7.
Ricordo ancora con piacere la prima cosa che vidi quando mi svegliai, non so quanto tempo dopo. Era il volto di un
angelo. Aveva la barba nera e gli occhi grigi, un po' stempiato. La divisa dei marine non gli donava molto, ma ero
troppo attratto dalla bellezza di quel volto per far caso ad altro.
- Sveglio anche questo. Trauma cranico, principio di asfissia. Tutto regolare. Via.
Disse quella frase alzandosi in piedi, accompagnando con un eloquente gesto della mano l'ultima parola. Così mi
resi conto di essere sdraiato sulla schiena, sul ponte di comando del Coyote. Percepivo vagamente altre presenze
intorno a me e faceva all'improvviso molto freddo.
Poi cominciai a muovermi. Una barella, conclusi. Senza riuscire a capire dove fossero i barellieri, riconobbi lo
spinale prima e la camera di equilibrio poi. La barella superò l'armadio robot del comandante zigzagando agilmente
e si infilò in quello che mi parve un tunnel ombelicale rigido. Un bel lusso, pensai stupidamente.
Cercai di muovermi per guardarmi intorno e mi resi conto di essere legato alla barella da larghe cinghie senza
fibbia. Ebbi un capogiro per aver alzato la testa, ma ero contento di non provare dolore. Ero soltanto intontito,
rallentato. Mi doleva il torace se respiravo troppo profondamente. Il condotto terminava sul molo dove percepii una
discreta folla. Fui sorvolato da un drone con gli adesivi di Network 23: mi puntò contro il suo obiettivo e accese
un faro supplementare, fastidiosissimo. Un soldato lo scacciò agitando le mani. Finalmente la barella con un piccolo
sobbalzo si infilò in un posto stretto e ben illuminato e si arrestò. Uno sportello si chiuse, isolandomi completamente
in un ambiente candido e fitto di apparecchiature dall'aspetto amichevole, rassicurante. Percepii l'accelerazione di
un veicolo. Un'ambulanza, conclusi. Finalmente solo.
La mia degenza durò molto poco. L'orologio della stazione segnala le cinque e trentadue della mattina quando le
ganasce del pontile 43 si erano serrate intorno allo scafo della nave del mio comandante. Venni dimesso dopo essere
stato in osservazione fino alle diciassette, ora della stazione. Fu allora che scoprii di essere diventato una
celebrità.
Prima i poliziotti, poi l'esercito, poi di nuovo i poliziotti. Fui interrogato ripetutamente fino alla mattina
seguente. Stavo bene secondo i medici, anche se io mi sentivo un po' strano. Il trauma cranico era stato fatto
regredire praticamente subito e i nano medicali avevano sistemato anche qualche altro problemino qua e là. Avevo
solo cinque punti di sutura sul cranio e qualche livido sulle costole: secondo i dottori, quasi esaltati al momento
dell'ultima visita prima di dimettermi, me l'ero cavata da campione. Lo stordimento era dovuto forse al gas usato
per neutralizzare tutti gli occupanti della nave senza rischiare di ferire qualcuno. Sarebbe passato prestissimo,
mi dissero.
Poi toccò alle principali emittenti televisive. Interviste, dichiarazioni, resoconti dell'accaduto. Tutto molto in
fretta, caotico, contemporaneamente. Fui avvicinato da un sedicente avvocato e procuratore che mi suggerì di non
dire più una sola parola senza vedere prima un assegno, di cui però avrei incassato solo il trentatré per cento. Mi
offrì perfino la percentuale dei guadagni di una serie televisiva di sei puntate da un'ora l'una. Naturalmente avevo
il diritto di recitare la parte di me stesso e pretendere una percentuale maggiore come paga. Lo mandai al diavolo e
feci altrettanto con tutti gli altri che vennero a farmi proposte simili. Ma seguii quel consiglio e smisi di
parlare. Non so se feci bene o male: ancora oggi vivo con i diritti d'autore, difesi con ferocia da una ossessiva
IA che non ha altro scopo di esistere, di una di quelle serie televisive che furono realizzate davvero, e senza il
mio consenso. Scelsi quella che incassava di più ovviamente, e costrinsi i produttori a pagarmi per non farmi andare
dalla concorrenza con la storia vera. Ma questa, scusate il gioco di parole... è un'altra storia.
Tutto accadde molto in fretta, quindi. Alle nove del mattino seguente ero di nuovo solo come un cane. I notiziari
avevano già sbranato la mia avventura spolpandola fino all'osso e succhiando anche il midollo, al punto che quando
riuscii a raggiungere un terminale, quella stessa sera, ero diventato un trafiletto nascosto molto in fondo al
notiziario. Fu grazie alla Rete e ai notiziari che ho potuto ricostruire cosa accadde. Quando aprii il fuoco contro
le installazioni di Mastodonte in realtà non colpii nulla di particolare. I detriti che avevo visto con i teleobiettivi
del Coyote erano i rottami da decompressione di un deposito di macchinari da scavo che non avrebbe dovuto essere dotato
di atmosfera. L'autore dell'articolo faceva notare che le installazioni abitabili di Mastodonte erano ben in profondità,
scavate nella roccia metallifera per difendersi dalla continua pioggia di meteoriti prodotta dalle operazioni di scavo
dell'asteroide stesso. I deboli laser della corvetta non potevano fare altro che scalfire la dura superficie di
quell'enorme pepita spaziale e provocare danni alle installazioni di superficie, disabitate. Leggere quelle righe
mi fece stare meglio di qualsiasi cura medica avessi ricevuto il giorno prima. Nessuna vittima, nemmeno un ferito
lieve. Si erano resi conto dei danni solo perché il deposito era stato dimenticato pressurizzato e la decompressione
improvvisa aveva prodotto un po' di sconquasso, ma nulla di più. Mastodonte era un osso troppo duro per i denti del
Coyote.
Una volta scoperto il proprio destino, i due idioti abbandonati dal loro boss Calvin erano riusciti a dare l'allarme
via radio per pura e semplice vendetta. Pur avendo io mirato a quelle che mi erano sembrate antenne, non avevo
distrutto nulla che potesse impedire la trasmissione del messaggio di aiuto. Non valgo nulla nemmeno come
artigliere. Ricontattati dalle autorità, i due prigionieri avevano vuotato il sacco in fretta denunciando
l'evasione. Il resto era stato facile. Cielo Alto sapeva già tutto quando ci aveva chiesto del cambio di piano di
volo e aveva prontamente comunicato il nostro vettore di transito ai militari. Per quelli tracciare una rotta di
intercettazione è un giochino divertente e non hanno avuto mai un solo dubbio sulla nostra direzione. Però la Zarov
era davvero lì per caso e aveva contribuito solo alla logistica e ai soccorsi medici. La passerella rigida piena di
gas narcotico in pressione era stata un'idea della polizia di Prometeo.
Infine, cosa poco importante per chiunque altro ma non per me, nonostante dalle registrazioni di bordo del Coyote
si possa capire chiaramente che sono stato io ad aprire il fuoco, i danni riportati dalle installazioni minerarie
di Mastodonte sono finiti in conto a Calvin. Meno male: non sarei qui ora bensì indebitato fino al collo, schiavo
di una zaibatsu.
L'ultimo ricordo di quell'avventura, ricordo che conservo gelosamente solo per me stesso, è del comandante. Michaela
Patris, una morettona decisamente ben piazzata, forte fuori e anche dentro. Una volta dimesso e realizzato di non
essere più la stella dei notiziari, mi sentii libero. La notorietà pesa più di quanto sembra. Sollevato dalle
opprimenti attenzioni di poliziotti e giornalisti, il mio primo pensiero andò a lei. Mi precipitai fuori
dell'ospedale e mi diressi al molo numero 43, notando appena che ogni tanto qualcuno tra la folla mi fissava
con insistenza. Cercai di scacciare il pensiero che a bordo del Coyote c'era la mia tuta, il mio bagaglio e che
il comandante doveva ancora pagarmi. Non era per la mia roba o per i soldi che mi stavo precipitando laggiù.
Giunsi trafelato all'imbocco del tunnel di ormeggio. Nonostante mi sentissi bene, ero ancora provato
dall'avventura. Avevo chiesto il permesso di salire a bordo tramite il terminale e mi era stato concesso senza
nemmeno bisogno di parlare. Pensando al peggio mi sforzai di non mettermi a correre nel tunnel. Quando giunsi
davanti al portello esterno della camera di equilibrio, chiusa, avevo il cuore in gola. Chi avrei trovato a bordo?
Il pesante portello esterno si fece da parte rivelando la candida camera di equilibrio, già aperta. Vedevo l'armadio
robot e uno spicchio di corridoio spinale, illuminato al massimo. Con un improvviso timore reverenziale, più adeguato
a un luogo sacro che a una nave commerciale, chiesi a mezza voce il permesso di salire a bordo.
- Permesso accordato – il mio cuore sembrò sciogliersi nel petto a quella voce.
Feci capolino nello spinale, sentendomi un sorriso cretino sulla faccia. Anche lei sorrideva, sebbene fosse un
sorriso un po' lontano e spento.
- Ciao, Kaufman. Come stai?
- Come stai tu – le dissi in fretta avvicinandomi un poco. Non volevo superare quella rispettosa distanza che ero
sempre riuscito a mantenere tra me e i miei datori di lavoro.
Rispose facendo spallucce. Si appoggiò al lungo manico della rotospazzola meccanica con la quale stava tirando a
lucido il corridoio spinale. La capivo perfettamente: anche la sua nave era stata violata e non c'era niente di
meglio di una bella pulizia approfondita per sentirsi nuovamente padroni di casa.
Doveva essere all'opera già da un bel po'. Indossava pantaloncini da atletica leggera, troppo aderenti e corti per
i miei gusti. Sembravano più un paio di mutande grandi che pantaloncini corti. Gli elastici le affondavano nella
cellulite delle cosce molto vicino all'inguine, lasciando vistosi segni rossi sulla pelle. Le gambe nude e grosse
erano lucide di sudore mentre i piedi che calzavano dozzinali ciabatte di gomma azzurra recavano le impronte della
rotospazzola sporca, segno che nella foga di pulire se l'era tirata addosso.
- Per due o tre lividi mi hanno riempita di nanoidi, sto benone. Mi sembra di essermi fatta di brutto... ho il
delirio di onnipotenza!
Indossava una leggera canottiera nera, stampata col disegno di una grande ragnatela bianca e una piccola scritta:
“vedova nera”. Accomodò una spallina della canottiera che le era scesa fino al gomito esponendo la bretella bianca
del reggiseno. Mi spaventai vedendo quanto quella le sprofondasse nella carne della spalla. Fletté il florido e
rotondo braccio per mostrarmi i muscoli gonfi. Anche la pelle delle braccia e del petto era imperlata di
sudore. I capelli, ancora una volta raccolti in una coda improvvisata, sembravano brillare sotto la luce intensa
e alcuni ciuffi curvi, appiccicati al collo dal sudore, facevano apparire la sua pelle sempre più bianca.
- Allora non ti hanno... - non seppi concludere la frase. Lei sorrise brevemente afferrando il mio imbarazzo, e
se ne prese gioco.
- No, non hanno fatto in tempo... un paio sono arrivati ad abbassarsi i pantaloni, ma non sono andati oltre. Due
cazzi flosci che avrei volentieri evitato di vedere, ma niente altro... Il danno peggiore, oltre a dover disinfettare
mezza nave, è che mi hanno strappato la tuta da motorista. Per il resto... niente che non si possa rimediare con
una doccia.
Nuovamente provai ammirazione per quella ragazza. Mi parve dotata di una forza interiore straordinaria e mi sentii
una vera merda vicino a lei. Pensai che fossero i nano medicali a farmi sentire come un cane: forse stava finendo
il loro effetto. Chissà cos'altro c'era in soluzione nella roba che mi avevano iniettato.
Passammo pochi minuti scambiandoci convenevoli sull'accaduto, raccontandoci le ferite come due veterani di
guerra. Il suo carattere schietto e diretto la portò subito a quello che per lei doveva essere l'argomento
principale della mia visita.
- Sei qui per la tua roba, vero? Devo anche pagarti...
- Ci tenevo a sapere come stavi – cercai di difendermi, ma ero ovviamente inefficace ai suoi occhi.
- La tua tuta da vuoto è dove l'hai lasciata... almeno quella non l'hanno toccata – si voltò per entrare sul piccolo
ponte di comando, dove si era svolta tutta l'avventura. Mi sembrava che nulla fosse cambiato, lì. Un pensiero
doloroso.
- Tutto quello che mi è sembrato tuo l'ho lasciato sulla prima cuccetta... non ho ancora finito di mettere in
ordine lì, quindi ti prego... non guardare troppo in giro!
Aveva alzato la voce per raggiungermi dal ponte di comando, com'era usanza sul Coyote. Io entrai nel piccolo
alloggio dell'equipaggio e quasi non lo riconobbi. Gli evasi l'avevano messo a soqquadro rovistando ovunque,
spostando tutto secondo i loro comodi, sporcando, rompendo e guastando. Ogni cuccetta sembrava aver ospitato un
animale feroce, uno di quelli che si vedevano nei documentari. Qualcosa di grosso e scatenato, in grado di mandare
all'aria coperte, materasso, lenzuola... nemmeno i materassi a sacco erano stati risparmiati. Tutto quanto giaceva
sparso lì in giro gridava la violazione subita. Raccolsi la mia roba, facendo mentalmente l'inventario delle cose
che mancavano. Qualche capo di abbigliamento, qualche piccolo ricordo, poco altro. Misi tutto nel mio sacco da
viaggio: dapprima ordinatamente, poi sempre più alla rinfusa. All'improvviso volevo andarmene e basta. Stanco,
tornai verso il ponte di comando e mi fermai sulla soglia. Michaela era seduta scomposta sulla poltrona del
comandante e stava trafficando con schermate fitte di dati incolonnati. Il suo conto corrente, mi parve di
capire. La vista di un muscoloso polpaccio pallido mi distrasse.
- Ho quasi fatto – mi disse con quel tono di voce morbido ma impersonale che avevo imparato ad apprezzare. Aspettai
pazientemente fino a quando mi mostrò la schermata con l'accredito sul mio conto. La cifra era quella pattuita. Avrei
preferito qualche card al portatore, ma in quel momento mi sembrò una pretesa assurda.
- Mi spiace sia andata così – disse alzandosi dalla poltrona. Di nuovo la spallina della canottiera nera le scese
fin quasi al gomito, ma lei non si curò di risollevarla. La scollatura sul petto e le aperture sotto le ascelle
erano tali che non si faticava a vedere che tipo di biancheria indossasse sotto. A disagio di fronte alla sua
intimità, mi imposi di distogliere lo sguardo e mi incamminai lungo lo spinale per andare a prendere la mia tuta
da vuoto.
- Non è certo colpa tua – non riuscii a essere rassicurante come avrei voluto. Credo che percepì nella mia voce la
nota accusatrice che mi era sfuggita. Trovai la mia tuta “leggera” esattamente come l'avevo lasciata e me la misi
sotto il braccio alla bell'e meglio. Sarebbe stato meglio indossarla: era pesante e ingombrante da trasportare in
quel modo. Ma mi sentivo estraneo, indesiderato, e volevo solo andarmene in fretta. Mi voltai per salutare, incerto
sulle parole da usare per rompere il pesante silenzio che era calato. Era di nuovo appoggiata al manico della
rotospazzola.
- Volevo... volevo dirti che... - mi anticipò, ma era anche lei in imbarazzo. La guardai, ma lei distolse gli
occhi. Come se avesse trovato scritto sul pavimento ciò che voleva dire, mi gettò addosso quella frase tutta
d'un fiato.
- Volevo dirti che ho apprezzato quello che hai fatto. Intendo quello che hai fatto per me.
Mi sorrise e fu come se fosse la prima volta che sorridesse davvero. Il viso le si fece luminoso e gli occhi
cupi parvero brillare. Mi tese la mano e me la strinse con forza. Ricambiai come meglio potei.
- Grazie – aggiunse, poi distolse gli occhi e sciolse la stretta di mano. Tornò ad adombrarsi, incupita e lontana
come l'avevo sempre vista.
- Dovere – fu l'unica, idiota risposta che fui in grado di darle prima di voltarmi e andarmene via.