla, ma quando la ragazza reagì era già troppo tardi e il bicchiere di plastica le era scivolato dalle dita, rovesciando il suo contenuto sulla mano di Vittoria e sul pavimento appena lavato dalle inservienti.
«Dannazione!» imprecò subito la bionda, obbligandosi ad abbassare la voce per non farsi scoprire e stringendosi la mano al petto.
«Oddio» spalancò gli occhi la ragazza più piccola, perdendosi in una serie infinita di «Scusa, scusa, scusa…».
«Scusa un cazzo Andrea, mi hai ustionata, accidenti!».
«Non volevo!».
«Ah! Che male, che male!».
«Mi dispiace, mi dispiace. Giuro, non l’ho fatto di proposito!».
«Quasi fatico a crederti».
«Non farmi sentire ancora più in colpa, è stato un incidente!».
«Se avessi saputo che ti serviva un’ustione di terzo grado per provare un minimo di rimorso, avrei messo la mano sul fornello diverse settimane fa!».
Andrea ignorò deliberatamente il suo sfogo, frenandosi dal risponderle a tono. «La smetti di agitarti? Fammi vedere».
«Perché, vuoi finire l’opera?».
«Dammi quella mano!»  le ordinò, ma in verità ci pensò da sé ad agguantarla, cercando di essere il più delicata possibile, ma il rossore era evidente. «M-mi dispiace…» sussurrò contrita, senza avere l’ardire di incrociare i suoi occhi. «Aspetta, ce l’hai del dentifricio?».
«Ma che razza di domanda è?» si esasperò l’altra, alzando gli occhi al cielo «Vuoi andarti a lavare i denti proprio adesso?».
«E’ per non farti venire le bolle!».
«E questo dove l’hai letto? Sulla scatola dell’Allegro chirurgo?».
«Per tua informazione, il dentifricio contiene fluoro e il fluoro permette…» sbuffò «Ascolta, non lo so cosa fa il fluoro, so solo che funziona e basta».
«Mi sento in ottime mani, davvero in ottime mani».
La strattonò. «Vieni, andiamo da Maria».
«Di Nazaret? Vuoi mandarmi all’altro mondo?».
«Quella dell’infermeria!».
«Da quando abbiamo una infermeria?» domandò Vittoria, seguendola con reticenza.
«Non lo so, magari da quando si sono accorti che a quelli del Classico piace bullizzare le ragazzine nei bagni».
«E spennare i fenicotteri nelle oasi protette, ma smettila una buona volta!».
 
Andrea si sbrigò a rimediare la chiave dell’infermeria nel bugigattolo vicino all’entrata principale, quando la bidella del piano la informò che la signora Maria non era in quel momento presente nell’istituto. Aprì la porta dello stanzino – rimediato evidentemente da un ufficio preesistente – e subito la colpì un forte odore di chiuso. Accese la luce e indicò a Vittoria dove sedersi, su uno dei due lettini presenti nella stanza.
La ragazza obbedì, finendo di digitare con le dita della mano sana- sfortunatamente quella sinistra – un messaggio per Claudia.
 
  • Sono in infermeria, avvisa il professore del mio ritardo. Fra una decina di minuti dovrei essere in palestra.
 
«Ecco» le si avvicinò Andrea, le mani ancora bagnate per essersele lavate nel lavandino vicino alla finestra. Si sedette sullo sgabello di fronte a lei, posando sul letto tutto quello che era riuscita a recuperare: del ghiaccio istantaneo, delle bende, delle fasce, un cerotto, delle forbici e un dentifricio mezzo usato. Si legò i capelli alla buona e Vittoria lasciò che le tastasse il palmo.
«Fa un male cane» borbottò la bionda con una smorfia.
«Lo so…scusami» bisbigliò imbarazzata, spremendole quel che rimaneva della pasta dentifricia sulla pelle. «Brucerà un po’» la avvertì, iniziando a massaggiare sulla parte arrossata.
Vittoria inclinò la testa di lato, ma anche così non riuscì ad incrociare gli occhi di Andrea. «Hai le dita fredde».
«Oh…Mi dispiace. Vuoi continuare tu?».
«No. Quando mi ricapita di giocare al dottore con te? Ahia! Fai piano!».
«E tu smettila di dire scemenze!».
«Cos’è, vuoi forse mettermi fuori gioco anche l’altra mano?».
«Ti ho già detto che mi dispiace, cos’altro vuoi che ti dica? MI-DIS-PIA-CE».
«Se tu mi avessi dato retta a quest’ora non saremmo qui».
«E se tu avessi usato un tono più gentile, io non mi sarei sentita in dovere di fare di testa mia».
«Se tu riuscissi ad essere un po’ più conciliante mi renderesti più semplice essere gentile con te».
«Quando parlavi con Cecille sapevi essere gentile a prescindere» la accusò, lanciandole un’occhiataccia.
«Perché ho sempre l’impressione che tu preferisca Maeries a me?».
«Almeno prima non mi evitavi» borbottò.
«Pensavo saresti stata contenta della mia assenza. Dopotutto era questo quello che volevi, lo hai sempre ammesso».
«Ti sbagli, non ho mai voluto una cosa simile».
«L’ultima volta non mi sembravi particolarmente felice di avermi intorno».
«Per te è tutto semplice, vero? O è bianco o è nero, in mezzo c’è il vuoto cosmico».
«E tu cosa ci vorresti mettere in mezzo, di grazia?».
«Te» sbottò, pulendosi le dita con un fazzoletto e iniziando ad avvolgerle la mano nelle bende. «Io ci metto te. E tutta la confusione che ti porti dietro e che mi metti addosso. Cosa vorresti sentirti dire più di questo, Vittoria?».
«Mi basterebbe se tu riuscissi, per una volta, ad esprimere quello che provi senza trattenerti. Come se qualche estraneo ci stesse riprendendo con una telecamera o, non so, come se temessi di sentirmi usare le tue parole per farti del male».
«Sì, bhe, tu non puoi assicurarmi che non me ne farai. Del male».
«Non voglio ferirti, ragazzina».
«Ha poca importanza quello che dici adesso. Nessuno mantiene quello che promette».
«Non ti ho detto che non ti farò mai del male. Ho detto una cosa più importante: che non voglio fartene. Andrea…fermati, ascoltami» le posò la mano sulla sua, impedendole di continuare la medicazione. «Nessun rapporto è libero dalle incomprensioni o dai litigi, non sempre le persone riescono a fare la cosa corretta e il rischio di provarci è che a volte…anzi, spesso, si sbaglia. Guarda noi».
«Noi non ne facciamo una giusta».
«E a chi importa? Saremo anche un casino, ma nel nostro caos ci capiamo solo noi. Non mi piace dare un nome alle cose Andrea, non lo so cosa siamo e nemmeno mi interessa. Il destino non esiste, la coincidenza neppure, forse non significa nulla il fatto che proprio noi ci siamo avvicinate prima ancora di sapere chi fossimo davvero, salvo poi scoprire che ci saremo incontrate un’infinità di volte senza riconoscerci. Ma se, invece, qualcosa volesse dire? Lo ignoreresti e basta?».
«Non lo ignoro» la contraddisse «Ma…non so che fare. Vittoria, tu vuoi che io mi lasci andare, ma a cosa non lo sai nemmeno tu. Non esiste un banco di prova, non è come leggere uno stupido racconto. Tu non hai mai…ecco…» si sistemò gli occhiali sul naso, lasciando la frase a metà «E poi sei fidanzata e io non mi trovo bene a giocare in squadra».
«C’era solo una cosa sicura nella mia vita ed era Giorgio, sei arrivata tu e hai messo in discussione anche lui. Forse ti troveresti bene a fare squadra solo con me».
«Non sai nemmeno come si gioca a questo gioco».
«Imparo velocemente» sorrise con malizia, sporgendosi verso di lei e sfiorandole la fronte con la propria.
Andrea roteò gli occhi. «Incantevole» borbottò in tono piatto, mentre le avvolgeva l’ultima benda e preparava il ghiaccio.
«Non arrossire così in fretta, non mi lasci il tempo per la battuta».
«Ah-ah-ah. Divertente».
«Lo è davvero».
«Sto ridendo interiormente. Tieni» le allungò il ghiaccio «Se vuoi calmare i bollenti spiriti sai dove metterlo».
«Non ne ho bisogno, ma grazie per l’interessamento. E anche tu mi sei mancata, ragazzina».
«Non ho detto che mi sei mancata».
«No, ma so che è così» le pizzicò la guancia, le labbra distese in un ghigno beffardo, gli occhi vivaci di chi la sa lunga.
La mora accennò un broncio. «Sei molto sicura di te stessa, non è vero?» le domandò in tono contrariato e poco a poco osservò la leggerezza di Vittoria abbandonare il suo sguardo, lasciandolo velato di un certo imbarazzo.
«Non esattamente…» sussurrò, facendo cadere la busta del ghiaccio, cercando con le dita quelle dell’altra. Le portò la mano all’altezza del petto e Andrea sentì sotto la stoffa il battito accelerato del suo cuore. «Ma so nasconderlo bene».
«I-io…» riuscì solo a mormorare confusamente la ragazza, senza sapere se essere più disorientata per il calore che sentiva provenire dal corpo di Vittoria o per gli occhi che aveva in quel momento e che non le facevano desiderare di abbassare lo sguardo.
«Chissà…» ruppe il silenzio la bionda, facendosi più vicina e stringendo la presa sulla mano di Andrea «Viste le circostanze, forse potrei anche ammettere di aver…».
Andrea espirò tutto il fiato che aveva trattenuto fino a quel momento e le tappò la bocca con il palmo. «Te l’hanno mai detto che parli troppo?» chiese e capì subito che la voce la stava tradendo, dando mostra a Vittoria di tutta la sua agitazione. Ritirò le mani.
«Di solito non è la prima cosa che mi dicono».
«E cosa ti dicono?».
«Non lasciano molto spazio alle parole».
Si preparò per risponderle a dovere, ma non le sovvenne nessuna battuta sarcastica e per una volta non le importò avere la meglio. «Questa mi sembra una buona idea…» riuscì a dirle infine. Le sfiorò la guancia con la sua, il naso con il suo, e Vittoria non la fermò. Si incontrarono le labbra, la bocca si schiuse contro la sua e i dubbi e le reticenze che le affollavano la mente si dileguarono quando Vittoria, impaziente, si abbandonò completamente a lei. Le insinuò una mano tra i capelli, tenendole la testa per baciarla più a fondo e Andrea sentì sulla lingua il sapore amaro del caffè. Quado glielo disse, mormorandolo a stento sulle sue labbra, senza staccarsene del tutto, l’altra le rispose: «A te non piace il caffè».
«Farò un’eccezione per questa volta…».
«Non potrei essere più d’accordo» la viziò, ma prima di poterla baciare ancora una volta un rumore di passi sopraggiunse dal corridoio, chiaro e spedito, e senza preavviso la porta dell’infermeria venne spalancata.
«Vicky» la chiamò allegramente una voce e la figura di Claudia si materializzò «Sciagurata, ma dove sei…finita?». La ragazza terminò la frase, ma il volume della voce, in decrescendo, non lasciava margine di dubbio su che cosa i suoi occhi avessero visto, se mai la sua espressione avesse lasciato dei dubbi.
Come colte in flagranza di reato, Vittoria e Andrea trasalirono, separandosi all’istante.
La bionda si schiarì la voce. «Claudia, sì, io stavo per arrivare».
«Sì…» la ascoltò appena l’amica, inebetita e attonita, il corpo immobile, tutte le sue attenzioni rivolte all’unica persona che non avrebbe mai immaginato di poter trovare in quella stanza. «Io…lo vedo» incespicò incontrando gli occhi di Andrea. «Emhm, ero preoccupata, ti ho mandato un messaggio».
«Scusami, non l’ho visto».
«Già, immagino…».
Per Andrea fu come se una scossa di corrente le avesse attraversato la spina dorsale. Piantò i talloni bene a terra, sentendosi venir meno il pavimento sotto ai piedi. Sentì caldo, se per Vittoria o per Claudia non avrebbe saputo dirlo, ma il biasimo che leggeva negli occhi di quella ragazza la faceva adirare e sentire colpevole allo stesso tempo.
Incredibile come ancora, dopo tutto quel tempo, la sua vista fosse sufficiente a farla morire dentro.

 

Ps: Ah, malfidate! Avete visto che con solo cinque mesi di ritardo ho infine aggiornato anche questa storia? Spero come sempre che l'attesa sia stata ripagata a dovere. Un ringraziamento è d'obbligo per tutte quelle persone che mi seguono e che trovano il tempo per lasciare un commento e anche per quelle che mi hanno scritto in pvt per avere aggiornamenti. Vi lascio con il link della canzone che mi ha ispirato questa storia, da brava djay improvvisata: 
https://www.youtube.com/watch?v=4l7fhxNrrrM
 
   
 
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