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Autore: TheSlavicShadow    30/12/2021    0 recensioni
C'era un'idea. Stark ne è informato. Si chiamava "Progetto Avengers". La nostra idea era di mettere insieme un gruppo di persone eccezionali sperando che lo diventassero ancor di più. E che lavorassero insieme quando ne avremmo avuto bisogno per combattere quelle battaglie per noi insostenibili. [Nick Fury]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Wherever you will go'
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Maggio 2009

 

Si era svegliata madida di sudore e di soprassalto. Aveva il fiato corto come se avesse corso la maratona con tutte le forze che aveva ed ora il cuore le stesse per scoppiare nel petto. Lo sentiva martellare fino nelle tempie. Aveva guardato in basso, le proprie mani, e tremavano. Aveva cercato di chiuderle a pugno perché non sopportava di vedere le proprie dita così tremanti, ma non ci riusciva. Continuava a tremare e cercare di riprendere fiato. Sentiva anche pizzicare gli occhi da quelle che sapeva essere lacrime. 

Non era la prima volta che le capitavano risvegli simili. Ci conviveva da anni ormai, ma non erano mai piacevoli. Cercava di riprendere fiato, di rilassare tutti i muscoli contratti del suo corpo, ma non ci stava riuscendo. 

Non la aiutava il buio della stanza, la cui unica luce proveniva dal suo reattore arc. 

Gli attacchi di panico notturni non erano nulla di nuovo. Li aveva sin da quando era tornata a casa dall’Afghanistan. Stava ancora cercando di imparare come conviverci decentemente e ora si aggiungeva lo spazio aperto a darle il tormento. Quello che sarebbe dovuto essere il traguardo massimo a cui aspirare per ogni scienziato, per lei si stava trasformando in un incubo. Uno di quelli davvero brutti. Uno di quelli da cui vuoi svegliarti ma non ci riesci in alcun modo. 

Aveva lentamente, molto lentamente ripreso fiato. Il suo cuore si era calmato e non le martellava direttamente nel cervello. Aveva messo a fuoco le proprie mani illuminate dal reattore. Vedeva la coperta che stringeva tra le mani. I suoi occhi si stavano abituando al buio e stava lentamente mettendo a fuoco i contorni dei mobili della stanza.

Era la sua vecchia stanza. Era a Long Island. Era il 2009. Mancavano poche settimane al suo compleanno. In casa con lei c’erano Bruce Banner, Thor Odinson, Natasha Romanoff , Clint Barton e Steve Rogers.

Steve Rogers era nella stanza di fronte alla sua. Le bastava alzarsi e andare a bussare alla sua porta. Le avrebbe dato conforto sicuramente. Steve era una brava persona e se lei ne avesse avuto davvero bisogno non le avrebbe mai negato il suo aiuto. Di questo era certa più che mai. 

Steve Rogers era dall’altra parte del corridoio. Stavano entrambi bene. Erano entrambi vivi.

Steve Rogers era lì con lei. 

Non assieme a lei. No, quello non più. Non le importava in quel momento. Ma Steve era lì. Non se ne era andato e le aveva parlato. L’aveva ascoltata. L’aveva abbracciata. 

Steve Rogers era lì.

Un leggero bussare alla porta l’aveva riportata nella stanza distogliendola dai suoi pensieri. 

“Tasha, va tutto bene?”

Steve Rogers. Quella era la voce di Steve Rogers. Calma, ma preoccupata. Odiava il fatto di riuscire ancora a riconoscere così bene le sue emozioni dal semplice tono di voce.

“Sì. Bene. La porta è aperta.” Si era passata una mano sul viso e non sapeva nemmeno lei perché esattamente glielo avesse detto. O meglio, lo sapeva ma non voleva pensarci. Non in quel momento, né mai. Voleva solo vedere Steve. Voleva solo essere sicura di essere ancora a Long Island davvero e non in un posto lontano mille milioni di anni luce da casa. Non voleva che tutto quello che aveva di fronte agli occhi fosse solo un’illusione creata dal suo cervello ancora sotto shock. 

“Brutti sogni?” Steve aveva aperto la porta ed era rimasto sulla soglia. Non aveva stranamente mosso un passo verso di lei, come avrebbe fatto in passato, e non ne era stupita. Avevano parlato, si erano chiariti, ma avevano messo spazio tra di loro. 

“E’ un eufemismo definirli brutti.” Si era passata una mano sugli occhi. Era patetica, vero? Non sapeva in che altro modo definirsi. Quasi 30 anni e svegliarsi nel cuore della notte perché aveva brutti sogni.

“Ti preparo un tè caldo? Lo beviamo sul divano come ai vecchi tempi?”

Aveva espulso troppa aria dal naso, in quella che doveva essere una risata, ma le era uscita male. Erano tutti pattern visti e rivisti all’infinito. Programmati, come se fossero due robot, a ripetere le stesse azioni e gli stessi errori in continuazione. Un bug del sistema che nessuno aveva mai sistemato a dovere e che portava sempre ad un errore finale che non si sapeva come risolvere. 

“Perché no? Tanto non riuscirò a dormire nemmeno volendo.” Si era alzata dal letto e si era stupita che le sue gambe l'avessero retta. Aveva tremato così tanto appena sveglia che aveva temuto non sarebbe riuscita ad alzarsi. 

“Stai bene?” Steve sembrava ancora più preoccupato ora che gli si era avvicinata e lo vedeva alla luce del corridoio. Le aveva appoggiato una mano sulla schiena, come se fosse pronto a prenderla se fosse caduta o qualcos’altro. 

“Sempre.” Aveva cercato di sorridere, ma il sorriso era morto sulle sue labbra come era nato. Era una stronzata. Non stava bene e Steve era l’unica persona a cui non sarebbe mai riuscita davvero a mentire, soprattutto su quello. Vedeva oltre le sue maschere, anche se faceva finta di nulla. “Solo incubi, Capitano. Troppi per una sola notte. Ma è arrivato il mio principe azzurro dalla scintillante armatura in soccorso.” Si era passata una mano sugli occhi all’ultima frase. Era uscita senza che accendesse il filtro cervello/bocca e se ne pentiva. “No, scusami. Era inopportuna come battuta. Sono solo stanca e sto dicendo un mucchio di stronzate.”

“Sono abituato a cose ben peggiori da te.” Le aveva sorriso e le aveva accarezzato lievemente la schiena. Steve ci teneva ancora a lei. Questo era chiaro anche a lei e senza che terze persone dovessero farglielo notare. Non aveva scelto a caso la stanza di fronte alla sua. Era per poter intervenire in caso di bisogno, proprio come aveva fatto. La conosceva bene, meglio di chiunque altro e sapeva che c’erano moltissime cose che non diceva. “Aspettami sul divano mentre preparo il tè."

“Sai che lo correggerò con del whisky, vero?” Si era mossa verso le scale e le aveva scese con la mano di Steve sempre sulla sua schiena. Era rassicurante. Era così dannatamente rassicurante che le dava quasi fastidio. Perché doveva essere ancora Steve Rogers a darle tutta quella sicurezza? Perché non riusciva a trovarla in qualcun altro o in sé stessa? 

“Non te lo vieterò di certo io stavolta. Anzi, potrei quasi chiederti di allungare anche il mio té.”

Aveva scosso la testa, sorridendo, mentre si avviava al soggiorno. Aveva sentito i passi di Steve proseguire fino alla cucina, la porta aprirsi e subito dopo il rumore delle ante delle credenze mentre cercava tazze e bustine del tè. Nel silenzio della notte aveva sentito nitidamente lo scorrere dell’acqua. Era rilassante. Era stupidamente rilassante. Anche solo l’idea di non essere da sola in casa era confortante. 

Si era svegliata da sola troppe volte negli ultimi due anni e spesso non era stato piacevole. Quando nel cuore della notte si svegliava come aveva appena fatto ed era da sola, la sensazione di panico non svaniva così velocemente. Le ci volevano molti minuti e la voce di J.A.R.V.I.S. che le ripeteva più e più volte dove si trovasse, che data fosse, l’ora. Un loop continuo fino a quando il suo cuore non smetteva di battere nelle sue tempie e lei finalmente si calmava e respirava. Non era facile quando era da sola. E lo era stata molto spesso. Nonostante fosse uscita con qualcuno in quei due anni, raramente ci aveva passato tutta la notte. Con Johnny Storm compreso. Vecchie abitudini di non svegliarsi mai accanto alle conquiste occasionali.

“Tu invece perché sei sveglio? Ti ho svegliato io?”

“Ero già sveglio quando ti ho sentito urlare.” Steve aveva appoggiato le tazze sul tavolino di fronte al divano e lei non aveva esitato a versare subito del whisky in entrambe. A Steve non piaceva quando beveva. Glielo aveva detto una notte mentre erano seduti allo stesso modo sul divano e le aveva raccontato di suo padre. Un altro padre che beveva troppo e questo aveva traumatizzato il piccolo Steve. Al contrario di lei che aveva preso la brutta abitudine di Howard e l’aveva fatta sua, per quanto sbagliata potesse essere. “So bene quanto gli incubi possano essere poco piacevoli.”

“Sogni ancora il ghiaccio?” Si era seduta sulla poltrona in modo tale da lasciare dello spazio tra di loro, lasciando il divano tutto per Steve. Non sembrava averci fatto caso, o se lo aveva fatto non le aveva detto nulla. 

“Spesso. Non come dieci anni fa, ma mi capita ancora. Ma non è solo il ghiaccio. C’è la guerra, c’è Bucky, e ci sei anche tu a volte.” Si era messo comodo sul divano, prendendo la tazza tra le mani e guardandola. Aveva corrugato leggermente le sopracciglia, come se anche lui si fosse pentito delle parole appena pronunciate. Ma erano discorsi da 3 di notte. Erano quelle conversazioni che non sarebbero uscite da quelle mura e di cui nessuno avrebbe più riparlato. Ne avevano avute molte nel corso degli anni. Sedute di terapia senza specialista, che rimanevano dei segreti della notte. Le avevano avute ancora prima di essere una coppia. E le stavano avendo ora che non lo erano di nuovo più.

“Prima sognavo solo la grotta e la sabbia. Non riesco ancora a mettere i piedi sulla sabbia senza avere un attacco di panico. E non farò mai nella vita speleologia, credimi.” Aveva bevuto un piccolo sorso di liquido bollente. Era piacevole. Le sembrava che la stesse scaldando tutta. “Ora si sono aggiunti il gelo ed il buio. Non riuscirò più a dormire con la luce spenta, temo. E forse nemmeno a guardare Alien. Magari quella merda esiste davvero e non ci voglio entrare in contatto. No, grazie.”

Steve le aveva sorriso. Si era sicuramente ricordato di quando gli aveva fatto vedere Alien la prima volta e di quanto ne fosse disgustato. 

E poi erano rimasti in silenzio. Ognuno con la propria tazza in mano, la fissavano in assoluto silenzio. E lei odiava il silenzio. Parlava sempre solo per riempire quel vuoto che si creava. Le metteva disagio. Le metteva quasi paura. Il silenzio era sempre assenza di qualcosa e a lei le assenze non piacevano. Anche se poi faceva sempre finta del contrario. Natasha Stark non aveva mai bisogno di altre persone accanto, ma i suoi robot erano solo una patetica imitazione di compagnia. Per non parlare di J.A.R.V.I.S. la cui voce era quella del vecchio maggiordomo di casa Stark. Patetica era dir poco sui suoi comportamenti per combattere la solitudine.  

“Sei convinta di voler rendere ufficiali gli Avengers?” Aveva voltato leggermente la testa verso Steve. L’uomo la guardava con uno sguardo che questa volta non sapeva come interpretare. Serio. Curioso. Rassegnato. 

“La Stark Tower ha diversi piani vuoti, possiamo usarla come quartier generale. Posso anche fornire degli alloggi privati per tutti. So che lo S.H.I.E.L.D. vi offre un alloggio e magari tu, Natasha e Clint siete a posto, ma Banner e Thor non credo abbiano una casa negli States. E visto che dovrò ristrutturare tanto vale apportare delle modifiche.” 

“Ne eri così contraria quando Fury te ne ha parlato la prima volta. Non lo hai nemmeno voluto ascoltare.”

“Perché ha un tempismo di merda, devi ammetterlo. Ero appena sopravvissuta per pura fortuna a Stane e questo se ne esce con sta storia. Nessuno sano di mente lo avrebbe ascoltato.” Aveva bevuto altro tè alcolico e si era messa più comoda nella poltrona. Non aveva smesso di guardare Steve però. Era tutto così strano in quel momento. Non sapeva nemmeno come prendere esattamente quella situazione. 

“Non penso starò molto tempo a New York. Devo tornare a Washington.”

Gli aveva sorriso, ma il suo cuore si era spezzato a quella frase. Non sapeva cosa avesse sperato davvero. In tutti quei giorni Steve non aveva mai nascosto che aveva cercato di telefonare a Sharon Carter più e più volte. A volte la donna gli rispondeva, altre no. Il suo stupido cuore aveva creduto, si era illuso, che quella vicinanza avrebbe forse portato ad altro. Magari lentamente, non subito, ma magari piano piano si sarebbero riavvicinati. 

Era stupida. Lo sapeva benissimo che era stupida e innamorarsi era stata la cosa più sbagliata che avesse mai fatto nella sua vita. Forse Howard non aveva avuto tutti i torti quando le aveva messo i bastoni tra le ruote anni addietro. 

Steve Rogers le aveva spezzato il cuore, proprio come suo padre aveva predetto. Certo, lei aveva fatto la sua parte egregiamente e le avrebbero dovuto dare un premio per questo. Ma si era stupidamente illusa. 

“Ti capisco. Devo tornare a Malibu anch’io.”

Era una bugia. Non doveva tornare da nessuna parte. Avrebbe anche potuto trasferirsi in Alaska che tanto non aveva qualcuno da cui tornare o a cui rendere conto. Nemmeno la sua azienda richiedeva la sua presenza fisica. Bastava che continuasse a produrre progetti su progetti, ma questo poteva farlo da qualsiasi buco in cui si fosse nascosta. 

Aveva abbassato lo sguardo sulla tazza che stringeva tra le mani e il suo cervello era totalmente vuoto. Annebbiato dal dolore che stava provando. Ma era solo lei che si era illusa. Non era cambiato nulla da quel pomeriggio in cui Steve se ne era andato da Malibu. Si sentiva quasi una stupida ragazzina ad aver sperato che qualcosa scoccasse in quei giorni. Aveva forse visto troppi film romantici e quel stupido ed inutile bacio le aveva dato una piccola speranza. 

“Io ti amerò per sempre. Lo sai questo, vero?”

“Ho un cuore troppo debole per ascoltare queste stronzate, Rogers. Potrebbe letteralmente spezzarsi nel vero senso della parola e non vorresti avermi sulla coscienza. Ti perseguiterei finché vivi.” Non aveva il coraggio di guardarlo e aveva dovuto prendere un profondo respiro per cercare di controllarsi. E Steve non poteva averglielo detto sul serio. Non poteva il suo Steve essere così crudele per dirle le parole che in realtà lei aveva sperato di sentirgli dire ancora una volta.

“Ho preso un impegno con un’altra persona, e ci tengo davvero a Sharon. Non si merita il dolore che le ho causato e forse se torno a Washington potrebbe darmi un’altra possibilità. O almeno mi toglierò questo senso di colpa di dosso.” Lo aveva sentito sospirare, ma non aveva ancora abbastanza coraggio per poterlo guardare. Se lo avesse fatto non era sicura di quello che avrebbe potuto dire o fare.

Erano le tre di notte. Quello era l’orario dei discorsi proibiti. Delle conversazioni che sarebbero morte lì. 

“Ti offrirò una birra a Malibu se dovesse prenderti a calci in culo.” Aveva alzato la testa verso di lui. Sapeva, era sicura di avere gli occhi lucidi e con molta probabilità pieni di lacrime che non vedevano l’ora di essere versate. Aveva cercato di sorridere, o almeno di accennare un sorriso. Non era semplice. 

Per due anni non si erano visti. Per due anni avevano fatto quasi finta che l’altro non esistesse. Non si erano incontrati. Non si erano mai più parlati.

E Steve ora le diceva che provava ancora qualcosa per lei. Solo che era troppo tardi per entrambi.

“Tasha, non piangere.” Aveva appoggiato la tazza sul tavolino e lo aveva visto alzarsi dal divano. Era solo riuscita ad alzare una mano nella sua direzione per fermarlo. Non si fidava affatto della propria voce in quel momento. Sarebbe sicuramente uscita spezzata e non lo voleva. Già si era coperta di ridicolo abbastanza. “Merda, non volevo. Scusami.” Si era passato una mano tra i capelli, portandola poi alla bocca. Lo faceva ancora, aveva notato. Quando era pensieroso lo faceva sempre. 

Si era asciugata il viso col bordo della maglietta che aveva usato per dormire e aveva alzato la testa per poggiarla sullo schienale. Aveva guardato il soffitto e cercava di controllarsi. Non era brava in questo. Non lo era mai stata. Quando le emozioni prendevano il sopravvento sul suo cervello, non era mai stata brava a calmarsi. Questo era perché imbottigliava tutto e poi finiva per scoppiare, che fossero emozioni positive o negative poco importava. 

“Odio da morire il fatto che esisti solo tu nella mia testa. Sono così patetica da essere uscita con Johnny Storm solo perché ti assomigliava fisicamente. E non riesco nemmeno a fare come te. Non riesco ad impegnarmi seriamente con altre persone.” Aveva dovuto passare la mano sugli occhi perché non riusciva a controllarsi e le lacrime scorrevano nuovamente. “Se mai dovessi reincarnarmi, verrò a cercarti. Verrò a cercarti e non farò gli stessi errori.”

Patetica. 

Natasha Stark si stava rendendo patetica.

Con la voce spezzata dalle lacrime mendicava l’amore di un uomo che non la voleva più. Ah, se solo suo padre l’avesse vista in quel momento. L’avrebbe denigrata e avrebbe fatto bene. Lei era comunque Natasha Stark. Aveva una certa fama ed in pubblico era sempre un certo tipo di personaggio. Non aveva mai vacillato la sua maschera. Non era mai stata debole. Tutti i suoi eccessi avevano creato un personaggio che in realtà era molto diverso in privato. 

In privato era una ragazzina patetica che piangeva alle tre di notte perché il suo ex compagno aveva solo messo fine un’altra volta a tutto quello che ci poteva essere. Si sentiva come quella mattina a Boston, chiusa nella propria piccola officina casalinga, mentre Steve le diceva che era stato un errore andare a letto con lei. 

“Tasha.” Aveva sussultato quando aveva sentito la mani calde di Steve sulle proprie gambe. Non lo aveva sentito muoversi e non aveva nemmeno fatto caso ai suoi movimenti. “Tu sei la donna più assurda che io abbia mai conosciuto. Sei magnifica. Sei testarda. Sei intelligente. Sei bellissima. Sei impossibile. Sei la persona che più ho amato in vita mia e temo che questo non cambierà mai.”

“Questa è la cosa che mi fa più male.” Lo aveva guardato e l’uomo le sorrideva lievemente. Ma era un sorriso triste, rassegnato. Era il sorriso di qualcuno che stava rinunciando. E non poteva dargli torto. Non aveva mai potuto dargli torto. 

“In una prossima vita non ti lascerò andare nemmeno io. Ti terrò stretta per sempre.”

Si era sporta verso di lui e lo aveva guardato negli occhi. Amava i suoi occhi. Li aveva sempre adorati perché erano così espressivi. A volte le bastava guardarli e capire quello che Steve non stava dicendo. 

“Promettimi solo una cosa, Steve. Promettimi che sarai felice, ok? Non mi importa con chi, ma voglio che tu sia felice.” Gli aveva accarezzato le guance con entrambe le mani senza smettere di guardarlo. Perdersi in quei occhi era così facile. Avrebbe potuto rimanere così, semplicemente a guardarlo, tutta la notte. 

Non le aveva risposto. Non a parole. 

Aveva semplicemente annullato la distanza tra di loro e l’aveva baciata. Un bacio casto. Un bacio d’addio. Un bacio che sanciva la fine. 

Lo aveva abbracciato. Aveva osato tanto perché oramai non aveva più nulla da perdere. E voleva per un’ultima volta essere stretta tra le braccia di quell’uomo. Voleva solo quello. Voleva il ricordo del suo calore. Il ricordo del suo profumo. Della morbidezza e ruvidezza delle sue labbra. 

Voleva solo scolpire quel momento nella sua mente per appigliarglisi nei momenti no, che temeva non sarebbero stati pochi nei mesi successivi. 

 

✭✮✭

 

“Dunque cos’è questo? Un addio? Un arrivederci? Facciamo solo finta di salutarci per fregarli e poi tutti a fare bisboccia alla Torre?”

Natasha aveva spinto gli occhiali da sole di più sul naso, cercando di ignorare la voce petulante di Clint Barton. Non aveva smesso di parlare da quando si erano svegliati quella mattina. Tutto perché avevano ricevuto una telefonata dallo S.H.I.E.L.D.. Erano liberi di andare. La loro quarantena dal mondo era finalmente finita e ognuno poteva tornare alla propria vita.

Avevano fatto colazione quasi in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri. Ognuno che pensava a cosa avrebbe fatto adesso. Sarebbero potuti davvero tornare alla vita di prima senza problemi? Ne dubitava, e forse ne dubitavano tutti quanti sulla faccia della Terra. 

“Io porterò Loki ad Asgard per assicurarmi che venga rinchiuso dove non potrà più nuocere a nessuno.” E come a sottolineare le sue parole, Thor aveva strattonato la catena a cui erano legati i polsi di suo fratello. Fratellastro. Quello che era. 

Fury, assieme ad un gruppo di agenti, gli aveva dato appuntamento a Central Park. Avevano chiuso una parte del parco solo per loro ed il loro commovente incontro. O saluto. Doveva ancora decidere cosa fosse. Come doveva decidere cosa fare davvero da quel momento in poi.

Avevano fatto scendere Loki da un furgone e la prima tentazione che aveva avuto era stata quella di attaccarlo. Voleva vendicarsi perché era solo colpa sua se erano in quella situazione e se il suo cuore era malandato di nuovo. 

Erano passati altri quattro giorni dalla sua conversazione notturna con Steve e non avevano ovviamente più affrontato il discorso. Quella notte chiudeva il ciclo. Quella notte era stata catartica e doveva mettersela in tasca così com’era e andare avanti. 

Lo aveva osservato mentre preparava il suo borsone. Non aveva avuto intenzione di spiarlo, ma aveva lasciato la porta della stanza aperta e lei non aveva potuto evitare. Era sempre preciso nel fare le cose, ma non nel fare i bagagli. Lo aveva osservato mettere alla rinfusa le cose nel borsone e aveva sorriso. Non sarebbe mai cambiato e questo era in parte confortante. Fortunata era la donna che sarebbe diventata la signora Rogers. 

“Io volevo andare a fare bisboccia.” Clint Barton si era voltato verso di lei, come a cercare un partner per le proprie cattive idee, ma lei non era proprio dell’umore adatto quel giorno. Voleva solo andarsene da quel luogo e stare lontana dallo S.H.I.E.L.D. per un po’. Soprattutto perché Fury aveva deciso di informali solo allora e tramite videochiamata che l’agente Phil Coulson era ancora vivo. 

Era stata manipolata sin dall’inizio. Le scelte che aveva fatto sull’Hellicarrier erano dovute in gran parte al senso di vuoto che aveva provato alla notizia della morte dell’agente che conosceva da quando era una ragazzina. E Fury, era sicura, aveva giocato la carta del senso di colpa, della sua impotenza. La conosceva meglio di quanto lei stessa volesse ammettere e aveva usato i suoi punti deboli, amplificati dalla sua prigionia in Afghanistan, per muoverla come una pedina sulla scacchiera. 

E lei ci era cascata, non vedendo trame nascoste per una volta. La sua paranoia era stata messa da parte perché Phil Coulson era morto e lei voleva vendicarlo. 

Era arrabbiata. Era frustrata. Non sapeva cosa avrebbe fatto esattamente se Fury non gli avesse comunicato la morte dell’agente mentre erano sull’Hellicarrier. Sicuramente sarebbe intervenuta non appena avesse avuto la notizia che la sua Torre era stata usata come fonte di energia per attuare il piano malefico di Loki, ma non si sarebbe mossa tempestivamente. Non avrebbe avuto alcuna epifania parlando con Steve. Sarebbe rimasta in laboratorio o se ne sarebbe andata. 

Non avrebbe fatto squadra. Non subito. Ci avrebbe messo i suoi tempi, ma prima o poi avrebbe capitolato. Invece era stata manipolata per bene ad agire subito, d’istinto. E poi l’aveva lasciata crogiolare nel suo stesso brodo fino a quando non aveva tirato fuori lei stessa il discorso degli Avengers.

“Faremo bisboccia un’altra volta.” A parlare era stato Steve Rogers. Era già pronto per partire in sella alla sua Harley Davidson per andare in direzione Washington. Lo aveva sentito parlare con la Romanoff. Non aveva voluto origliare, ma si era trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato e lo aveva sentito dire che doveva tornare da Sharon. 

“Il mio compleanno è a fine mese, e se mi va potrei invitarvi per una festa.” Aveva guardato tutti tranne Steve. Era così infantile e se ne rendeva conto, ma era più forte di lei. “Non so come invitare te, Thor, ma tieniti libero per il 29.” Il dio del tuono le aveva sorriso, senza mai mollare la presa sulle catene che tenevano legato Loki. “Tu invece non sei invitato, proprio per nulla.” Aveva puntato il dito contro il dio dell’inganno, come se fossero un gruppo di bambini delle elementari.

“Cercherò di esserci, Stark. Statemi tutti bene fino ad allora.” Thor li aveva guardati tutti prima di alzare il martello al cielo. Heimdall, il guardiano del Bifrost di cui gli aveva parlato Thor, aveva aperto un portale e i due asgardiani erano stati investiti da una luce magica. Se non lo avesse visto con i suoi stessi occhi non ci avrebbe mai creduto. Come può uno sano di mente crederci davvero? 

“Banner. Laboratorio. Ora. Deve esistere qualcosa che non sia magia per spiegare tutto questo.” Si era voltata verso Bruce, che cercava di farsi piccolo piccolo di fronte a tutti quei agenti S.H.I.E.L.D. che li circondavano. 

“Non saprei, Tasha. Questo va davvero molto oltre tutto quello che ho studiato.” L’uomo si era passato una mano sulla nuca ed il collo, perché quel discorso lo aveva già affrontato e non trovavano un terreno comune di discussione. Per Banner era solo magia senza alcun fondamento scientifico, per lei doveva esserci un modo per arrivare ad aprire quei portali senza la magia. 

“Mentre voi giocate a fare Harry Potter, io me ne vado. Ho dei rapporti da compilare al quartier generale.” Natasha Romanoff aveva sorriso e aveva mosso qualche passo verso di lei. “Non credo di dover essere io a dirtelo, ma non esagerare con gli esperimenti. Lo S.H.I.E.L.D. ti terrà sott’occhio anche di più adesso. Tieni un profilo basso, ok?”

“Wow, un consiglio su come fregare il gran capo proprio da te. Sto rovinando anche te.” Le aveva sorriso e la spia aveva ricambiato per poi girarsi e fare un gesto con la testa verso Clint. L’uomo aveva annuito, come se avessero parlato telepaticamente. 

“Vado anch’io.” Steve aveva messo gli occhiali da sole e chiuso il giubbetto di pelle. “Vorrei arrivare prima di sera a Washington.”

“Guida piano. Fermati se ti senti stanco. Fai qualche spuntino durante il viaggio.” Lo aveva guardato e gli aveva porto la mano. Non sapeva esattamente come salutarlo. Formale o informale? Non sapeva nemmeno se qualcuno li stesse spiando in quel momento. Il suo istinto le avrebbe detto di dargli un veloce abbraccio, anche solo come augurio di risolvere la situazione a Washington, o per dirgli “io ci sono” come supporto morale per qualsiasi cosa gli servisse. Ma la testa le diceva di essere il più formale possibile. Quindi cosa meglio di una stretta di mano? Professionale e impersonale.

“Lo farò, Tasha.” Le aveva sorriso e aveva stretto la sua mano. Era sempre così calda, l’esatto contrario delle sue. 

“Vale anche per te l’invito alla mia festa di compleanno. So che è difficile ed impossibile che ci sarai, ma l’invito è valido anche per Sharon.” Doveva andare oltre. Doveva lasciarsi Steve alle spalle e permettergli di vivere la sua vita. Non era facile, lo sapeva che per lei sarebbe stato quasi impossibile togliersi dalla testa quell’uomo, ma doveva farlo per lui.

“Gliene parlerò. Stammi bene, Tasha. E se hai bisogno, il mio numero di telefono è sempre lo stesso.” Aveva lasciato andare la sua mano e si era diretto verso Clint e Natasha che stavano parlando a voce bassa. Li aveva salutati e poi era salito in sella alla sua moto e senza ulteriori indugi era partito. Non gli avrebbe mai scritto e ancora meno lo avrebbe chiamato. Lo doveva ad entrambi. Tagliare quel filo rosso che li univa era doloroso, ma era l’unica cosa giusta da fare in quel momento.

“Bruce, andiamo. Abbiamo del lavoro da fare alla Torre.” Aveva cercato le chiavi della macchina in tasca, cercando di essere più neutra possibile. Doveva solo tenere la mente occupata. Se non ci pensava, se si concentrava su altre cose, non avrebbe pensato a Steve, agli alieni, alla sua ennesima quasi morte. Si sarebbe concentrata a lavorare con Banner ai wormhole e al quartier generale degli Avengers. Avrebbe tenuto la testa impegnata in modo tale da non fare cazzate. 

“Se proprio devo.” Lo scienziato aveva sospirato rassegnato, come se non volesse davvero ma fosse stato costretto, ma l’aveva seguita ugualmente, salendo subito in macchina. Tutto sommato non aveva un posto nel mondo neppure lui. Erano un gruppo di randagi che si muoveva senza mete fisse. Per questo avrebbe creato un posto in cui potessero riunirsi al bisogno. Non pensava avrebbe mai avuto pensieri simili verso persone che non fossero Rhodes, Steve o Pepper, soprattutto persone appena conosciute. Ma non poteva fare a meno di pensarla così. 

Avrebbe creato un quartier generale che potesse essere usato come rifugio in qualsiasi momento da qualsiasi membro della squadra. E non avrebbe permesso a nessuno esterno di interferire con i suoi piani.




{{Dopo tutto questo tempo, questa terza parte ha avuto una fine. Quasi non ci credo.
Sono cambiate così tante cose dal 2018 ad oggi.
Ho trovato una persona speciale. Mi sono spostata di 300km. Ho iniziato a convivere. Sono diventata madre (di questo ancora non mi abituo). La mia vita ha avuto un cambiamento a 360°, ma la Stony è sempre presente XD

Grazie a chi ancora oggi ha seguito questo mio vaneggiamento su E3490.}}

   
 
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