Camminavano
fianco a fianco per le vie
della città. Le luci colorate delle vetrine si riflettevano
sul
marciapiedi umido, l'aria puzzava di hot dog bruciati e gas di
scarico e faceva così freddo che ogni loro respiro si
trasformava in
una nuvoletta bianca.
Lui era abituato a quelle temperature,
aveva vissuto all'estero per parecchi anni prima di tornare in
America, stabilendosi anche in luoghi inospitali per la maggior parte
della gente comune.
Lei invece aveva indossato i guanti, la
sciarpa e un cappotto pesante, ma sembrava comunque in procinto di
congelare. Le mise un braccio attorno alle spalle senza nemmeno
pensarci e quando se ne rese conto fece per sollevarlo, ma lei gli
artigliò la mano e si strinse ancora di più al
suo fianco.
Non
gli era mai successo di camminare abbracciato a qualcuno, era come
avere un corpo e quattro gambe. Era scomodo, ma i capelli di Malia
profumavano di lavanda.
«Perché sorridi?» gli domandò.
Il
trucco le si era un po' sbavato, ma le labbra luccicavano rosse come
ciliegie anche senza rossetto. D'istinto lui morse le proprie e
deglutì pesantemente.
«Be', perché puzzi di vino rosso»
rispose, evitando il suo sguardo indagatore.
Malia si finse
oltraggiata e lo spinse via con un sorriso.
«Sei davvero
crudele!»
«Ah, sarei io il cattivo?» ricambiò il
sorriso
sbarrandole la strada.
Si guardarono negli occhi, finché
entrambi non tornarono seri.
«Cos'è successo nel bagno degli
uomini?» gli chiese lei a bruciapelo.
«Abbiamo parlato e gli ho detto che
dobbiamo vederci» disse e riprese a camminare svelto. Malia
quasi lo
inseguì per tenere il passo.
«Non ci credo!»
«Credici, mi ha
dato un appuntamento».
«Cosa? E pensi che sia prudente?!»
Slevin si guardò alle spalle, in mezzo ai taxi gialli
spiccava
un'auto con i vetri oscurati.
«Non può essere peggio di quello
che mi aspetta nella busta numero 2, ma sarà dura. Devo aver
beccato
una coda di porco».
La macchina era sempre più vicina, così
prese Malia per mano e la spinse nella rientranza della vetrina di un
negozio di abbigliamento.
«Una che?»
«La polizia».
«Che?! Dove, nel bagno?»
«Già, c'era uno sbirro
ficcanaso. A quanto pare mi sta tenendo d'occhio» si sporse
fuori
giusto in tempo per vedere l'auto scura passare oltre.
«Per questo ci nascondiamo qui?»
«Vieni!» la prese di nuovo per mano e la
trascinò via.
Malia
lo seguì per alcuni metri, poi gli passò davanti
facendo una
piccola piroetta, costringendolo a fermarsi. Poggiò le mani
coperte
dai guanti sul suo petto e Slevin le passò le braccia
attorno ai
fianchi.
«Cadaveri nei frigoriferi, poliziotti nel bagno degli
uomini... mi fai venire in mente James Bond».
Lui spalancò gli
occhi meravigliato e sorrise apertamente, stringendola un po' di
più.
«Lo sai che è la cosa più bella che mi
abbiano mai
detto?»
Malia ridacchiò in imbarazzo e sciolse l'abbraccio
riprendendo a camminare, come se nulla fosse accaduto, come se pochi
sguardi non avessero già detto tutto quello che loro due
continuavano a nascondere.
«Il Boss potrebbe essere Kananga»
disse con il solito tono sbarazzino, strappandogli un
sospiro.
«Kananga? No, il Boss non è Kananga».
«E allora
chi è?»
«Mmh... direi Ernst Stavro Blofeld».
«E quale?
Donald Pleasence? Telly Savalas? Max von Sydow?» chiese lei
entusiasta.
«Sei una fan di Bond, eh? Purtroppo pensavo a Anthony
Dawson, era Blofeld in “Dalla Russia con
amore”».
«Aaah, ma
non gli si vede mai il viso in quel film!»
«Ed è così che il cattivo funziona
meglio: quando non sai che faccia ha» le fece
l'occhiolino.
Giunsero
davanti alle porte ai loro appartamenti in meno
tempo del previsto, nonostante avessero deciso di proseguire a piedi,
ignorando la fila di taxi che scorreva regolare in strada.
Malia
prese le chiavi dalla borsa, ma si appoggiò allo stipite
rigirandosele tra le dita.
«Allora... ehm, ci vediamo» disse
lui, dandole le spalle per aprire la porta.
La sentì fare
altrettanto, mentre si dava mentalmente dell'imbecille per non averla
invitata a entrare.
Fece un passo dentro casa di Nick, ma quando
si voltò per un'ultima occhiata vide che quella di Malia era
aperta.
Nel salotto dalle pareti rosse la luce era soffusa e la
pericolosa ragazza della porta accanto si stava liberando da tutti i
pesanti vestiti, con un sorriso languido che si allargò
quando lui
se ne accorse.
Prima i guanti, poi la sciarpa, il cappotto rosso e
infine abbassò una spallina del vestito nero, fino a
mostrare il
pizzo del reggiseno.
Con il cuore in gola Slevin richiuse in
fretta e furia la porta del suo appartamento e si fiondò in
quello
di Malia, sbattendo così forte anche la sua porta da farla
tremare
sui cardini.
La baciò con urgenza, mordendole le labbra e
rubandole ogni respiro, mentre lei gli strappava via i bottoni della
camicia, ricambiandolo con la stessa foga.
Non aveva mai sentito una connessione
così profonda con nessuna delle poche ragazze conosciute
nella sua
solitaria esistenza. Lei era unica, era speciale, era la compagna che
non si sarebbe mai aspettato di desiderare. Abbassò la
cerniera del
vestito e la liberò – con qualche
difficoltà – dal grazioso
corsetto di pizzo nero. Malia smise di baciarlo e fece un passo
indietro, coprendosi il petto con le mani, ma senza smettere di
guardarlo con bramosia.
Lui strinse i denti per imporsi contegno,
incapace di nascondere il desiderio crescente che lo animava. Quel
gesto, il rispetto dimostrato, bastò a Malia per tornare sui
suoi
passi.
Tolse le scarpe col tacco e lo raggiunse in punta di piedi,
poi in silenzio gli accarezzò il viso e Slevin si
lasciò cullare
dal suo tocco leggero a occhi chiusi. L'altra mano nel frattempo
scese sul petto e finì il suo percorso sulla cerniera
semi-aperta
dei pantaloni. Emise un gemito più forte degli altri quando
lei lo
aiutò ad abbassarli e se ne liberò scalciandoli
via assieme ai
calzini.
Erano entrambi coperti solo dagli slip, a lui serviva
solo l'ultimo cenno di assenso. Lei lo capì,
perché lo prese per
mano e lo condusse in camera da letto e con delicatezza lo fece
sedere sul materasso, mettendosi a cavalcioni sopra di lui.
Le
lasciò prendere il controllo, consapevole che sarebbe stata
lei la
prima a cedere a quella dolce tortura a cui stava sottoponendo
entrambi. Erano andati di fretta fin da subito e sembrava che Malia
volesse recuperare settimane di conoscenza prolungando all'infinito
il preludio all'atto principale.
Slevin accolse uno dei seni sul
palmo della mano, mentre con la bocca scese a baciare l'altro; Malia
gettò la testa indietro, tirandogli i capelli all'altezza
della
nuca.
I loro corpi si incontravano al ritmo della danza di Malia,
finché Slevin non decise di averne abbastanza e, con una
mossa
rapida, la fece stendere sotto di lui.
Ansimante e poco lucido, si
prese comunque del tempo per ammirare il volto arrossato,
incorniciato dai capelli arruffati, e gli occhi che gli restituirono
uno sguardo infuocato.
Scese a baciarle le labbra gonfie e
fece scivolare una mano tra le sue gambe, che si schiusero per lui.
Malia emise un urletto strozzato, inarcando la schiena per
approfondire quel contatto e allora Slevin la liberò
dall'ultimo
ostacolo. Lei fece altrettanto, aiutandolo a togliere i boxer.
Erano
entrambi al limite della sopportazione, Malia però
accennò un
sorriso e lo accarezzò fino a strappargli un vero gemito di
piacere,
fu solo allora che allungò una mano verso il comodino e
prese un
condom. Slevin si morse l'interno della bocca e strinse i pugni
contro il materasso, mentre lei lo posizionava con studiata calma.
Era pronto ad afferrarle le mani per bloccargliele sopra la testa, ma
a sorpresa Malia lo guidò, indicandogli la via.
Si rese conto di aver trattenuto il
respiro solo quando lei lo accolse dentro di sé e poi l'aria
divenne
sempre più rarefatta e lui si sentì ubriaco e con
la testa leggera.
Aveva voglia di ridere e di urlare, di dimenticare chi era, cosa
aveva fatto e cosa sarebbe stato costretto a fare, aveva voglia di
lasciarsi andare, inebriarsi di lei fino a fondersi con il suo
battito cardiaco. Nelle orecchie aveva solo la sinfonia dei loro
respiri, il ritmico scontrarsi dei loro bacini e l'imbarazzante
cigolio del materasso.
Malia si aggrappò alle sue spalle e un
gemito di dolore si unì a quelli di piacere quando
sentì le sue
unghie graffiargli la pelle.
Guidato dall'istinto più che dalla
ragione, le fece sollevare le gambe facendo pressione sotto le
ginocchia e aumentò il ritmo, mentre goccioline di sudore
gli
imperlavano la fronte.
«Oh, Slevin!» urlò lei in preda
all'estasi più profonda.
Il piacere li travolse infine come
un'esplosione di fuochi d'artificio e lui cadde esausto sopra di lei,
la guancia poggiata sul cuore da colibrì.
Rimasero
in quella posizione per un
tempo indefinito, Malia gli carezzava i capelli umidi e lui si
lasciava coccolare come mai prima di allora. Era una bella
sensazione, come stare dentro una soffice nuvola di zucchero filato
in un posto sperduto, dove nessuno avrebbe potuto trovarli.
«Sai,
stavo pensando che noi due abbiamo appena fatto l'amore»
disse,
posandole un bacio sul collo.
Malia ridacchiò.
«E te ne
accorgi solo adesso?»
Rotolò di lato e si stese al suo fianco
per poterla guardare negli occhi. Malia tirò su il lenzuolo
per
coprirsi e poggiò la testa sulla sua spalla.
«No, è che ancora
non so a chi ti riferivi quando hai detto che ti ricordavo James
Bond. È la cosa più bella che mi abbiano mai
detto, ma ho dato per
scontato naturalmente che...»
«Hai dato per scontato di sapere a
chi mi riferissi» disse, disegnando con le dita dei ghirigori
sul
suo petto.
«Se non stavi parlando di chi io penso che tu stessi
parlando, allora mi devi aver scambiato per qualcun altro,
perché
per me esiste un solo James Bond».
«Ah, su questo siamo
d'accordo».
«Ok, allora diciamo insieme al mio tre. Uno...
due... tre. Roger Moore!»
«George Lazenby!»
«Cosa? Roger
Moore? Io stavo scherzando!»
«E tu con Lazenby? Stavo scherzando
anch'io. L'unico vero James Bond è... Timothy
Dalton».
«Pierce
Brosnan!»
Entrambi scoppiarono a ridere e poi Malia gli sussurrò
all'orecchio: «Scozia forever».
«Wow, mi sento molto meglio,
davvero» rispose, passandole un braccio attorno alla vita.
Nessuno
poteva competere con la classe scozzese di Sean Connery, nemmeno quel
palestrato di Daniel Craig.
Dormirono abbracciati finché la luce azzurrina del
mattino non inondò la
stanza.
Avrebbe preferito guardarla dormire, ma anche lei doveva
essere un tipo mattiniero perché aprì gli occhi
proprio mentre lui
si stava rimettendo i pantaloni.
«Buongiorno, piccolo raggio di
sole» disse sottovoce, dandole un bacio sulla fronte.
Malia
aggrottò le sopracciglia contrariata e si
stiracchiò.
«Risparmiatelo
per dopo, quando avrò recuperato l'aspetto di un essere
umano».
«Perché mai? Non vedo alcuna differenza».
«Vuoi
dirmi che il mio alito non ti disturba? Dovrei comprare delle mentine
se...» provò a dire, ma lui interruppe la battuta
sul nascere,
baciandola sulle labbra.
Malia saltò su a sedere sorpresa e gli
mise le mani sul petto per allontanarlo.
«Che fai? Non mi sono
ancora lavata i denti».
Il lenzuolo le si era aggrovigliato
attorno ai fianchi e quel movimento brusco la fece rimanere di nuovo
nuda. Mise i piedi giù dal letto per alzarsi, ma lui si
inginocchiò
fra le sue gambe e riprese a baciarla, lento e calmo come se la sua
bocca fosse un dolce particolarmente goloso.
«Nemmeno io e
sinceramente non m'importa» le disse poi a fior di labbra.
Malia
sorrise diventando rossa come le pareti del suo salotto.
«Sei
proprio strano. Sei la persona più strana che conosca... in
senso
buono, ovviamente!» si affrettò a precisare.
«Be' ma io sono
James Bond, non potrei essere normale neanche volendo» si
strinse
nelle spalle, poi si alzò e prese le scarpe.
«Dove vai?»
«Vado
a prendere il caffé».
«E le ciambelle» aggiunse lei.
«E le
ciambelle» confermò sorridendo, mentre si
abbottonava la
camicia.
«Con la glassa!» gli urlò dietro quando
era ormai sul
pianerottolo.
Fuori
dal palazzo, ai due lati della
strada, c'erano appostati i soliti scagnozzi del Boss e del
Rabbino.
Fece un cenno di saluto a Elvis senza farsi vedere dagli
altri e, quando si rese conto che lo stavano solo tenendo sotto
controllo, si incamminò verso la caffetteria più
vicina.
Passò
accanto a una vecchia cabina telefonica, non si accorse del tipo che
fingeva di fare una chiamata finché non gli puntò
una pistola alla
schiena intimandogli di fermarsi.
«Fermo, polizia» gli disse
mentre lo spingeva sul ciglio della strada, dove era parcheggiato un
vecchio furgone di una ditta di riparazioni.
Il portello
posteriore si aprì e lui venne spinto dentro senza troppe
cerimonie.
Il poliziotto che aveva conosciuto la sera prima lo
stava aspettando impassibile, con le braccia incrociate al petto.
Quando l'altro lo fece a sedere su una delle sedie, diede due colpi
al furgone e quello partì. Era in trappola.
«Buongiorno, sono
l'agente Parrish e quello lì è il detective Peter
Hale» disse il
suo finto aggressore.
«Buongiorno agente Parrish, mi avete appena
rapito?» chiese con il suo solito tono spavaldo.
«No, vogliamo
solo fare due chiacchiere tra amici con te» rispose il
detective
Hale.
«E questa è la procedura standard nel manuale
dello
sbirro, alla voce “due chiacchiere tra
amici”?»
«No, non c'è
una procedura standard per il casino in cui ti sei infilato»
disse
Parrish.
«Ah. E di che volete parlare?»
«Di
te» disse Peter.
«Mmm... ok! Che volete sapere?»
«Chi
sei?»
«Filosoficamente?»
«No, il tuo
nome».
«Ti conviene stare in squadra» chiarì
Parrish seccato.
«Be', voi contro chi giocate?»
Il
detective Hale non disse nulla, gli sferrò un pugno nello
stomaco
che gli mozzò il fiato. Tossì in cerca d'aria,
tenendosi stretto la
pancia per non vomitare.
«Come ti chiami?»
«Ah, sì ora mi
ricordo» rispose con un filo di voce. «Sono Slevin,
Slevin
Kelevra».
«Senti ragazzo, non so che sta succedendo né
perché
ci sei dentro, ma ti assicuro che se riuscirò a capire quel
che c'è
da capire, non sarò così gentile con
te» lo minacciò Hale.
«Se
questo è essere gentili, non farmi mai favori».
«Questa è l'ultima possibilità che
hai di parlare».
Slevin guardò entrambi i poliziotti con un
sorriso strafottente stampato in faccia e nessuna voglia di aprire
bocca. Loro erano la legge e la legge diceva che non potevano
costringere nessuno a fare un bel niente senza prove
convincenti.
Peter sospirò spazientito e lo tirò su per la
giacca.
«Vai a farti un giro» disse gettandolo
giù dal furgone
in corsa.
*
La notte appena passata era stata
la più intensa che avesse mai vissuto in tutta la sua vita.
Non
poteva credere di aver conosciuto un tipo come Slevin, era convinta
che certe cose accadessero solo nei film, eppure lui era lì,
era
reale e lei si stava impelagando in una situazione più
grande di se
stessa.
Il suo vicino Nick era scomparso,
Slevin era conteso tra i due gangster più pericolosi della
città e
lei era a un passo dal restarne invischiata.
Lasciò che il getto d'acqua calda
lavasse via il sapone alla lavanda, la stanchezza e l'agitazione.
Si
avvolse nel suo accappatoio verde menta e tornò in camera da
letto
per spazzolare i capelli che Slevin aveva impunemente aggrovigliato.
Doveva ricordargli di andarci piano la prossima volta...
Proprio
mentre formulava quel pensiero, Slevin entrò
nell'appartamento e la
raggiunse.
Aveva il volto cereo del malessere – alla faccia
dell'atarassia.
«Ehi, ci hai messo una vita. Tutto bene?» mise
giù la spazzola e gli andò vicino.
Slevin poggiò i due caffé
sul comò e incrociò le braccia al petto
pensieroso.
«Sì, tutto
bene».
«Ne sei sicuro? Sei bianco come un cadavere e io me ne
intendo, visto che sono un medico legale» disse
accarezzandogli il
viso.
Lui sospirò e prese a muoversi in cerchio attorno alla
stanza senza darle spiegazioni.
«Senti, non c'è bisogno di
farla tanto lunga. Se pensi che quello di ieri sera sia stato un
errore, va bene, ma per favore non girarci attorno. In tutti i
sensi».
Quelle parole ebbero l'effetto di riportare Slevin nel
mondo dei vivi, ma non nel modo in cui si sarebbe aspettata.
Attraversò la stanza in poche falcate,
le prese il volto tra le mani e la baciò come se quella
fosse
l'ultima volta, arrivando a gettarla sul letto come se fosse una
bambola.
«Ti devo dire una cosa».
*
Malia
era uscita per andare al lavoro.
L'aveva vista andare via con il cuore in gola, ma non poteva
impedirle di vivere la sua vita per restare accanto a lui.
Tornò
nel suo appartamento a malincuore, fece una doccia e mangiò
un altro
dei suoi tristi panini. Non aveva molto da fare, perciò
passò il
resto della mattinata a fare zapping in tv.
Era da poco passata
l'ora di pranzo, quando qualcuno bussò alla porta.
«Ragazzi, che ci fate qui?» chiese a
Elvis e Lento.
Il primo gli sbatté in faccia un vestito dentro
una custodia nera.
«È il momento e il Boss ti vuole elegante per
la Fatina. Muoviti a vestirti, se non vuoi che ti portiamo nudo
all'appuntamento».
«Ma se hai appena detto che il Boss mi vuole
elegante!»
«Senti, non ricominciare!» gli puntò
il dito contro, pronto a sferrargli un altro pugno sul naso.
«Ok,
va bene, non c'è bisogno di scaldarsi tanto»
sollevò le mani in
segno di resa.
Indossò l'abito scuro, con tanto di cravatta e
pochette di seta, e fu scortato fuori fino all'auto.
Una volta
giunto in strada vide la macchina dei tirapiedi del Rabbino: c'erano
due fori nel parabrezza e loro giacevano scomposti sui
sedili.
«Smettila di guardarti intorno e sali in macchina!»
gli
disse Elvis.
«S-sì, scusa».
«E smettila di sembrare così
tranquillo, lo sappiamo che sei un pivellino al primo omicidio che se
la sta facendo addosso. Mi metti ansia con quel tuo sorrisetto del
cazzo!» continuò a rimproverarlo una volta che
furono in
macchina.
L'appartamento di Yitzchok si trovava in un moderno
ed elegante palazzo in centro, nella zona dei super ricchi, la
famosissima Upper East Side.
Slevin attraversò i corridoi in
punta di piedi, quasi temesse di far rumore con la sua
normalità.
«Ehi, sei in anticipo» gli disse con tono suadente
il figlio del Rabbino, quando lo vide.
«Posso entrare?»
«Ma
certo, vieni pure» si fece da parte per lasciarlo passare.
Slevin
entrò e poggiò la porta sullo stipite senza
chiuderla.
Capelli
ricci, naso adunco su cui erano posati occhialetti rettangolari dalla
montatura leggera, fisico mingherlino da ranocchietto gracile. Il
figlio del Rabbino gli fece quasi pena.
«Versati da bere, io mi
stavo preparando. Mi devi scusare, non ti aspettavo così
presto.
Vuoi un po' di vino? Sai, stai benissimo» disse un po'
agitato.
Slevin ricambiò lo sguardo, sperando di non lasciar
trasparire
nulla.
«C'è qualcosa che non va?»
«Qualcuno vuole
ucciderti» gli disse guardandolo dritto negli occhi.
«Cosa?
Chi?» chiese l'altro incredulo.
«Io» ammise con candore, poi
tirò fuori la pistola con il silenziatore e gli
sparò due colpi al
petto.
Yitzchok cadde senza emettere un suono, mentre il sangue
colava copioso sulla moquette chiara.
Si abbassò per sincerarsi
che fosse morto, ma il suono di un grilletto alle sue spalle gli fece
gelare il sangue nelle vene.
Argent era lì, proprio dietro
di lui, indossava il suo solito impermeabile color sabbia e teneva in
mano una pistola identica alla sua. Sollevò il braccio e
sparò un
colpo dritto in mezzo agli occhi di Yitzchok, mettendo fine alla sua
agonia poco prima che premesse il pulsante sulla catenina.
«C'è
mancato poco» disse gelido, lanciandogli le chiavi di una
macchina.
«Quasi» rispose Slevin afferrandole al volo.
«Scendi
giù a prenderlo, qui finisco io».
C'era una parete grande e
spoglia in salotto, Argent avvicinò l'orecchio e
sentì due uomini
ridere e parlottare: i due ex Mossad al servizio del Rabbino.
Strappò
la catenina dal collo di Yitzchok, si posizionò di fronte
alla
parete, premette il pulsante e poi si preparò impugnando la
sua
pistola e quella di Slevin.
Come previsto, le guardie sfondarono
la parete di cartongesso con i loro mitra carichi, ma vennero
freddati dai proiettili di Mr. Goodkat prima di poter capire cosa
stesse accadendo.
Slevin tornò nell'appartamento insieme a una
grossa valigia nera, la posò a terra e guardò il
disastro di
calcinacci e cadaveri.
«Quasi» disse di nuovo con il suo tono
impassibile.
Aprì il bagaglio e tirò fuori il cadavere
congelato
di Nick Fisher, scambiò il suo vecchio orologio con quello
alla moda
di Nick e poi lo trascinò accanto al corpo di Yitzchok.
Completarono
quel macabro quadretto cospargendo tutta la cucina e il salotto di
benzina, poi accesero un fiammifero e corsero via.
Salirono in
macchina giusto in tempo per vedere l'esplosione dell'appartamento
del figlio del Rabbino, la cui unica colpa era proprio essere figlio
del Rabbino.