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Autore: Mannu    02/04/2010    0 recensioni
Un cliente, un incarico, un carico da trasportare, una paga per il servizio reso. A Miki non sembra vero: ha trovato un lavoro. È poco, quasi niente, ma rappresenta un inizio. Ma il regolamento è il regolamento, e questo dice che deve viaggiare con un equipaggio minimo...
Questa storiella è anche un piccolo esperimento per vedere Miki da... un altro punto di vista.
Genere: Azione, Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ferraglia spaziale'
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La miniera nel cielo
7.

Ricordo ancora con piacere la prima cosa che vidi quando mi svegliai, non so quanto tempo dopo. Era il volto di un angelo. Aveva la barba nera e gli occhi grigi, un po' stempiato. La divisa dei marine non gli donava molto, ma ero troppo attratto dalla bellezza di quel volto per far caso ad altro.
- Sveglio anche questo. Trauma cranico, principio di asfissia. Tutto regolare. Via.
Disse quella frase alzandosi in piedi, accompagnando con un eloquente gesto della mano l'ultima parola. Così mi resi conto di essere sdraiato sulla schiena, sul ponte di comando del Coyote. Percepivo vagamente altre presenze intorno a me e faceva all'improvviso molto freddo.
Poi cominciai a muovermi. Una barella, conclusi. Senza riuscire a capire dove fossero i barellieri, riconobbi lo spinale prima e la camera di equilibrio poi. La barella superò l'armadio robot del comandante zigzagando agilmente e si infilò in quello che mi parve un tunnel ombelicale rigido. Un bel lusso, pensai stupidamente.
Cercai di muovermi per guardarmi intorno e mi resi conto di essere legato alla barella da larghe cinghie senza fibbia. Ebbi un capogiro per aver alzato la testa, ma ero contento di non provare dolore. Ero soltanto intontito, rallentato. Mi doleva il torace se respiravo troppo profondamente. Il condotto terminava sul molo dove percepii una discreta folla. Fui sorvolato da un drone con gli adesivi di Network 23: mi puntò contro il suo obiettivo e accese un faro supplementare, fastidiosissimo. Un soldato lo scacciò agitando le mani. Finalmente la barella con un piccolo sobbalzo si infilò in un posto stretto e ben illuminato e si arrestò. Uno sportello si chiuse, isolandomi completamente in un ambiente candido e fitto di apparecchiature dall'aspetto amichevole, rassicurante. Percepii l'accelerazione di un veicolo. Un'ambulanza, conclusi. Finalmente solo.
La mia degenza durò molto poco. L'orologio della stazione segnala le cinque e trentadue della mattina quando le ganasce del pontile 43 si erano serrate intorno allo scafo della nave del mio comandante. Venni dimesso dopo essere stato in osservazione fino alle diciassette, ora della stazione. Fu allora che scoprii di essere diventato una celebrità.
Prima i poliziotti, poi l'esercito, poi di nuovo i poliziotti. Fui interrogato ripetutamente fino alla mattina seguente. Stavo bene secondo i medici, anche se io mi sentivo un po' strano. Il trauma cranico era stato fatto regredire praticamente subito e i nano medicali avevano sistemato anche qualche altro problemino qua e là. Avevo solo cinque punti di sutura sul cranio e qualche livido sulle costole: secondo i dottori, quasi esaltati al momento dell'ultima visita prima di dimettermi, me l'ero cavata da campione. Lo stordimento era dovuto forse al gas usato per neutralizzare tutti gli occupanti della nave senza rischiare di ferire qualcuno. Sarebbe passato prestissimo, mi dissero.
Poi toccò alle principali emittenti televisive. Interviste, dichiarazioni, resoconti dell'accaduto. Tutto molto in fretta, caotico, contemporaneamente. Fui avvicinato da un sedicente avvocato e procuratore che mi suggerì di non dire più una sola parola senza vedere prima un assegno, di cui però avrei incassato solo il trentatré per cento. Mi offrì perfino la percentuale dei guadagni di una serie televisiva di sei puntate da un'ora l'una. Naturalmente avevo il diritto di recitare la parte di me stesso e pretendere una percentuale maggiore come paga. Lo mandai al diavolo e feci altrettanto con tutti gli altri che vennero a farmi proposte simili. Ma seguii quel consiglio e smisi di parlare. Non so se feci bene o male: ancora oggi vivo con i diritti d'autore, difesi con ferocia da una ossessiva IA che non ha altro scopo di esistere, di una di quelle serie televisive che furono realizzate davvero, e senza il mio consenso. Scelsi quella che incassava di più ovviamente, e costrinsi i produttori a pagarmi per non farmi andare dalla concorrenza con la storia vera. Ma questa, scusate il gioco di parole... è un'altra storia.
Tutto accadde molto in fretta, quindi. Alle nove del mattino seguente ero di nuovo solo come un cane. I notiziari avevano già sbranato la mia avventura spolpandola fino all'osso e succhiando anche il midollo, al punto che quando riuscii a raggiungere un terminale, quella stessa sera, ero diventato un trafiletto nascosto molto in fondo al notiziario. Fu grazie alla Rete e ai notiziari che ho potuto ricostruire cosa accadde. Quando aprii il fuoco contro le installazioni di Mastodonte in realtà non colpii nulla di particolare. I detriti che avevo visto con i teleobiettivi del Coyote erano i rottami da decompressione di un deposito di macchinari da scavo che non avrebbe dovuto essere dotato di atmosfera. L'autore dell'articolo faceva notare che le installazioni abitabili di Mastodonte erano ben in profondità, scavate nella roccia metallifera per difendersi dalla continua pioggia di meteoriti prodotta dalle operazioni di scavo dell'asteroide stesso. I deboli laser della corvetta non potevano fare altro che scalfire la dura superficie di quell'enorme pepita spaziale e provocare danni alle installazioni di superficie, disabitate. Leggere quelle righe mi fece stare meglio di qualsiasi cura medica avessi ricevuto il giorno prima. Nessuna vittima, nemmeno un ferito lieve. Si erano resi conto dei danni solo perché il deposito era stato dimenticato pressurizzato e la decompressione improvvisa aveva prodotto un po' di sconquasso, ma nulla di più. Mastodonte era un osso troppo duro per i denti del Coyote.
Una volta scoperto il proprio destino, i due idioti abbandonati dal loro boss Calvin erano riusciti a dare l'allarme via radio per pura e semplice vendetta. Pur avendo io mirato a quelle che mi erano sembrate antenne, non avevo distrutto nulla che potesse impedire la trasmissione del messaggio di aiuto. Non valgo nulla nemmeno come artigliere. Ricontattati dalle autorità, i due prigionieri avevano vuotato il sacco in fretta denunciando l'evasione. Il resto era stato facile. Cielo Alto sapeva già tutto quando ci aveva chiesto del cambio di piano di volo e aveva prontamente comunicato il nostro vettore di transito ai militari. Per quelli tracciare una rotta di intercettazione è un giochino divertente e non hanno avuto mai un solo dubbio sulla nostra direzione. Però la Zarov era davvero lì per caso e aveva contribuito solo alla logistica e ai soccorsi medici. La passerella rigida piena di gas narcotico in pressione era stata un'idea della polizia di Prometeo.
Infine, cosa poco importante per chiunque altro ma non per me, nonostante dalle registrazioni di bordo del Coyote si possa capire chiaramente che sono stato io ad aprire il fuoco, i danni riportati dalle installazioni minerarie di Mastodonte sono finiti in conto a Calvin. Meno male: non sarei qui ora bensì indebitato fino al collo, schiavo di una zaibatsu.
L'ultimo ricordo di quell'avventura, ricordo che conservo gelosamente solo per me stesso, è del comandante. Michaela Patris, una morettona decisamente ben piazzata, forte fuori e anche dentro. Una volta dimesso e realizzato di non essere più la stella dei notiziari, mi sentii libero. La notorietà pesa più di quanto sembra. Sollevato dalle opprimenti attenzioni di poliziotti e giornalisti, il mio primo pensiero andò a lei. Mi precipitai fuori dell'ospedale e mi diressi al molo numero 43, notando appena che ogni tanto qualcuno tra la folla mi fissava con insistenza. Cercai di scacciare il pensiero che a bordo del Coyote c'era la mia tuta, il mio bagaglio e che il comandante doveva ancora pagarmi. Non era per la mia roba o per i soldi che mi stavo precipitando laggiù.
Giunsi trafelato all'imbocco del tunnel di ormeggio. Nonostante mi sentissi bene, ero ancora provato dall'avventura. Avevo chiesto il permesso di salire a bordo tramite il terminale e mi era stato concesso senza nemmeno bisogno di parlare. Pensando al peggio mi sforzai di non mettermi a correre nel tunnel. Quando giunsi davanti al portello esterno della camera di equilibrio, chiusa, avevo il cuore in gola. Chi avrei trovato a bordo?
Il pesante portello esterno si fece da parte rivelando la candida camera di equilibrio, già aperta. Vedevo l'armadio robot e uno spicchio di corridoio spinale, illuminato al massimo. Con un improvviso timore reverenziale, più adeguato a un luogo sacro che a una nave commerciale, chiesi a mezza voce il permesso di salire a bordo.
- Permesso accordato – il mio cuore sembrò sciogliersi nel petto a quella voce.
Feci capolino nello spinale, sentendomi un sorriso cretino sulla faccia. Anche lei sorrideva, sebbene fosse un sorriso un po' lontano e spento.
- Ciao, Kaufman. Come stai?
- Come stai tu – le dissi in fretta avvicinandomi un poco. Non volevo superare quella rispettosa distanza che ero sempre riuscito a mantenere tra me e i miei datori di lavoro.
Rispose facendo spallucce. Si appoggiò al lungo manico della rotospazzola meccanica con la quale stava tirando a lucido il corridoio spinale. La capivo perfettamente: anche la sua nave era stata violata e non c'era niente di meglio di una bella pulizia approfondita per sentirsi nuovamente padroni di casa.
Doveva essere all'opera già da un bel po'. Indossava pantaloncini da atletica leggera, troppo aderenti e corti per i miei gusti. Sembravano più un paio di mutande grandi che pantaloncini corti. Gli elastici le affondavano nella cellulite delle cosce molto vicino all'inguine, lasciando vistosi segni rossi sulla pelle. Le gambe nude e grosse erano lucide di sudore mentre i piedi che calzavano dozzinali ciabatte di gomma azzurra recavano le impronte della rotospazzola sporca, segno che nella foga di pulire se l'era tirata addosso.
- Per due o tre lividi mi hanno riempita di nanoidi, sto benone. Mi sembra di essermi fatta di brutto... ho il delirio di onnipotenza!
Indossava una leggera canottiera nera, stampata col disegno di una grande ragnatela bianca e una piccola scritta: “vedova nera”. Accomodò una spallina della canottiera che le era scesa fino al gomito esponendo la bretella bianca del reggiseno. Mi spaventai vedendo quanto quella le sprofondasse nella carne della spalla. Fletté il florido e rotondo braccio per mostrarmi i muscoli gonfi. Anche la pelle delle braccia e del petto era imperlata di sudore. I capelli, ancora una volta raccolti in una coda improvvisata, sembravano brillare sotto la luce intensa e alcuni ciuffi curvi, appiccicati al collo dal sudore, facevano apparire la sua pelle sempre più bianca.
- Allora non ti hanno... - non seppi concludere la frase. Lei sorrise brevemente afferrando il mio imbarazzo, e se ne prese gioco.
- No, non hanno fatto in tempo... un paio sono arrivati ad abbassarsi i pantaloni, ma non sono andati oltre. Due cazzi flosci che avrei volentieri evitato di vedere, ma niente altro... Il danno peggiore, oltre a dover disinfettare mezza nave, è che mi hanno strappato la tuta da motorista. Per il resto... niente che non si possa rimediare con una doccia.
Nuovamente provai ammirazione per quella ragazza. Mi parve dotata di una forza interiore straordinaria e mi sentii una vera merda vicino a lei. Pensai che fossero i nano medicali a farmi sentire come un cane: forse stava finendo il loro effetto. Chissà cos'altro c'era in soluzione nella roba che mi avevano iniettato.
Passammo pochi minuti scambiandoci convenevoli sull'accaduto, raccontandoci le ferite come due veterani di guerra. Il suo carattere schietto e diretto la portò subito a quello che per lei doveva essere l'argomento principale della mia visita.
- Sei qui per la tua roba, vero? Devo anche pagarti...
- Ci tenevo a sapere come stavi – cercai di difendermi, ma ero ovviamente inefficace ai suoi occhi.
- La tua tuta da vuoto è dove l'hai lasciata... almeno quella non l'hanno toccata – si voltò per entrare sul piccolo ponte di comando, dove si era svolta tutta l'avventura. Mi sembrava che nulla fosse cambiato, lì. Un pensiero doloroso.
- Tutto quello che mi è sembrato tuo l'ho lasciato sulla prima cuccetta... non ho ancora finito di mettere in ordine lì, quindi ti prego... non guardare troppo in giro!
Aveva alzato la voce per raggiungermi dal ponte di comando, com'era usanza sul Coyote. Io entrai nel piccolo alloggio dell'equipaggio e quasi non lo riconobbi. Gli evasi l'avevano messo a soqquadro rovistando ovunque, spostando tutto secondo i loro comodi, sporcando, rompendo e guastando. Ogni cuccetta sembrava aver ospitato un animale feroce, uno di quelli che si vedevano nei documentari. Qualcosa di grosso e scatenato, in grado di mandare all'aria coperte, materasso, lenzuola... nemmeno i materassi a sacco erano stati risparmiati. Tutto quanto giaceva sparso lì in giro gridava la violazione subita. Raccolsi la mia roba, facendo mentalmente l'inventario delle cose che mancavano. Qualche capo di abbigliamento, qualche piccolo ricordo, poco altro. Misi tutto nel mio sacco da viaggio: dapprima ordinatamente, poi sempre più alla rinfusa. All'improvviso volevo andarmene e basta. Stanco, tornai verso il ponte di comando e mi fermai sulla soglia. Michaela era seduta scomposta sulla poltrona del comandante e stava trafficando con schermate fitte di dati incolonnati. Il suo conto corrente, mi parve di capire. La vista di un muscoloso polpaccio pallido mi distrasse.
- Ho quasi fatto – mi disse con quel tono di voce morbido ma impersonale che avevo imparato ad apprezzare. Aspettai pazientemente fino a quando mi mostrò la schermata con l'accredito sul mio conto. La cifra era quella pattuita. Avrei preferito qualche card al portatore, ma in quel momento mi sembrò una pretesa assurda.
- Mi spiace sia andata così – disse alzandosi dalla poltrona. Di nuovo la spallina della canottiera nera le scese fin quasi al gomito, ma lei non si curò di risollevarla. La scollatura sul petto e le aperture sotto le ascelle erano tali che non si faticava a vedere che tipo di biancheria indossasse sotto. A disagio di fronte alla sua intimità, mi imposi di distogliere lo sguardo e mi incamminai lungo lo spinale per andare a prendere la mia tuta da vuoto.
- Non è certo colpa tua – non riuscii a essere rassicurante come avrei voluto. Credo che percepì nella mia voce la nota accusatrice che mi era sfuggita. Trovai la mia tuta “leggera” esattamente come l'avevo lasciata e me la misi sotto il braccio alla bell'e meglio. Sarebbe stato meglio indossarla: era pesante e ingombrante da trasportare in quel modo. Ma mi sentivo estraneo, indesiderato, e volevo solo andarmene in fretta. Mi voltai per salutare, incerto sulle parole da usare per rompere il pesante silenzio che era calato. Era di nuovo appoggiata al manico della rotospazzola.
- Volevo... volevo dirti che... - mi anticipò, ma era anche lei in imbarazzo. La guardai, ma lei distolse gli occhi. Come se avesse trovato scritto sul pavimento ciò che voleva dire, mi gettò addosso quella frase tutta d'un fiato.
- Volevo dirti che ho apprezzato quello che hai fatto. Intendo quello che hai fatto per me.
Mi sorrise e fu come se fosse la prima volta che sorridesse davvero. Il viso le si fece luminoso e gli occhi cupi parvero brillare. Mi tese la mano e me la strinse con forza. Ricambiai come meglio potei.
- Grazie – aggiunse, poi distolse gli occhi e sciolse la stretta di mano. Tornò ad adombrarsi, incupita e lontana come l'avevo sempre vista.
- Dovere – fu l'unica, idiota risposta che fui in grado di darle prima di voltarmi e andarmene via.
   
 
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