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Autore: Terre_del_Nord    23/04/2010    14 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Mirzam - MS.013 - Il Velo e la Rosa

MS.013


Mirzam Sherton
Amesbury, Wiltshire -
mar. 2 febbraio 1971

    Dovevo correre. Sempre di più. Sempre più veloce. In piena notte.
    Non sapevo dove fossi, né che cosa cercassi, ma dovevo farlo.
    Dovevo… Dovevo…
    Assolutamente.

Mi destai all’improvviso, madido di sudore, nel mio letto: da settimane non riuscivo quasi più a dormire, ero sempre agitato, qualcosa mi faceva risvegliare con il cuore accelerato, come se stessi correndo. Ogni volta che riaprivo gli occhi, però, le ombre della notte si riappropriavano subito dei miei sogni, celandomi qualcosa che sapevo essere fondamentale per me. Dovevo parlarne con mio padre: poteva trattarsi di qualche stupida maledizione di Bellatrix, certo, ma temevo fosse invece qualche influsso particolarmente potente di Milord.

    O forse…

Quei sogni erano iniziati a Yule, magari erano l’espressione della mia preoccupazione per Meda: in fondo, per colpire sua sorella, avevo contribuito ad accelerare le decisioni che la riguardavano. Anche se sapevo che sarebbe finita così, non riuscivo a placare in me il senso di colpa. Chiamai Caél, il mio Elfo maldestro si presentò alla porta della camera, gli ordinai una delle tisane rilassanti che Kreya mi faceva da bambino e, ormai incapace di riprendere sonno, attesi il suo ritorno, scrutando le stelle e sperando in un segno.
 
***

Mirzam Sherton
Amesbury, Wiltshire - mer. 10 febbraio 1971

    “Milord incontrerà Greyback!”

Un fulmineo guizzo di fiamma, nel caminetto, illuminò di rosso sangue il salone, fino a quel momento rischiarato soffusamente dalla luce tenue di alcune candele; la melodia del pianoforte s’interruppe con una stonatura improvvisa e il suono secco del cristallo infranto sul pavimento spezzò il silenzio che aveva invaso la stanza, disperdendo nell’aria un profumo intenso di vino pregiato. Mi bloccai incerto sulla porta: di ritorno, a notte inoltrata, dalla mia missione nel Cornwall con Lestrange, mi ero fatto guidare fino a mio padre, nella zona estiva del Manor, dall’inaspettato suono di un Notturno di Chopin, eseguito con qualche esitazione. Sollevato al pensiero di non dover aspettare il mattino seguente per potergli parlare, non avevo riflettuto sulla stranezza della situazione, ed ero entrato nella sala a pianterreno, come una furia. Mi pentii immediatamente di averlo fatto, il tempo di accorgermi che non era da solo e capire cosa avessi interrotto: mio padre era al piano, intento a eseguire, svogliato e distratto, un’opera che conosceva a memoria, gli occhi completamente persi su mia madre; lei era seduta al suo fianco, la testa appoggiata sulla sua spalla, con una mano gli accarezzava il viso, l’altra doveva tenere il calice che avevo sentito cadere a terra. Arrossii quando misi a fuoco la sua veste da camera leggermente in disordine, le gambe in parte scoperte e i segni dei baci di mio padre sul suo collo candido, visibili nonostante i capelli rossi sciolti sulle spalle. Il mio ingresso improvviso li aveva pietrificati in quell’attimo di fugace intimità, ora perduta per sempre: dopo un attimo di esitazione, la mamma si ricompose e iniziò a lanciare sguardi carichi d’interrogativi e paura prima a mio padre, poi a me, poi di nuovo a mio padre; anche lui era rimasto fermo al suo posto, la destra era ancora sulla tastiera, la sinistra era già salita a prenderle la mano: probabilmente non gliel’aveva mai tenuta tanto forte. Quando, infine, anche lui alzò lo sguardo dalla tastiera su di me, non vidi né imbarazzo, né rabbia, né preoccupazione, ma un’unica, inesorabile, domanda:

    “Sarebbe questo il grande uomo che ritenevi utile alla nostra causa?”

Gli aveva già lanciato ogni maledizione possibile quando aveva appreso come aveva costretto Garrett alle dimissioni, e vedere che non era stato un caso, che stava applicando sistematicamente la tattica del terrore per i suoi scopi, non poteva che disgustarlo sempre di più. Si alzò in piedi, andò alla finestra, in silenzio. Era ancora buio, mancavano ore prima che all’orizzonte s’intravvedesse il lieve bagliore che indicava il nuovo giorno, c’era solo un quarto di luna a illuminare, spettrali, gli alberi spogli, carichi di neve: tremavano appena nella quiete ovattata, mossi da una brezza leggera. Chiamò Kreya per darle rapide istruzioni: colsi una nota d’urgenza nella sua voce, segno di come avesse già preso importanti decisioni in quei brevi istanti.

    “Dei, per favore prepara Meissa e Wezen, partiremo immediatamente, più tardi scriverò a Orion per dirgli che purtroppo non andremo alla festa di Zennor. Tu, invece, seguimi: voglio sapere tutto!”
    “No, adesso basta con i vostri segreti! Sono stanca di conoscere solo brandelli di verità! Voglio sapere come stanno davvero le cose, in quali guai state cacciando voi stessi e la nostra famiglia!”

La voce di mia madre ci bloccò mentre già lo seguivo verso le scale che conducevano allo studiolo: mio padre la guardò con la consueta dolcezza, ma difficilmente si sarebbe fatto convincere; d’altra parte, il piglio di mia madre diceva che non ce l’avrebbe fatta passare liscia, non stavolta. Ultimamente, da quando Abraxas Malfoy aveva iniziato a presentarsi a casa nostra, per convincere mio padre a prendere più seriamente il suo ruolo nella società magica, c’erano continui battibecchi tra loro, per le cose più diverse, tutte però riconducibili alla politica.

    “Non c’è un minuto da perdere, Dei, conosci la fama di Greyback! Convincerò anche Orion a spedire in Scozia i suoi figli fin da subito, non aspetteremo giugno!”
    “No, tu non farai nulla del genere! Non capisci? Se scappassimo adesso, lui avrebbe la prova che conosci i suoi piani! Che Mirzam non gli è fedele, ma è sempre rimasto fedele a te! Lui potrebbe… Alshain, ti prego: hai promesso che la nostra famiglia sarebbe sempre venuta prima di tutto, che non avresti mai messo a rischio la vita di nessuno dei nostri figli! Di nessuno!”
    “È appunto per questo che dobbiamo partire, Dei!”
    “Ho fatto io la mia scelta, madre. Voi non potete restare qui, io me la caverò.”
    “Taci! Guarda in quali guai hai messo te stesso e tutti noi, Mirzam! E per che cosa? Solo per seguire quel maledetto Lestrange! Quando la smetterai di comportarti come un ragazzino irresponsabile?”

Mia madre non riuscì a trattenere oltre le lacrime, preda della tensione e della paura, fuggì di sopra, mentre io divenni porpora per la vergogna: la mamma non doveva nemmeno sapere della mia scelta, ma da come mi guardava, da un po’, era evidente che ormai avesse capito tutto; inoltre immaginava che mi fossi avvicinato a Milord per la mia debolezza, non per aiutare Sile. I miei veri motivi, però, non erano più importanti, ormai, nemmeno per me: nonostante fosse l’unica strada da percorrere, per salvare Sile ed evitare che Herrengton andasse distrutta, quella scelta era comunque sbagliata e andava contro la mia natura profonda. Tutto ciò che mia madre pensava di me era giusto: ero un irresponsabile, vivevo una vita priva di senso, piena di bugie, incertezze e paure.

    “Avrei preferito dirtelo in un altro momento, Mirzam: all’inizio dell’autunno avremo un altro bambino. Come puoi capire, questo è un momento meraviglioso, ma per tua madre è anche molto delicato. Io sono felice e al tempo stesso preoccupato. Ti prego perciò di non farla impensierire, nessuno di noi deve turbarla più del necessario. Nei prossimi mesi, ogni volta che sarò via, voglio che tu ti prenda cura di lei e dei tuoi fratelli. Promettimelo!”

Attese che annuissi, fissandomi: non era una richiesta, ma un ordine, se avessi fatto qualcosa che avrebbe causato sofferenza a mia madre, non mi avrebbe dato altre possibilità di redimermi.

    “Credo che abbia ragione lei, riguardo a Milord: è bene non cambiare i nostri piani, andandocene dimostreremmo di sapere, e quel maledetto potrebbe vendicarsi su di te. Inoltre, ammesso non sospetti ancora nulla, perderei quel minimo di vantaggio che ho su di lui, se avesse la prova che mi racconti tutto. Ci limiteremo ad aumentare le nostre difese, qui e a Londra.”
    “A Londra? Hai ancora intenzione di restare lontano da Herrengton? Con Greyback che…”
    “Ritorneremo a casa prima dell’equinozio, te lo prometto: la situazione in Irlanda è sempre più tesa, perciò tua madre e i tuoi fratelli non andranno dagli zii come avevamo deciso. Alla fine del mese, torneremo in Scozia, per preparare Meissa ai riti. Tu invece tratterai i miei affari al mio posto, a Doire. È una decisione logica, del tutto scollegata dai piani di Milord. Nei prossimi giorni, però, dovrai aiutarmi: esiste un luogo, qui ad Amesbury, una specie di capanno da caccia… Ho impiegato anni a renderlo non individuabile e sicuro, con tutti gli incanti che conosco: ci sarà utile, se da questa casa ci fosse impedito di smaterializzarci direttamente a Herrengton. Mi aiuterai a creare dei portali, ho già iniziato, li distribuiremo in tutta la casa: corrimani, attizzatoi, lampade, soprammobili, tutto deve essere a portata di mano in caso di attacco. Da quel capanno, poi, nessuno ci impedirà di metterci definitivamente al sicuro, a Herrengton.”
    “E che cosa accadrebbe se uno di noi fosse attaccato lontano da qui, per strada? O se Rigel fosse preso mentre si trova a scuola? Solo Herrengton è veramente sicura!”
    “Non mi farò costringere da quel bastardo a rimanere nascosto come un topo per sempre, Mirzam! Né impedirò ai miei figli di vivere una vita degna di questo nome, a causa sua. Continueremo a comportarci normalmente, solo con maggiore cautela. Quello che stiamo attraversando non è che l’inizio, ci aspetta una guerra, tragica e lunga: i segni parlano chiaramente.”
    “Non crederai davvero che Milord impiegherà anni ad assumere il potere!”
    “No, di questo passo, a essere ottimisti, non impiegherà più di un paio di anni a prendere Hogwarts e il Ministero, ma anche se ci riuscisse, non sarebbe finita lì. Credi davvero che il suo dominio sarebbe la soluzione migliore per il mondo magico? Ora siamo nelle mani di irresponsabili che non ragionano sulle conseguenze, vero, ma con Milord saremmo tutti schiavi assoggettati ai suoi capricci! Il mondo magico potrebbe cadere, e forse cadrà, ma avrà sempre la possibilità di risorgere, finché Habarcat resterà al riparo dalle sue grinfie.”
    “Salazar!Quindi è questo che vuoi fare? Organizzare la resistenza, guidare filobabbani rinnegati?”

Mio padre andò a versarsi da bere, lo sguardo perso nelle fiamme del caminetto, in silenzio.

    “Chiederò a messer Yuket di incastonare i diamanti di Javanna nei nostri anelli: Walburga non si offenderà se useremo il suo dono per difendere anche il resto della famiglia, non solo Wezen. Non poteva scegliere talismano più potente contro le forze oscure. In seguito renderemo anche quegli anelli delle “passaporte”, così saremo al sicuro anche lontano da casa. Andrà tutto bene.”
    “Non mi hai risposto: come pensi di schierarti se ci sarà davvero questa guerra?”

Alzai la voce, mio padre mi fissò, impassibile, probabilmente aveva il mio stesso timore: che un giorno ci saremmo ritrovati a combattere da parti opposte della stessa barricata, e allora non ci saremmo scontrati più per stupidi discorsi teorici, ma per la nostra vita e per coloro che amavamo.

    “Non ne ho idea, Mirzam. Qualsiasi parte, per la Confraternita, sarebbe quella sbagliata. So soltanto che la guerra ci sarà, le Pietre Veggenti parlano chiaramente e, purtroppo, non solo loro.”
    “Ho capito… Vorresti che le Terre del Nord restassero fuori dalla mischia, perché consideri entrambe le fazioni incapaci di comprendere quale sia il vero bene del mondo magico...”
    “Sai come la penso sul tuo caro “Milord” e sul Ministero, ma non m’illudo di poter fare ciò che voglio, so già che non ci lasceranno in pace: in caso di guerra, i filobabbani guarderebbero ai Maghi della Confraternita come a dei nemici, anche se non ci schierassimo. Dall’altra parte, le pressioni per coinvolgerci sarebbero pesanti: già ora Abraxas è sempre più insistente nelle sue visite e lo stesso interesse di “Milord” nei tuoi confronti… Io non credo che voglia una prova di fedeltà da te, lui si aspetta quello che stai facendo, che tu mi dica tutto, perché sei il tramite perfetto tra noi.”
    “Perché mi hai svelato le tue intenzioni, allora? Se lui le conoscerà, le nostre difese saranno inutili!”
    “Quanto hai appreso da Fear proteggerà il nostro segreto e, al limite, anche se non credo sarà necessario, cancellerò i tuoi ricordi: non mi faccio problemi se di mezzo c’è la vostra salvezza!”
    “Certo, la tua etica “personale”: fai una regola e sei il primo a infrangerla, quando non ti fa più comodo rispettarla. Sai, alcuni chiamano questo atteggiamento ipocrisia.”
    “Al mondo piace etichettare e catalogare persone e comportamenti in uno schedario asettico, ma hai il mio sangue, Mirzam, e se non mi sto sbagliando su di te, mi sarà sufficiente aspettare che diventi, a tua volta, padre: allora comprenderai meglio la mia etica e scoprirai in che cosa è diversa dall’ipocrisia. Ora, però, raccontami di Greyback: è quasi l’alba, dobbiamo agire in fretta!”
    “Ieri sera, Rodolphus aveva un lavoro importante da fare, mi ha invitato a seguirlo; ho accettato, i nostri rapporti ultimamente non erano dei migliori, e si trattava solo di incontrare una persona…”
    “Già, una bella persona, davvero raccomandabile…”

Non mi curai degli ulteriori apprezzamenti di mio padre sui personaggi coinvolti e iniziai a raccontare della notte spettrale, nei boschi attorno a Trevillick, dei rumori della notte, di quel passo pesante che aveva rotto la quiete innevata, di quell’essere orrendo che, pur umano, manteneva nello sguardo qualcosa di demoniaco e lupesco. Tutto in lui era enorme e spaventoso: l’imponenza della figura, la cavernosità della voce, i loschi figuri, numerosi, al suo seguito, l’intenso e dolciastro odore di morte, che emanavano le sue vesti. Eravamo ancora lontani dalla luna piena, ma tutti sospettavano che Greyback si nutrisse di sangue umano anche quando non assumeva la forma di lupo: dopo averlo visto, me ne convinsi anch’io. Rodolphus aveva mascherato a stento il suo disgusto, causato solo dall’aspetto, dall’odore e dalla sua natura ibrida; io, al contrario, ero rimasto sconvolto appena avevo ascoltato da Lestrange quale proposta Milord avrebbe fatto al mostro: un’alleanza per spezzare la volontà di chi gli si opponeva. Dopo la gioia per le dimissioni di Garrett, i sostenitori di Milord non avevano tratto soddisfazione dalle elezioni di gennaio, la vittoria era, infatti, andata a un uomo ancor meno addomesticabile di Garrett, un irreprensibile Grifondoro di Londra, appartenente a una famiglia che aveva dato i natali a numerosi e coraggiosi Aurors, amico di lunga data dello stesso Dumbledore: Gedeon Longbottom.

    “Siamo ai primi contatti, ma temo si accorderanno in fretta. Quando s’incontreranno di persona?”
    “Greyback raggiungerà Milord a Trevillick la vigilia del prossimo novilunio…”
    “Manca circa un mese: occorrerà agire in fretta, ma possiamo farcela! Scriverò a Yuket, ho bisogno che ci raggiunga per quegli anelli, gli darò qualsiasi cosa, purché li prepari il prima possibile! Ora per favore, vai di sopra, da tua madre: devi dirle per quale motivo hai deciso di seguire Milord.”
    “Devo andare proprio adesso? Io?”

Mio padre si limitò ad annuire, sapevo che dovevo parlarle, ma non capivo perché dovessi farlo proprio in quel momento: c’era qualcosa di strano, di solito mio padre sarebbe andato di corsa da lei per confortarla, invece sembrava distratto da qualcosa e, soprattutto, voleva che mi allontanassi. Mi diressi verso il corridoio, ma appena fui inghiottito dal buio, mi fermai per osservarlo, non visto. All’inizio parve indeciso su cosa fare, poi, come uscito da un sogno, andò verso il suo leggio, non aprì il cassetto in cui teneva le pergamene e le buste fregiate con i simboli della Confraternita, ma quello in cui nascondeva carta babbana da usare per le brutte; lo vidi scrivere poche rapide parole, poi girò l’anello che portava alla destra e Doimòs si materializzò nella stanza.

    “Altera il tuo aspetto e vai da lui: dovrebbe essere di ritorno da “La Testa di Porco”. Chiedigli se si sono schiuse le uova di Thestral e digli che deve consegnarla al vecchio entro l’alba.”
    “Doimòs parte subito, padrone.”

Non riuscivo a capire cosa c’entrassero le uova di Thestral, e perché Doimòs dovesse camuffarsi per andare a Hogsmeade: non avevo alcuna idea di chi dovesse incontrare e cosa stessero combinando. Il vecchio elfo fece un inchino, poi si scambiarono uno sguardo pieno di significato: chiunque avrebbe notato la stranezza della mano ingioiellata del padrone appoggiata amorevole sulla spalla incurvata del servo, e avrebbe pensato a una delle tante bizzarrie di mio padre. Non era una bizzarria, però: c’erano davvero fiducia e rispetto in quei gesti. Così come non era ipocrisia, ma amore, ciò che in quegli anni l’aveva fatto comportare in modo ai miei occhi “strano” e, a volte, sbagliato: qualsiasi decisione mio padre avesse preso, riguardo a quella dannata guerra, sarebbe stata dettata solo dall’amore che provava per la sua famiglia.

***

Mirzam Sherton
Zennor, Cornwall - dom. 21 febbraio 1971 (chap.7)

La giornata era magnifica, sembrava che finalmente quel lunghissimo e rigido inverno fosse finito. Mi guardai intorno, ammirato: ovunque c’erano eleganti composizioni floreali e ricercate e preziose decorazioni Slytherin e, a far da sottofondo alle conversazioni, aleggiava una musica raffinata, creazione di un famoso compositore del secolo predente, Finnigan O’Riordan, divenuto celebre per aver creato l’Oxamot, uno strumento composto di legno di Tasso e piume d’Ippogrifo e di Fenice. Anche il cibo era ricercatissimo: avevo sentito Orion raccontare che per l’ingresso in società di Sirius, Walburga non si era limitata a terrorizzare i suoi soliti elfi, ma ne aveva comprato uno proveniente dalla Francia, maestro nel preparare pietanze e intingoli sconosciuti in tutto il Regno. Non c’erano dubbi: Walburga Black era una dannata arpia, ma non si poteva criticare il suo gusto e la sua maestria nell’organizzare feste riuscitissime e ora volteggiava, orgogliosa e austera, tra gli ospiti, godendosi i meritati complimenti dal fior fiore del mondo magico. Orion, da parte sua, per quel poco che un Black poteva mostrare dei propri sentimenti, gongolava e, orgoglioso dei suoi ragazzi, li presentava col solito modo arcigno, certo, ma come il tesoro più prezioso della famiglia: l’indomani Sirius avrebbe compiuto undici anni e, conoscendolo, il mio padrino doveva essere in fibrillazione anche più di suo figlio per l’arrivo della lettera da Hogwarts. Mi persi dietro alcuni ricordi di Orion che risalivano alla mia infanzia e, distratto, non mi accorsi di non essere più solo, lì, sulla veranda da cui si poteva ammirare tutto il parco, fino agli alberi e ai costoni che scendevano a picco nel mare, punteggiato al largo da chiare vele babbane.

    “Stai pensando alla tua Andromeda, mentre si fa scopare dal Sanguesporco, Sherton? Sai, scommetto che a letto è più bravo di te! Non che ci voglia molto, sei talmente deludente!”
    “Già… talmente deludente che mi hai supplicato per notti intere di prenderti, più e più volte…”

Ritornai al presente, attratto dalla voce sussurrata e sibilante, che mi arrivava da dietro le spalle: mi strappò parole altrettanto bisbigliate e un sorriso aperto, il sorriso della vittoria e della libertà. Anche per me quello sarebbe stato un grande giorno, il giorno del trionfo. Mi voltai.

    “Buongiorno a te, Bellatrix Black, come sempre nascosta dietro porte e tendaggi, a spiare il prossimo. Eppure, almeno oggi, non dovresti farlo: sei tu la vera protagonista! È il tuo grande giorno! Lady Bellatrix Black in Lestrange… Direi che suona bene… Non sei felice ed emozionata?”
    “Moltissimo, Sherton, ma ti confido un segreto: lo sarò ancora di più il giorno che ti avrò strappato il cuore con le mie mani e l’avrò esposto in una teca, come fa mia zia con le teste dei suoi elfi…”

Scoppiai a ridere e le accarezzai il viso, lei mi fulminò con odio, ma non si sottrasse al mio tocco.

    “Come reciti bene la parte della dura, Black! Io però ti conosco, so come sei davvero… E questi non sono pensieri adatti a una ragazza di buona famiglia come te, non il giorno del suo fidanzamento: dovresti fare come tua madre e Narcissa, occuparti degli invitati, delle frivolezze, della bellezza, sono molto più opportuni… E sorridi! Oggi, sei ancora più meravigliosa del solito, sai? Il vestito che indossi è incantevole, ti dà un tocco… direi quasi… virgineo!”

Sorrisi, le sue labbra tremavano dal desiderio di insultarmi, ma c’erano troppe persone che ci passavano accanto, per rientrare nel salone o uscire nel parco, non poteva reagire senza dare scandalo: approfittai della situazione per torturarla, come lei aveva fatto tante volte con me.

    “Rodolphus è davvero un uomo fortunato, lo invidieranno tutti: basta guardarti per capire che sei nata per questo, per sposare un ricco marito Serpeverde e donargli dei perfetti figli purosangue. Ricordi, tanti anni fa, su quel treno… quanto temevi questa realtà? Volevi sfuggire al tuo destino, ma io lo sapevo già allora: appena avessi trovato la persona giusta, quella con cui vivere per tutta la vita, il futuro non ti avrebbe più spaventato. Avanti, Bella, brinda con me! Alla futura signora Lestrange!”

Le offrii un calice di delizioso champagne elfico, servito da un elfetto che si era materializzato appena avevo pronunciato il verbo “brindare”: Bella lo accettò sorridente, fece addirittura un cenno di ringraziamento, gli occhi bassi, finché fummo a portata di una coppia di ospiti che rientrava dal parco, dopodiché, di nuovo soli, mi gettò il contenuto in faccia, un ghigno di disprezzo stampato sul viso.

    “Brindo a te, Sherton! A un maledetto bastardo! E alla vendetta che mi prenderò, puoi starne certo!”

Sapevo che Bella aspettava il momento giusto per cogliermi da solo e farmi una scenata: non mi preoccupava affrontarla, ma non potevamo permetterci di attirare l’attenzione di qualcuno, o avremmo dovuto dare entrambi risposte troppo complicate. Mi ripulii rapidamente e mi mantenni indifferente, mentre le sibilavo di darsi una calmata.

    “Facciamo due passi, Black, l’aria fresca aiuta a calmare i nervi!”

Bella mi seguì inviperita nel parco, fino a un punto riparato dalla vista di chi chiacchierava nel salone; da lontano, vidi mia sorella che, imbronciata, stava seduta su una panchina con Sirius: mi sarebbe piaciuto capire se stavano bisticciando di nuovo, ma non potevo permettermi distrazioni.

    “Io sono una Black, Sherton! Tu non puoi darmi via così! Non dopo quello che c’è stato tra noi!”
    “Tuo padre ti ha promessa al Mago che ti ha chiesto: Rodolphus Lestrange! Io cosa c’entro? Che cosa vuoi da me? Cosa diavolo vuoi? Io non ti ho mai detto ti amo e non ti ho mai fatto promesse, e per un motivo ben preciso: perché io non ti amo, non ti ho mai amato e non ti amerò mai!”
    “Bugiardo!”

Lo schiaffo arrivò fulmineo e potente, mi asciugai le labbra col dorso della mano: non era stato doloroso, non più di tante altre volte, ma mi colpì vedere le mie dita bagnate dal mio sangue. La guardai: Bella osservava quel nettare rubino con sguardo bramoso, poi di colpo gli occhi le si riempirono di lacrime e si voltò, in silenzio, come se un groppo alla gola le impedisse di insultarmi. Alla fine doveva aver immaginato sul serio che il mio sangue si sarebbe fuso al suo, compiendo il destino voluto per lei dalla sua famiglia, certo, ma anche, inaspettatamente, la sua felicità; ai suoi occhi, avremmo potuto unirci non più solo per dovere, ma anche per concretizzare un amore vero in una nuova vita, in un figlio voluto col cuore, qualcuno da amare più di se stessa e delle sue idee. Conoscevo quel dolore sordo, lo provavo ogni volta che pensavo a chi avevo perduto e al fatto che un giorno avrebbe avuto dei figli, ma non da me: sapevo di non voler far provare a nessuno, nemmeno a chi detestavo, quel senso di disperazione profonda e inesorabile. Dopo quanto mi aveva fatto, sapevo di non dover provare rimorsi: era colpa di Bella se avevo perso tanto nella vita e ora non era il caso che mi sentissi a disagio; da mesi avevo a che fare con quella pazza, solo per godermi il giorno in cui l’avrei umiliata senza alcuna pietà. Certo, le sue lacrime erano un dono che non avevo calcolato: sapevo che Bella era incapace di piangere pertanto immaginavo che se proprio l’avesse fatto a causa mia, sarebbe stato per rabbia, da sola, nel buio della sua stanza, affondando il pugnale nel cuscino e sognando di uccidermi. Dovevo complimentarmi con me stesso se ero riuscito a portarla ben oltre quanto mi ero prefisso, invece, osservarla così, sconfitta, senza maschere, preda di una sofferenza autentica, come un essere umano qualsiasi, mi stava turbando: la lucidità fredda e crudele che mi aveva invaso per mesi non riusciva a riprendere il sopravvento, sentivo il cuore stringersi a quelle lacrime, e assalirmi il senso di colpa, la vergogna e il rimorso, per le mie azioni e le mie bugie. Non ero fatto per le azioni spregevoli e vigliacche, vero, l’avevo capito quando l’avevo salvata dall’auror, eppure non dovevo sentirmi in colpa per lei, ma godere per la mia meritata vendetta: Merlino solo sapeva quanto Bellatrix Black meritasse di soffrire! Feci un sospiro fondo, cercando di tornare lucido. Ce l’avevo fatta, dovevo rallegrarmi e ringraziare gli dei perché era finita, non curarmi di quelle sensazioni: evidentemente, per ottenere la mia vittoria, mi ero esposto troppo, ma appena mi fossi disintossicato da quell’esperienza e avessi recuperato il mio equilibrio, avrei visto tutto nell’ottica giusta.

    “… giuro che me la pagherai…”
    “Al tuo posto, Black, penserei solo a non fare danni: ormai, puoi rimetterci solo tu.”
    “Mi minacci? È questo che fai? Mi stai minacciando? Ricordati che posso andare là dentro e sputtanarti davanti a tutti! Tutti sapranno di noi, di quanto sei vigliacco, di come ti sei approfittato di me, e di come hai usato persino tuo padre per non assumerti le tue responsabilità nei miei confronti! C’è anche Bartemious Crouch: a lui potrei raccontare di te e di Milord…”
    “Davvero? E quali prove avresti? Ne abbiamo già parlato Black: segui questa strada e ti farai solo del male! Se mi accusassi, potrei essere un gentiluomo e negare, facendoti passare per pazza, altrimenti potrei dire che ci ho provato e mi è andata bene, che non è colpa mia se sei stata un’ingenua e ti sei bevuta le bugie che ti ho detto per portarti a letto. A me non accadrebbe niente, perché sei maggiorenne, ma per te è diverso: Roland Lestrange potrebbe costringere suo figlio a strappare il vostro contratto e la tua famiglia non ti perdonerebbe mai, i Black non tollererebbero un altro scandalo, non ora che siete sulla bocca di tutti per tua sorella.”
    “Se credi che m’importi qualcosa dello scandalo e di cosa penserebbe quel cretino di Lestrange…”

Cercò di correre via, forse per rientrare nel salone e fare la sua sceneggiata, ma fui più veloce di lei, riuscii a fermarla e a stordirla con un leggero incantesimo intorpidente. L’arpionai per un braccio e ci inoltrammo nel parco, fino a una zona appartata, dove sorgeva un vecchio rifugio del guardiacaccia: la serrai per i polsi con una certa forza, cercando di entrare nella capanna a spallate, mentre lei, ripresasi dall’incantesimo, si dibatteva e provava a calciarmi. Appena entrammo, chiusi la porta dietro di me e gettai un paio di “Muffliato” per sicurezza: forse dovevo affatturarla così che stesse buona per il resto della giornata, ma ora che riconoscevo la solita Bellatrix, volevo solamente mettere in atto l’ultima fase del mio piano e per far questo Black doveva essere pienamente in sé.

    “Se credi di poterti approfittare di nuovo di me, io… Per te è finita! Posso anche tacere, adesso, ma appena mi avrà sposata, Lestrange scoprirà che c’è già stato qualcuno prima di lui, ed io non avrò scrupoli a dirgli che quel qualcuno sei tu, il suo amico del cuore! Non dovrò nemmeno stregare quell’idiota per spingerlo a darti la caccia e tagliarti la testa!”
    “Salazar, Black, non farmi ridere, per favore! Rodolphus non è un idiota, sa che donna sei, sa qual è il tuo vero valore: per lui contano solo i tuoi soldi e il tuo nome! Sa già che hai solo avanzi da offrirgli, è dai tempi di Hogwarts che hai la fama di una facile!”
    “Ma come ti permetti!”

Evitai per un soffio un altro schiaffo, cercai di bloccarle i polsi per difendermi ma presi dei calci: mi sembrava di aver a che fare con una bestia selvatica, completamente impazzita, quell’offesa sembrava ai suoi occhi ancora più grave di tutto quello che le avessi fatto e detto. Sorrisi.

    “Se tu fossi senza colpa, Black, al tuo posto, mi arrabbierei anch’io, ma sappiamo entrambi che te la sei cercata: dovevi saperlo che prima o poi ti avrei presentato il conto. Perciò prenditela con te stessa e mettiti il cuore in pace, perché quello che ti ha riservato il destino non è poco! E ora… lasciati dire addio come meriti…”

Si dibatteva e continuava a insultarmi, io avevo sempre più difficoltà a trattenerla, ma la baciai lo stesso, delicatamente, sulle labbra. Ricevetti uno sputo, le risposi con un sorriso e la strinsi ancora di più addosso a me, tanto da sentire il suo cuore pronto a esploderle nel petto: non sapevo se fosse più grande la rabbia o la paura, in quel momento, o se magari fosse di nuovo il desiderio ad accenderle tanto violentemente l’anima. Le accarezzai lentamente il collo, come le piaceva, senza riuscire a strapparle il solito sospiro, vidi però i suoi occhi accendersi, carichi di odio e al tempo stesso di passione: avrebbe passato tutta la vita a cercare di vendicarsi, tanto valeva prendersi ogni soddisfazione, fino in fondo.

    “So cosa ti aspetti, da me, Black, ma… d’ora in poi potrai fare certe richieste solo al tuo sposo: la fedeltà, ricevuta o donata, conta troppo per me, dovresti saperlo. Ed io mi sono già preso tutto quello che volevo da te: persino le tue lacrime. Merlino solo sa, quanto meriti di soffrire, Bella! E godo nel sapere che questo è solo l’inizio: ogni giorno che vivrai accanto a Rodolphus, ogni volta che ti prenderà e ti umilierà, sconterai la pena che meriti per quello che hai fatto a me, a tua sorella e a tutti quelli che hanno avuto la sventura di conoscerti! Forse ora inizi ad avere un’idea di cosa provo davvero per te. Resta il fatto, però, che io mantengo sempre le mie promesse…”

Estrassi un’ampolla dal panciotto, osservai Bella: era smarrita e turbata, i suoi occhi carichi di domande si perdevano nella luce perlacea dei miei ricordi, chiusi in una preziosa custodia di cristallo e argento, per un attimo la curiosità e la speranza presero il posto dell’odio. 

    “Questi ricordi ti serviranno per realizzare l’unico sogno che ti è rimasto, Black. Ti ho promesso di portarti da Milord: in questa ampolla c’è il ricordo del mio ultimo colloquio con Lui, a proposito di te. Non voglio placare la tua ira nei miei confronti, facendoti vedere che ti ho difesa e sostenuta, lo faccio per la causa, perché ci tengo, perché so di averti istruita al meglio e che ci saresti molto utile. Milord crede che il matrimonio possa distrarti, ma io ti conosco, so quanto desideri far parte del Suo seguito, nulla può fermarti, per questo l’ho convinto a riflettere e a darti altro tempo. Guarda questi ricordi tra un mese, dopo il prossimo plenilunio si scioglieranno gli incantesimi che ho posto a loro protezione, e fai attenzione ai dettagli: Milord mi fa una domanda, pochi sanno come rispondere. Ti conviene conoscere quella risposta quando lo incontrerai… E ora, addio, Lestrange…”
    “Mirzam…”

Le consegnai l’ampolla con fare cerimoniale, poi trattenendomi con difficoltà dal riderle in faccia, me ne andai, lasciandola sola, turbata e al tempo stesso emozionata al pensiero di avere ancora almeno una speranza per la quale vivere. Di certo, appena avesse guardato quei ricordi, sarebbe esploso, in tutta la sua violenza, il suo odio nei miei confronti: sarebbe stato il compimento di tutti i miei inganni. Sorrisi, se avessi già posseduto l’abilità di mio padre di trasmutarmi nella bestia che preferivo, sarei diventato un esserino tanto piccolo e discreto da entrare nella camera del pensatoio dei Black insieme con lei, e lì avrei ammirato la sua totale umiliazione, quando non avrebbe visto alcun colloquio con Milord, ma i miei ricordi delle nostre notti insieme. Ricordi assolutamente diversi dai suoi. La verità era che desideravo vendicarmi di Bella da quando avevo scoperto che aveva mentito sia a Sile sia a Meda, ma nel tempo, ero stato distratto da quei propositi da vari eventi; quando avevamo iniziato a lavorare insieme, poi, non mi era sembrato giusto agire, per rispetto verso Rodolphus. Col tempo, la frequentazione costante mi aveva mostrato in lei quella parte ingenua e gentile che credevo non esistesse, tanto che per un breve periodo mi ero convinto di aver commesso un errore, su quel treno, respingendola e negandomi ai disegni del destino: credendo che fosse sincera, avevo smesso di allontanarla, godendomi i momenti di umanità che squarciavano il suo animo oscuro. Ero arrivato a illudermi che forse, con me, poteva nascere una Bellatrix diversa, una che viveva d’amore e di speranza, non solo di odio, gelosia, ossessione. Dopo quel tragico pomeriggio a Hogsmeade, però, la verità aveva spazzato via ogni mia illusione: la vera Bellatrix era sempre stata e sarebbe stata per sempre quella che detestavo, l’anima nera che aveva fagocitato la mia vita, anni prima, riducendola in cenere. Non c’era nient’altro che odio e follia, in lei. La notte passata abbracciati a “La dama scarlatta” mi aveva rivelato che si era profondamente legata a me, forse si era persino innamorata, ammesso potesse chiamarsi amore l’ossessione distruttiva che provava per me da quando eravamo ragazzini: si sentiva sicura, aveva abbassato le difese ed io avevo deciso che era il momento di approfittare della situazione e farle pagare i conti in sospeso. Non era stata una vendetta a freddo, per questioni lontane. No. Fredda era stata la mia reazione, razionale come mai nella mia vita: il dolore aveva fatto nascere in me una persona nuova. Non avevo prove, ma dietro la rovina di Meda sapevo che c’era lei, Bellatrix non si era limitata a mentire su di me all’epoca del matrimonio di Rookwood, aveva continuato nel tempo, in maniera sempre più subdola, colpendoci mortalmente nel momento più delicato, distruggendo ogni possibilità di riavvicinamento tra me e sua sorella. Se non fosse stato per Bella, sarei riuscito a spiegarmi con Andromeda e, forse, a salvarla. Con quella convinzione avevo studiato tutte le pozioni più potenti e non mortali contenenti il Giusquiamo e alcune erbe dalle proprietà ipnotiche; avevo raccolto personalmente le piante, le avevo preparate e le avevo sperimentate su me stesso, arrivando a formulare una miscela completamente nuova, potente ed efficace, che avevo alla fine utilizzato. Dopo aver finto di cedere alle sue lusinghe, avevo alterato, per mesi, le percezioni di Bella servendomi del mio preparato: ogni volta che si era avvicinata a me, ne avevo approfittato per drogarla mescolandone dosi via via più abbondanti nel suo vino o facendoglielo penetrare sotto pelle, mischiato agli oli e alle essenze, con cui la massaggiavo per darle piacere e farla rilassare. Una volta semi-incosciente, avevo abilmente indirizzato i suoi pensieri e le sue fantasie, leggendole dei passi scabrosi di una famosa opera erotica babbana. Avrei desiderato vederla, essere presente, quando avesse appreso quel dettaglio: le sue fantasie, le fantasie di una Strega purosangue, le sue stesse mani, erano state guidate e plagiate dai versi di un volgare babbano. Le conoscenze di anatomia, apprese di nascosto dagli appunti di mia zia, da ragazzino, per capire meglio le femmine, mi avevano aiutato a creare pozioni capaci di provocare in Bella il senso di spossatezza e appagamento tipici di una notte movimentata, dando credibilità “fisica” alle fantasie. Il vero tocco da maestro erano stati infine i finti lividi stampati opportunamente qua e là sul suo corpo e sul mio: sarebbe esplosa, appena avesse scoperto che le mie impronte sui suoi fianchi, di cui era andata tanto orgogliosa, memoria di una notte particolarmente movimentata, erano in realtà il frutto della presa esagerata di uno degli scherzi comprati da Zonko, “Presa stretta, non mi scappi”. Ci avevo messo un po’ a studiarli ma, alla fine, ero riuscito a far lasciare ai rampini del giocattolo dei segni che assomigliavano incredibilmente alle impronte delle mie dita. Avevo faticato a lungo per creare quel mondo di bugie e illusioni, ma alla fine grazie a quella recita ero riuscito a convincerla di essere ai suoi piedi, di appartenere a lei, anima e corpo, di essere pronto a chiederla in moglie e ad andare di fronte a Milord, con lei, per prendere il marchio insieme. C’era la possibilità che Bellatrix non credesse a quei ricordi, vero, che considerasse la fialetta uno scherzo stupido, ma a me bastava che vivesse per sempre accanto a Rodolphus, l’uomo che più detestava, con il dubbio che la felicità vissuta con me e i progetti su Milord, fossero solo una patetica illusione, oltre che un’evidente presa in giro..
Rientrai nel salone, soddisfatto, un leggero sorriso compiaciuto stampato in faccia: probabilmente ero stato troppo buono, troppo, un altro al mio posto avrebbe approfittato seriamente del suo stato alterato e si sarebbe divertito, magari arrivando a offrirla pure ad altri. Approfittarmi fisicamente di lei, però, non era mai stato il mio scopo: la prima volta che mi ero ritrovato nella camera con Bellatrix completamente indifesa tra le braccia, non avevo potuto negare che fosse più desiderabile di quanto avessi immaginato, però non l’avrei toccata mai, nemmeno per vendetta. Se avessi posseduto quel corpo, avrei acuito ancora di più, il mattino dopo, la disperazione per la mia solitudine: Bella aveva fatto terra bruciata attorno a me solo per avermi, se avessi ceduto, anche solo per vendetta, avrebbe vinto lei. Non avrei mai permesso nulla del genere. Io non gli sarei appartenuto in nessun modo.

    Mai.

Raggiunsi gli altri invitati, mia madre mi disse che papà e Meissa erano scomparsi, io feci un rapido giro tra gli ospiti e notai, seduto pensoso in un angolo, Sirius Black con un curioso rossore su una guancia: pareva tanto uno schiaffo, e conoscendo mia sorella, immaginai cosa potesse essere successo, non andai a indagare, però, perché mi sembrava già abbastanza in imbarazzo. Rodolphus, dall’altra parte della sala, era nervoso e agitato, presi due calici di champagne elfico e mi diressi da lui, elargendo sorrisi radiosi a tutti quelli che incrociavo: non mi sentivo così felice da tempo immemorabile, ormai mancava poco all’annuncio dei Black.

    “Sei ridotto così male al pensiero che queste saranno le tue ultime settimane di libertà o perché hai finalmente capito quanto è folle la donna che vorresti metterti nel letto?”
    “Parli per invidia Sherton, i fatti ti dimostreranno che ti sbagli di grosso su Bellatrix!”
    “Sai, ho notato che fai di queste affermazioni ogni volta che ho bisogno di una scopa nuova!”

Scoppiai a ridere: da anni, ogni volta che scommettevo con Rodolphus su qualcosa, si ritrovava sistematicamente ripulito per bene. Inoltre, mi era davvero mancata quell’atmosfera giocosa tra noi.

    “Ridi, ridi pure, Sherton, ma stavolta sarai tu a dover sborsare una fortuna, perché se vinco la scommessa, mi dovrai quell’Athame d’argento che abbiamo visto da Burgin, la settimana scorsa!”
    “Quel gioiellino vale venti scope da Quidditch, Rodolphus! Che me ne faccio di venti scope? Dovrei trovare qualcosa di altrettanto prezioso, ma sai che non voglio approfittarmi di te!”
    “Fossi in te, non ci conterei troppo, Sherton: ho preso informazioni, tutto quel Veritaserum andava testato, perciò so quello che dico!  Mentre rifletti su quanto ti costerà questa scommessa, parliamo di cose altrettanto serie: mi farai da testimone di nozze, vero? Non avrai mai occasione migliore della mia festa di addio al celibato per farmi scontare tutti gli scherzi di questi ultimi anni!”
    “Quel ruolo mi spetta di diritto, se non altro perché ti ho servito io Bellatrix su un piatto d’argento! Certo, anche un bastardo come te avrebbe meritato una donna migliore ma se a te sta bene così… a me basta vederla da vicino quando sarà costretta a dirti ad alta voce “lo voglio”, ahahahah…”
    “Salazar, Sherton, abbi rispetto per la mia futura moglie!”
    “Ora pretendi troppo, Lestrange, davvero… pretendi troppo!”

Prendemmo dell’altro champagne e rimanemmo ad ammirare il parco dalla vetrata del salone. Di colpo mi venne un’idea e ci provai, magari mi sarebbe andata bene.

    “Se vincerò la scommessa, sarò buono, mi darai solamente l’anello di ferro che tuo padre non vuol vendere al mio!”
    “Che cosa? Quella brutta verghetta di ferro arrugginito? Il mio vecchio dice che tuo padre ci prova da anni a prendersela e lui la tiene per ripicca, per fargli dispetto e vederlo incazzato! Si può sapere che cosa c’è sotto? Ho provato a incantarlo, ma non reagisce a nessuna magia!”
    “Appunto, Rodolphus: è solo una storia di ripicca! Invece, per la causa di Milord, servirebbe coesione tra le principali famiglie slytherin: solo così potremmo prendere rapidamente il Ministero! Quei due devono smettere di farsi i dispetti e restare attaccati a fatti accaduti una vita fa!”
    “Hai ragione, non capiscono che il fine comune va preferito alle beghe personali. Ti aiuterò, ma tu mi svelerai il segreto di quell’anello… voglio dire… non sarà mica il famigerato anello di Salazar?”
    “Ma quale Salazar, Rodolphus! Non c’è alcun segreto, è questa la cosa tragica! Quell’anello ha solo un valore sentimentale, pare sia appartenuto a una nostra antenata del XV secolo e come sai, mio padre vuol riportare a Herrengton quanto ci è stato rubato nel corso della guerra! Sta buttando una fortuna dietro a queste cazzate!”
    “Se i motivi fossero solo questi, sarebbe bizzarro persino per tuo padre tutto questo interesse per l’anello! Deve esserci sotto qualcosa, Mirzam, magari non lo dice a te, perché non si fida…”
    “Se lo conoscessi, ti renderesti conto che mio padre è anche più bizzarro di quanto si pensi ed è molto sopravvalutato: la ricerca di quel ciarpame, per me, è solo il sintomo dell’età che avanza!”
    “Facciamo così: tu vieni al Manor e mi fai vedere che cosa accade all’anello sulle mani dell’erede di Hifrig. Se non reagisce come immagino ed io perdessi la scommessa, m’impegno a dartelo… Quanto a tuo padre, però… per me non è pazzo… è furbo, molto furbo… d’altra parte... si sa… voi Maghi del Nord avete vite intense, ma molto brevi e... presto il mondo magico potrebbe aver bisogno di… un nuovo signore a Herrengton… meno bizzarro… più accomodante… più fidato…”
    “Che cosa vorresti dire, Lestrange?”
    “Nulla, Sherton… nulla… Salazar… credo sia arrivato il momento…”
    “Rodolphus…”

Mi guardò ammiccante, sentii un brivido di gelo scivolarmi lungo la schiena, guardai mio padre rientrare nel salone insieme a mia sorella, dirigersi verso Sirius e parlottare per pochi istanti, il ragazzino tese la mano verso di lei che, risentita, non voleva prenderla, confermando così la mia teoria sulla responsabile di quel livido. Alla fine, Meissa fu costretta a sedersi accanto a Black, scontrosa, non appena Orion fece cenno di volere l’attenzione di tutti: Rodolphus sembrò pietrificarsi dall’emozione, quando Cygnus apparve nel salone seguito da Bellatrix, io rimasi al suo fianco, turbato, temendo di aver capito bene quello che aveva appena detto. Fummo raggiunti da mio padre che voleva essere tra i primi a complimentarsi, per far vedere alle malelingue che non c’erano screzi tra le nostre famiglie, a causa di quel fidanzamento. Io sentivo il cuore a mille: Lestrange aveva detto per scherzo, o lui e Milord stavano seriamente pensando di fare qualcosa per liberarsi di mio padre?

    “Sono veramente lieto di ospitare qui, in questo giorno già rilevante che segna l’ingresso nella società magica di mio figlio Sirius, tutti quanti voi, amici e parenti, perché oggi ho anche l’onore di annunciare, io, a tutti voi, ufficialmente, il fidanzamento della nostra adorata Bellatrix, figlia di Cygnus Black e Druella Rosier, con il nobile Rodolphus Lestrange. Un brindisi a questa felice unione, unione, ricordo, di due anime, certo, ma anche di due tra le più antiche e nobili e pure famiglie Slytherins che da sempre condividono valori, aspettative e progetti. Un brindisi a questa meravigliosa coppia!”

Tutti applaudirono, io, augurandomi che Rodolphus fosse semplicemente sbronzo, gli feci calorosi complimenti che lui nemmeno sentì, ammutolito ed emozionato com’era: Cygnus Black e Roland Lestrange si sedettero a firmare il contratto davanti a tutti noi, si strinsero la mano dopodiché firmarono i due novelli fidanzati. Rodolphus non vedeva l’ora di potersi allontanare con lei, per la passeggiata di rito nel parco, dopo cena, così da avere subito un’occasione per metterle le mani addosso, anche se, presso famiglie di antica tradizione come le nostre, era lecito fare sul serio solo dopo un mese dalla firma, preferibilmente alla vigilia di una notte di plenilunio: più o meno quando Bella avrebbe visto i ricordi dell’ampolla. Ghignai, mentre Lestrange si gustava senza alcuna vergogna la possibilità di poterla almeno baciare, davanti a tutti, incurante dell’etichetta e del fatto che lei ne fosse tutt’altro che entusiasta. Non restammo al ricevimento ancora a lungo, mia madre era piuttosto stanca quella sera, ma finché rimanemmo a Zennor, vidi Bella continuare a guardarsi attorno, assente, come se stesse assistendo a qualcosa che non la riguardava, pensava ormai unicamente alla fiala e alla vendetta, infatti, riprendeva vita solo quando mi fissava, incenerendomi con occhiatacce piene di odio e di risentimento. Le sorrisi e brindai a lei, a distanza: finalmente Bellatrix aveva firmato, da quella sera, giorno dopo giorno, notte dopo notte, avrebbe pagato per le sue colpe. Per tutta la vita.

***

Mirzam Sherton
Amesbury, Wiltshire - 21/22 febbraio 1971

Non riuscivo a dormire, neppure quella notte: ero talmente agitato, che decisi di uscire dalla dependance e rientrare nel manor, solo per assicurarmi che fosse tutto sotto controllo e farmi preparare da Kreya la sua tisana speciale, l’unica, fin da bambino, capace di rilassarmi i nervi. Perso nei miei pensieri, mi sorprese trovare alzato anche mio padre, a fumare il suo sigaro su una poltrona davanti al caminetto del salone: sembrava quasi che mi stesse aspettando.

    “Non riesci a dormire nemmeno stanotte, Mirzam?”
    “E tu come lo sai?”
    “Kreya mi dice sempre tutto… Seguimi, non ti servono infusi, hai bisogno di un aiuto di tutt’altra natura: se la verità vuol farsi conoscere da te, continuerà a seguirti finché non l’avrai ascoltata, quindi smetti di evitarla e affrontala, solo a quel punto riuscirai a dormire di nuovo.”
    “Ammesso tu abbia ragione, non so come svelare questa verità: quando mi sveglio, provo una sensazione di attesa, ma non ho indizi per muovermi in una direzione precisa. Ho fatto varie ipotesi su chi potrebbe avermi affatturato, e ho anche motivi seri per cui preoccuparmi, ma…”

Mio padre invocò Lumos, poi si avvicinò a me, appoggiò entrambe le mani sulle mie tempie e mi fissò a lungo, scrutandomi le iridi alla ricerca di qualche segno di una maledizione o di un influsso.

    “No, non c’è alcuna traccia di magia nera su di te, Mirzam: i talismani che ti proteggono sono potenti. Penso che il messaggio venga da te stesso, può trattarsi persino di una visione: per scoprirlo dovrai usare uno strumento speciale, a Herrengton funziona meglio, lo so, ma… a quest’ora con questo silenzio e con quella luna, le Pietre possono parlarti anche da qui.”
    “Vuoi dire che le Pietre Veggenti sono qui ad Amesbury? Ma io… io non ho mai provato a…”
    “C’è sempre una prima volta, Mirzam! La nostra famiglia ha una certa propensione alla veggenza, perciò non temere, saranno le Pietre a guidarti nel tuo viaggio, con il loro aiuto riuscirai a vedere con chiarezza ciò che la tua mente cerca di dirti senza riuscirci.”

Annuii, non avevo nulla da perdere, anzi, forse mi sarei liberato da una preoccupazione, perciò seguii mio padre, lungo le scale che conducevano al sotterraneo, entrammo nel laboratorio in cui ci ritiravamo per intrugliare e, con sorpresa, lo vidi avvicinarsi a una libreria, materializzare e abbassare una leva nascosta dietro a un ricettario rinascimentale, che non usava nessuno, dopodiché, dalla parete, si materializzò una pesante porta di quercia, incorniciata in un portale di pietra.

    “Non immaginavo che anche Amesbury avesse questo genere di segreti…”

Si voltò per sorridermi, io rimasi perplesso dalla mia ingenuità: era logica la presenza di magie simili perché, se ci fosse stata un’ispezione del Ministero, o l’incursione di personaggi poco raccomandabili, mio padre doveva avere un nascondiglio sicuro in cui custodire i suoi manufatti di natura “oscura”. Scesi per una ripida scala a chiocciola, che sembrava interminabile, arrivati in fondo, si aprì dinanzi a noi un lungo percorso sotterraneo, con le pareti e la volta di pietra, mentre il pavimento, che aveva una leggera inclinazione e risaliva morbidamente, era fatto di semplice sabbia. Dopo almeno un paio di kilometri, ci trovammo davanti a un’altra porta, in tutto identica a quella apparsa nel laboratorio: mentre io cercavo l’ingranaggio per aprirla, mio padre si avvicinò, la accarezzò con i polpastrelli disegnando una serie di rune e l’aprì pronunciando un incantesimo in gaelico.

    “Prego…”

Si fece da parte, poi mi seguì: m’immersi nell’oscurità profonda di una piccola celletta sotterranea, mio padre accese dei bracieri disposti in cerchio a terra e la luce rossastra dei fuochi rivelarono l’ambiente stretto e spoglio, una grotta naturale nascosta sotto il parco di Amesbury. L’odore di luogo chiuso, di terra umida e di muschio fu stemperato, quando mio padre gettò delle erbe e dell’incenso nei bracieri, per purificare l’aria e prepararla al rito; io seguii con lo sguardo le scie di fumo e mi accorsi che, proprio al centro della volta, le rocce si disponevano a formare una specie di occhio circolare, di pietra dorata, diversa dalle altre, da cui potevo vedere il cielo stellato sopra di noi, e i rami spogli di alcuni alberi che crescevano sulla superficie.

    “So che è molto freddo, ma dovrai spogliarti completamente e sederti a terra, all’interno di quel cerchio di rocce, esattamente sotto l’oculo che stai ammirando.”

Mentre riflettevo sul fatto che là sotto dovevano esserci diversi gradi sottozero, mio padre materializzò un drappo verde slytherin con cui coprirmi e mi fece cenno di sbrigarmi, poi andò verso la parete di fronte all’ingresso, la toccò con la punta delle dita disegnando la runa EIHWAZ, e la roccia si deformò, lasciando apparire un nascondiglio, da cui mio padre estrasse un bacile di pietra completamente ricoperto di rune, e pieno di qualcosa di iridescente simile ai ricordi, dei sacchettini di pelle in cui erano conservate delle erbe e, in ultimo, le tre Pietre di mio nonno, le “Veggenti”. Secondo il mito le tre sfere, dalla superficie perfettamente levigata, erano state ricavate dai folletti in un lontano passato da un blocco di basalto nero, probabilmente originario dei lontani vulcani d’Islanda: si narrava che i Maghi del Nord, al termine del lungo viaggio che dalle coste del Norfolk li aveva messi in salvo in Scozia, avessero trovato le tre sfere di basalto sulla spiaggia proprio davanti alla grotta in cui settecento anni più tardi trovò rifugio Salazar Slytherin e dove da allora i signori di Herrengton avevano sempre celebrato i loro riti. Non avevo mai visto all’opera le pietre, anzi, avevo sempre pensato che, dopo la morte del nonno, nessuno le avesse più interrogate, e mi sentivo in ansia, perché si diceva che le pietre fossero detentrici della verità assoluta e che, a ogni domanda, sapessero dare la giusta risposta. Ognuna di loro rispondeva ai quesiti di una sola epoca: O'Smakhar era capace di ricordare il passato, O'Gtamok il presente e O’Lhitar il futuro, ma solo a chi fosse stato in grado di aprire la mente per comunicare con loro e di formulare la domanda nel modo appropriato.

    “Non servono tecniche particolari, se è questo che ti preoccupa: quello che hai appreso finora dal Cammino del Nord ti sarà d’aiuto per riconoscere le pietre, chiamarle e comunicare con ciascuna di loro. Devi però rispettare alcune regole: questo è un viaggio che puoi fare solo in compagnia di te stesso, Mirzam, e inizierà appena io uscirò da qui, quello che vedrai non potrai condividerlo con nessuno, nemmeno con la tua famiglia. Inoltre puoi scegliere una sola pietra e una volta scelta, potrai farle un’unica domanda, perciò rifletti bene: se non sei sicuro, non fare niente, lascia che siano loro a comunicare con te. Appena me ne andrò, il contenuto del bacile evaporerà magicamente, un po’ alla volta, questo riscalderà l’ambiente e ti stordirà, ma non temere, serve a isolare la tua mente dai dettagli inutili che possono confonderti; quando quella materia sarà del tutto sparita, brucia dentro il bacile queste erbe: sono ipnotiche e stordenti, perciò è bene se resti seduto per tutto il tempo, potresti svenire e cadere…”
    “E se fossi talmente stordito da non rendermi conto di niente?”
    “Il messaggio troverà il modo di palesarsi, non temere, ma non avere fretta e fai attenzione, perché potrebbe celarsi tra le tue fantasie e gli scherzi delle erbe. Vai fino in fondo a quest’esperienza, senza timori, io resterò fuori da questa porta, se avrai bisogno d’aiuto, posso interrompere tutto in pochi secondi. E ricordati, appena sarò uscito, di toglierti il drappo con cui ti stai coprendo: le Pietre vogliono vedere in te, con la stessa chiarezza con cui tu vuoi vedere in loro…”

Mio padre se ne andò, io mi tolsi il drappo di dosso e lasciai che la luce lunare illuminasse dall’alto la mia pelle, su cui già ballavano i riflessi rossastri dei bracieri. Vidi che il bacile di pietra, di fronte a me, era ancora per metà pieno della strana sostanza, anche se il livello si abbassava molto velocemente, mentre l’aria sembrava scaldarsi con la stessa rapidità; aprii un paio di sacchette e annusai le erbe, riconobbi subito le piante allucinogene che avevo sperimentato per drogare Bellatrix, più altre che servivano a rilassare il corpo e rendere più percettiva la mente. Di colpo vidi la stanza girarmi attorno e sentii la testa cadermi all’indietro, chiusi gli occhi e subito li riaprii, terrorizzato: esattamente sopra di me, l’oculo era riempito dalla forma di una luna ancora quasi al massimo della sua pienezza. Il respiro si fece corto, mentre cercavo di mantenermi seduto, e non scivolare steso a terra, la materia nel bacile era completamene evaporata, presi i sacchettini di pelle e rovesciai nel bacile le erbe, i residui del fluido le incendiò nell’istante stesso in cui toccarono la superficie levigata. L’odore intenso d’incenso ed erbe si fuse con gli odori preesistenti, la testa continuò a girare, vorticosamente, affondai le mani nella terra sabbiosa accanto ai miei fianchi per tenermi. E di colpo, senza aver avuto il tempo di formulare alcuna domanda ed essermi rivolto ad alcuna pietra, persi i sensi.

*

Era buio. Un buio rischiarato dalla luce argentea della luna. La notte era calda, luminosa, piena di stelle.
Chiusi gli occhi, e mi lasciai cullare dal respiro del mare.
Sotto ai miei piedi, nudi, sentivo la consistenza soffice della sabbia bagnata, mi lasciai accarezzare dal lento fluire e defluire della risacca.
Mi girai su me stesso e riaprii gli occhi.

C’era una sposa, sulla spiaggia, pochi metri davanti a me: era coperta dalla testa ai piedi da un prezioso velo di pizzo.
Feci un passo e lei mi diede le spalle, cercai di muovermi, ma il mare cercò di travolgermi.
Annaspai e con difficoltà ripresi il controllo.

La sposa era davanti a me, mi aveva distanziato, pur avanzando verso l’orizzonte con un incedere lento e maestoso.
Iniziai a correre sulla sabbia asciutta, il fiato si fece corto, le gambe sembravano pesanti macigni.
Non riuscivo ad avvicinarmi, cercavo di chiamarla, perché si fermasse, ma non conoscevo il suo nome.
Usai le ultime forze per raggiungerla, ma avevo perso persino la voce per parlare.
Lei si voltò.

Volevo chiederle di sollevare quel velo per me, volevo ammirare i suoi occhi, ero sicuro di conoscerli, e non riuscivo a vederli, di là del pizzo prezioso.
Vergognandomi, mi resi conto che potevo offrirle solo la rosa sfiorita che tenevo in mano.
Indeciso, alla fine gliela porsi, lei rimase immobile, silenziosa, sentivo il suo respiro lieve che sollevava ritmicamente, impercettibilmente, il velo.
Così vicina a me, presi coraggio, iniziai a sollevare quel pizzo,
lentamente,
in alto sempre più in alto, fino a intravvedere la curva armoniosa delle sue labbra.
Volevo baciarle.

Sapevo che dovevo farlo, che potevo farlo, che quelle labbra aspettavano solo me. Appartenevano solo a me.
Mi chinai per assaporarle, e finalmente le sentii: erano fredde come la neve.
Una lacrima scivolò dai suoi occhi ancora velati, accarezzai le sue guance per raccoglierla, e sentii la sua pelle vellutata e calda come il mio cuore.
Presto mi sarebbe scoppiato nel petto.

Sollevai ancora il velo, fino a scoprirle il naso, poi ancora, per svelare finalmente il suo sguardo.
A quel punto, però, la sposa si dissolse, lasciando al suo posto solo una nuvola di polvere dorata.
Rimasi immobile, sotto la luce della luna. Non ero turbato né disperato.
Ero felice.

Non avevo visto il suo sguardo, non conoscevo quel nome, ma guardai le mani, e vidi che al posto del velo, tenevo di nuovo la rosa.
Non era più avvizzita. Era un tenero bocciolo pronto per essere donato.
Si era nutrita di quella lacrima perduta, di quel lieve bacio rubato,
e, riconoscente all’amore vero, era rinata.

*

Mi ridestai, accarezzato dal respiro fresco del mattino, dall’oculo s’intravvedeva il chiarore rosato dell’alba. Mi alzai, presi i miei vestiti, piegati e sistemati accanto all’ingresso, e mi rivestii. Avevo finalmente visto cosa la notte celava alla mia mente, ma ero perplesso, non sapevo come interpretare la visione e non potevo chiedere consiglio a nessuno: forse le Pietre dicevano che era arrivato il momento di andare avanti e affrontare l’ignoto, chiudere per sempre con il passato. Forse c’era un amore nuovo e sconosciuto che mi aspettava, pronto a darmi la felicità che mi ostinavo a cercare dove non c’era più niente per me. Dovevo tornare a vivere. 

    Eppure… il sogno dice che io conosco già la sposa…

Sarei tornato nella grotta dopo qualche notte, avrei fatto una precisa domanda a una precisa pietra. Dovevo capire. Mio padre mi aveva lasciato un messaggio sulla porta, in cui mi diceva che avrebbe sistemato lui nella grotta, perciò mi affrettai a fare il percorso inverso, pensieroso: trovai aperta la porta che immetteva nel laboratorio, ripresi le scale e riemersi nel vestibolo, da lì mi diressi verso il salone, per fare colazione con i miei, prima di andare a Londra. Trovai i miei genitori già a tavola, alle prese con il Daily appena consegnato, mentre Meissa e Wezen stavano ancora dormendo, feci appena in tempo a salutarli e a mettermi seduto con loro, che Kreya arrivò di corsa con un gufo appollaiato sul suo braccio.

    “Padrone…”

Mio padre provò a prendere la busta dal becco del gufo, ma il messaggero si voltò risentito, spiccò il volo e si fermò davanti a me, lasciando cadere la busta sul mio piatto. Lo guardai, mi sembrava di averlo già visto ma non ricordavo dove né quando e, appena toccai la busta, aprì le ali e si sottrasse a ulteriori osservazioni, percorse all’inverso il corridoio fatto con Kreya e recuperò la libertà dalle finestre della cucina.

    “Di cosa si tratta, Mirzam? Brutte notizie? Sei bianco come uno straccio!”

Mia madre aveva ragione, dovevo essere impallidito di colpo: il biglietto, anonimo, recava un indirizzo, un’ora e una data. Tutto ciò che mi sarebbe servito se avessi voluto impedire il matrimonio di Andromeda e Tonks. A turbarmi, però, ancora più di questo e del fatto che il messaggio fosse senza firma, era stato proprio toccare la busta. Era bastato un secondo e l’avevo riconosciuta, come ormai avevo riconosciuto con sicurezza il gufo: era stato lui a consegnarmi, una lontana mattina di agosto di quattro anni prima, in una busta identica a questa, la foto di due finti babbani, gli uomini che mi avevano aggredito da ragazzino. Da quel giorno la mia vita era completamente cambiata, avevo rischiato di morire, avevo vissuto momenti difficilissimi. La mia prima, sensata tentazione, fu quella di bruciare il messaggio.

    “Nulla d’importante, madre, è solo l’invito alle nozze tra Andromeda e il suo mezzo babbano…”

***

Mirzam Sherton
località sconosciuta - giov. 25 febbraio 1971 (chap.40)

Camminavo a piedi nudi, sulla sabbia, una rosa sfiorita in mano, la mente ottenebrata dall’alcool. Non sapevo dove andassi, né cosa volessi, camminavo soltanto. Avevo però fatto una scoperta: gli alcolici babbani non avevano nulla da invidiare al firewhisky! Scagliai l’ultima bottiglia vuota tra le onde: avrei voluto gettarci anche quello stramaledetto Tonks! Perché non l’avevo ammazzato? Perché? Bastava dire “Avada…” e tutto sarebbe finito per sempre. Bastava colpirlo più forte, quel giorno, magari nascondendo un sasso nel pugno… Ma non potevo fare una cosa del genere a lei… Trattenni una lacrima, mi ripetevo come un mantra che uno come me non piangeva mai, che uno come me… che né le mie lacrime né tutto l’alcool della terra avrebbero cambiato niente: era tutta colpa mia, solo colpa mia, perché ero sempre stato un vigliacco.

    “UN VIGLIACCO!”

Lo urlai alle onde, come una belva ferita: ero stato solo un vigliacco, fin dall’inizio, fin da quando non le avevo detto quella dannata parola; quanto cazzo ci vuole a dire una dannata parola?

    “È QUESTO È IL PREZZO DI UNA DANNATA PAROLA?”

Che cosa mi aspettavo di ottenere ormai? Che cosa? Ero patetico, con quella stupida rosa sfiorita in mano. Eppure non riuscivo a liberarmene, una forza misteriosa m’impediva di gettarla via. Mi passai la mano tra i capelli, e sul viso, illudendomi che la mia faccia fosse bagnata per le gocce di acqua marina che il vento mi gettava addosso. Mi girava la testa. Sospirai tentando di forzarmi l’aria nei polmoni per riprendere un minimo di controllo, ma come le onde che già mi lambivano le gambe, i ricordi mi travolgevano e mi trascinavano nell’abisso. Volevo fuggire, ma era inutile: se si può scappare da un luogo, è impossibile sottrarsi a se stessi, e ovunque fossi andato, si sarebbero ripetute, come una litania dolorosa, le immagini di quel giorno. Avevo riflettuto a lungo prima di decidermi ad andare, senza sapere che cosa avrei fatto, una volta raggiunta la meta, sicuro però che il sogno della sposa fosse una premonizione: avevo ancora un’occasione, almeno una, per sistemare le cose con Meda. Così ero partito con l’intenzione di aiutarla senza aspettarmi niente per me stesso, perché come diceva mia madre, il vero amore ti fa cercare solo il bene dell’altro: volevo farle sapere che avrei mantenuto la mia promessa, che le sarei stato accanto, per proteggerla, sempre, a qualsiasi costo, anche se avesse sposato Tonks. Volevo ripianare le cose tra noi, recuperare il nostro rapporto… chiederle perdono.
La cerimonia si era tenuta in pieno giorno in una radura verdeggiante, tutta circondata da boschi fitti e inestricabili, dal clima magicamente primaverile, nella valle dell’Usk, in Galles, vicino all’antico villaggio magico di Yfenni, la sagoma delle Black Mountains che dominava lo sfondo. Mi ero materializzato tra gli alberi, su una collinetta, da cui avevo osservato con attenzione i partecipanti, senza riconoscere nessuno, nemmeno l’uomo alto e bruno, elegante e curato che accompagnava la sposa all’altare: non riuscivo a vederlo in faccia, eppure una sensazione ostinata mi persuadeva che si trattasse di Alphard Black, che i sospetti di Narcissa su di lui fossero fondati. Quando arrivai, Meda, nel suo bell’abito bianco, stava ormai avanzando tra le file degli invitati, sotto una serie di archetti decorati con rose bianche, per raggiungere il celebrante, completamente avvolta dal suo velo: era radiosa come non era stata mai, una persona nuova, libera, completa, senza quell’aura tragica che sempre incombeva su quelli come noi, eccezion fatta per chi, come i miei genitori, erano stati capaci di spezzare le catene e seguire i propri desideri. Avevo sentito il cuore accelerarmi all’improvviso, come ogni volta che la vedevo, ma stavolta c’era qualcosa di strano: vederla tanto felice, invece di rassicurarmi, mi aveva ferito. Mi aveva deluso. Meda non era mai stata tanto felice quanto adesso… adesso che non facevo più parte della sua vita.

    Lei riesce a vivere senza di me… sta addirittura meglio senza di me… sta meglio con un dannato sanguesporco… conto meno di un inutile sanguesporco… io… io…

Avevo dato un pugno contro il tronco di un albero, e avevo lasciato che le schegge restassero infilzate lì, non sentivo nemmeno il dolore: che dolore poteva essere rispetto a quella verità feroce che mi dilaniava dentro? Il cervello cercava di razionalizzare, ma la verità era davanti ai miei occhi e dentro il mio cuore, la belva che avevo nell’anima ruggiva, mostrandomi il mio vero volto: mi parlava di purezza di sangue, mi parlava di abominio, non di amore e felicità. Non di perdono. Aveva ragione mia madre, e aveva ragione Meda stessa: il mio non era il sentimento puro che decantavo tanto, era un misto di gelosia e possesso, di venerazione e senso di colpa. Era un piacevole e potente veleno dalle mille facce. Ma non era amore. Mentre la guardavo stringergli le mani, morivano a una a una, tutte le mie certezze: Meda, meravigliosa come sua sorella, ma talmente pura nella mia mente da essere quasi intoccabile, si stringeva al suo sposo, mostrandosi umana, tragicamente umana, la creatura idealizzata ed eterea che aveva sempre vissuto nella mia mente, fatta più dei miei sogni che di vera carne, spariva, si dileguava, a ogni bacio e a ogni sorriso. Non riuscivo più a mentire a me stesso. Ero rimasto lì, ammutolito, incapace persino di respirare, come se tutto di me si fosse annullato, tranne gli occhi, che continuavano a vedere: le ore scorrevano, la rosa avvizziva ed io guardavo quella cerimonia, quella festa, quei balli, quei canti come se fossi fuori dal mio corpo, finché Tonks l’aveva presa tra le braccio, gli invitati avevano iniziato ad applaudire e Meda l’aveva baciato con quella passione che avevo visto solo tra mia madre e mio padre. Non ero riuscito a reggere altro.
Ero sceso dalla parte opposta della collina, vagando fino a raggiungere uno squallido villaggio babbano, in tranche, un’onda di pensieri potenti e fumosi che s’incastravano gli uni agli altri, si serravano, si annodavano, come le lacrime che non volevo farmi uscire dagli occhi. Ero entrato in una bettola e avevo iniziato a bere, mi ero anche comprato delle bottiglie da portare via con me, con le sterline babbane sottratte di nascosto a mio padre. Mi ero smaterializzato in un vicolo ed ero arrivato lì, su quella spiaggia: non avevo idea di dove fossi. Ero rimasto seduto, fermo, per ore, a ripensare, avevo iniziato a camminare senza sapere dove volessi andare: avevo lasciato già da un po’ la sabbia fine e asciutta, sentivo sotto i piedi la risacca. Era freddo ma avevo iniziato a spogliarmi. Un passo dopo l’altro, staccato da me stesso, mi ero allontanato dalla riva, preda del delirio più che della sbronza, nella mente l’immagine di Tonks che giaceva nudo con lei e la faceva sua. Infuriato, depresso, avevo pronunciato un incantesimo in gaelico e il mare si era improvvisamente ingrossato ma, sbronzo com’ero, avevo rapidamente perso la capacità di controllare me stesso e le onde che avevo aizzato, mi sentii risucchiare tra i flutti e sbattere contro gli scogli: c’era solo l’inchiostro nero del mare tutto attorno a me, e quando la corrente mi rivoltava, la luce delle stelle, che si riflettevano sul mio corpo martoriato. Tra quelle costellazioni c’era lei… la mia Andromeda, intoccabile e pura… Il mare mi prese e mi portò sotto, sentii l’acqua entrarmi dal naso e dalla bocca, presto mi avrebbe riempito i polmoni, avrei respirato fiamme di dolore: simile a una Cruciatus, mi avrebbe dilaniato dentro, dopo di che avrei trovato finalmente pace, pace per sempre. La mente era vuota, il sangue fluiva via insieme alla vita dalle ferite, non ricordavo nemmeno le semplici parole che potevano salvarmi: o forse non volevo salvarmi, volevo solo morire.

*

Fu allora che la sposa riapparve, poco lontano da me: sarei voluto andare via, dalla parte opposta, seguire la notte, là dove non c’erano più stelle, e perdermi in quell’oblio. Le mie gambe, però, sembravano animate di vita propria, così pur senza più forze, mi ritrovai per l’ennesima volta, per l’ultima volta, a seguirla, con la rosa sfiorita in mano. Avevo raggiunto uno stato tale ormai che nemmeno sentivo l’acqua ustionarmi dentro, percepivo solo un rombo lontano che annullava qualsiasi altra sensazione. La sposa si fermò e si voltò, sapeva che sarebbe stato il nostro ultimo incontro e forse voleva darmi modo di dirle addio, io però non riuscivo più a muovermi né a parlare. Tentai di darle la rosa, ma lei negò con la testa.

    “Non qui, non adesso…”

Aveva una voce nota eppure in qualche modo irriconoscibile, così lontana, vellutata, quasi divina, con la destra mi prese la mano, era calda e rassicurante, e annodò le sue dita alle mie, in silenzio, con la sinistra iniziò a disegnare qualcosa nel vuoto, dei piccoli rapidi segni, che sembravano bruciare come fuoco per qualche istante nell’aria e poi dissolversi nella notte. Io non capivo, non riuscivo a capire, lei le riscrisse: erano rune, le rune del mio nome, le rune della mia gente, le rune della mia terra…

    “Respira…”

La sposa mi sussurrò lieve all’orecchio facendomi sentire di nuovo la dolcezza della sua voce, e rapida riprese a disegnare altre rune, il nome di mio padre, il nome di mia madre e quello dei miei fratelli: erano le preghiere della vita, quelle che i Maghi del Nord usavano per richiamare i cari in punto di morte, quello che io stesso avevo salmodiato, notte dopo notte, in lacrime, per settimane, nell’ospedale di Inverness.

*

    “Forza! Prendetelo! È ancora vivo! Tiratelo su!”

Un forte odore di pesce m’invase il naso e l’immagine della sposa si annebbiò, sentii prendermi per le braccia da mani forti e callose, altre mi afferravano per le gambe. Provai un dolore fortissimo, tanto da urlare, senza riuscirci, mi sembrava di esplodere. Qualcuno mi strattonava e mi girava, altri mi davano dei leggeri schiaffi per risvegliarmi, ma io volevo restare dov’ero, la sposa stava scrivendo altre rune: forse avrebbe scritto il suo nome, o il luogo in cui si trovava chi stava pregando per me, il luogo in cui mi attendeva per ricevere la rosa.

    “Mettiamolo giù, stendiamolo, facciamolo respirare!”

Sentii un colpo violento in mezzo al petto, sputai tanta acqua, mentre un ronzio fastidioso mi esplodeva nelle orecchie, il fuoco divampava nei polmoni e nelle vene, e di nuovo quell’orrendo odore di pesce putrido mi permeava dentro e fuori.

    “Forza ragazzo, forza! Respira!”
    “Si sta riprendendo… Apri gli occhi, ragazzo!”
     “Come ti senti? Come ti chiami?”

Aprii gli occhi e l’immagine della sposa mi sfuggì definitivamente, dopo aver tracciato nell’aria le ultime rune: leggerle mi aveva sconvolto, riempito di domande e al tempo stesso di trepidazione. Non era possibile o invece lo era? Dentro di me conoscevo la risposta, ma non potevo crederci. L’emozione mi prese a tradimento, mi misi a piangere, un pianto composto e liberatorio.

    “Tranquillo, ragazzo, sei in salvo… Mai visto un mare strano come quello di stanotte!”

Attorno a me, su una specie di battello da pesca, illuminato appena, si materializzarono dalle nebbie del mio inconscio cinque babbani barbuti: doveva trattarsi di pescatori irlandesi. Nonostante il dolore, la confusione, il pericolo scampato, riuscii a sorridere, al pensiero di cosa avrebbe detto mio padre se mi avesse saputo tratto in salvo da quei babbani che odiavo tanto.

    “Dove… dove sono?”
    “Sul RoseMary III, ragazzo, al largo di Wicklow, si torna a casa… ora prendi questo e bevilo d’un fiato, Sam ti darà un’occhiata a quei tagli, poi a terra ci penserà il dottore…”
    “Io… io devo consegnare…”
    “Non ti agitare, pensa a riposare e recuperare le forze…”

Non mi curai dello sguardo a metà tra il divertito e il pietoso che si rivolsero, dovevano considerarmi un pazzo, tenendo conto di come farfugliavo, di quel poco di vestiti che mi era rimasto addosso e della rosa rinsecchita e spelacchiata che stringevo in mano come fosse un tesoro. Come avevo fatto a non perderla in mare?

    “Grazie… io… io vi devo la vita…”

Mi strinsi nella coperta pulciosa che mi avevano dato perché non mi assiderassi, mentre a est, il cielo e il mare si tingevano di un rosa chiaro, a indicare l’inizio di un nuovo giorno. E della mia nuova vita.

***

Mirzam Sherton
Londra - sab. 27 febbraio 1971

Il Tamigi scorreva placido sotto di noi, mentre un pallido sole invernale scaldava le mie guance, già rosse per la rabbia e l’emozione, attraverso le ampie finestre e i tendaggi di broccato chiaro. Le leggere spire di fumo, che uscivano dalla mia tazzina, diventavano via via più tenui e incerte, il the stava diventando freddo ed io non l’avevo toccato nemmeno per sciogliere lo zucchero.

    “Quindi mi avete mentito tutti…”
    “No, non è come credi: a parte la sua famiglia e i suoi testimoni, qui in Inghilterra lo so solo io… Tutti gli altri invitati credono che la cerimonia sia solo rimandata, non annullata per sempre…”
    “E tu… tu hai ritenuto giusto non dirmi niente!”

Guardai Jarvis, seduto incurante di fronte a me, al tavolo d’angolo di un’elegante sala da té al centro della Londra babbana: stretto nel suo completo antracite di alta sartoria, la sigaretta tra le dita, sembrava perfettamente a suo agio, non me ne ero mai reso conto, prima di allora.

    “Ricordi la notte di Hogmanay, a Emerson Manor? Ti dissi che ti credevo a Doire, poi mia moglie ci ha interrotto… Immaginavo avessi capito che avevo qualcosa da dirti, ti ho invitato a casa nostra per parlarti, ma tu non sei mai venuto…”
    “Lei dove si trova? Voglio saperlo!”
    “Perché dovrei dirtelo? Che cosa vuoi da lei, Sherton? Mi hai appena raccontato di esserti quasi annegato per aver visto la giovane Black sposarsi col Tassorosso, e ora… Dopo quanto, quarantotto ore? Vorresti rientrare nella sua vita e sconvolgerla per l’ennesima volta? Credi di poter risolvere i tuoi problemi gettandoli addosso a qualcun altro?”
    “Tu non hai il diritto di intrometterti!”
    “E tu non hai il diritto di farle ancora del male!”

Mi alzai come una furia, mi sporsi su di lui e lo presi per il bavero, Jarvis non si scompose, mi saettava addosso i suoi occhi sicuri e freddi, mentre attorno a noi gli altri clienti della sala mi guardavano con disgusto e terrore, e il direttore di sala si avvicinava austero per buttarmi fuori. Warrington fece un impercettibile cenno di diniego, e l’uomo si fermò. Lo lasciai, deciso a non perder altro tempo con lui.

    “Tanto la troverò comunque, Warrington… Non finisce qui!”
    “Ti sbagli, Sherton, rischia di finire qui, se non la smetti di comportarti come un pazzo!  Il destino vi sta dando l’opportunità unica di ritrovarvi e rimettere in sesto le vostre vite e a me il compito di aiutarvi! Salazar mi è testimone, vi voglio troppo bene, a entrambi, per permettere che anche stavolta vada tutto storto! Dovevate rimettervi insieme dopo quel processo, ma col disastro che hai combinato a Doire, hai messo in cattiva luce te stesso, con tutti. Ora non puoi presentarti ancora a lei così, completamente fuori controllo! Devi fare chiarezza in te stesso, dimostrarle con i fatti ciò che hai nel cuore, che sei cambiato e che hai capito che siete una vita sola…”

Lo guardai, mi costava ammetterlo, ma aveva ragione: probabilmente questa era l’ultima possibilità che il destino mi dava ed io ero sempre il solito pazzo capace solo di rovinare tutto.

    “Dimmi almeno come sta… Quando l’hai vista l’ultima volta?”
    “Sile sta bene, fa il lavoro che ama ed è serena: Corso non era adatto a lei, in fondo l’ha sempre saputo, ma tu le hai dato modo di vedere che uomo fosse veramente. Inoltre… tu che pensi tanto male di lui… nemmeno a Donovan è piaciuto mai ed è stato ben felice di mandare a monte quel matrimonio! Quindi gioca bene le tue carte, perché la mano che hai è fortunata… Fidati di me…”
    “Salazar! Domani andrò a Doire e dovrò restare per quasi un mese in Irlanda per conto di mio padre… Non saprò restare lontano da lei, non riuscirò a fingere, non mi manterrò controllato…”
    “Lei e suo padre sanno che stai andando a Doire, mentre tu, ufficialmente non sai nulla di lei… Spetta a lei la prima mossa. Tu gestirai al meglio la missione importante che ti ha affidato tuo padre, in questo modo ti mostrerai a tutti nella luce migliore, responsabile e sicuro. E lo farai senza avere alcun fine personale, ma solo perché questo è il bene della Confraternita!”
    “Vorrei avere il tuo sangue freddo, Warrington: appena scoprirò dove si nasconde, e sappiamo entrambi che lo scoprirò, volerò davanti a casa sua e dovessi arrivare ad assediarla…”
    “Ho anticipato l’incontro con McGuigan a Dublino apposta: se a te sta bene, ti accompagnerò in questo viaggio, così t’impedirò di fare qualche altra cazzata… Che cosa ne pensi?”

Lo guardai: mi rendevo conto che se, invece di seguire le orme di Lestrange, tanti anni prima, avessi dato più ascolto a quel ragazzino studioso e noiosetto, che da bambini battevo sempre a scacchi, forse ora la mia vita sarebbe stata completamente diversa. Jarvis era sempre vissuto lontano dai riflettori, aveva dovuto sottostare a imposizioni e aveva vere ragioni per disprezzare la vita che altri avevano scelto per lui, invece non solo era riuscito a trarre il meglio da ciò che gli era stato offerto dal destino, ma era talmente felice e sereno, da riuscire a pensare a cosa fare per aiutare gli altri a trovare la propria strada. Gli diedi la mano, in silenzio, mi rispose con la sua presa decisa e confortante: il mattino dopo, alle 11.30, avremmo preso entrambi ad Amesbury la passaporta che ci avrebbe condotto a Doire.

***

Mirzam Sherton
Doire, Irlanda del Nord - ven. 19 marzo 1971

    “Vuoi qualcosa da bere anche tu?”

Negai con la testa e ammirai Dáireen allontanarsi tra gli altri invitati, vestita da ninfa dei boschi, con dei veli iridescenti di tessuto leggero che facevano da mantello e coprivano l’esiguo abito verde chiaro, io rimasi lì, vicino alla porta, accaldato sotto la parrucca e stretto nel mio costume settecentesco, pronto a dileguarmi nel parco appena mi avesse raggiunto qualche piantagrane. Era il mio ultimo giorno a Doire, dovevo ritornare a casa l’indomani per i riti di Habarcat e il compleanno di mia sorella, dopo aver passato le ultime tre settimane a girovagare per i villaggi irlandesi, contattare numerose famiglie del Nord presenti sull’isola e parlare con ognuna di loro, singolarmente: mio padre avrebbe presto proposto la riforma dell’ordinamento della Confraternita ma, sapendo che avrebbe avuto una forte opposizione a Inverness da parte dei più reazionari, voleva sapere se poteva contare sull’appoggio degli irlandesi e aveva mandato me a verificare il loro eventuale consenso. La sera, sfinito, rientravo a Doire, ospite della zia e di suo marito, nel loro cottage ai margini del bosco, lasciandomi viziare in maniera a dir poco vergognosa: Jarvis ed io avevamo occupato la stanza di Siollán, il più grande dei miei cugini, che viveva in Cecoslovacchia con moglie e figlio, e avevo approfittato di quella sistemazione e dei momenti di riposo, per riallacciare i miei rapporti con gli altri due, Eoin e soprattutto Dáireen, la mia cugina preferita. Grazie a lei e al nostro comune amore per la pesca e le passeggiate nei boschi, quel periodo alla fine era stato rilassante, un’occasione unica per riflettere su come potevo cambiare la mia vita: Dáireen, con quella sensibilità tipica del ramo irlandese della mia famiglia, aveva capito che qualcosa mi turbava, e mi aveva rassicurato, pur senza costringermi a dirle cosa mi passasse per la testa. E di questo le ero grato. Jarvis, visto che ero in buone mani e più tranquillo di quanto ero apparso all’arrivo, ritornò a casa, dopo pochi giorni: sua moglie, infatti, non gradiva che frequentasse una casa in cui viveva una ragazza non ancora sposata. A dire il vero, dovevo già essere a Herrengton, desideravo partire prima della festa, ma zia Rebecca era stata irremovibile: dovevo partecipare, alla festa in maschera per il compleanno di Maille, la sorella minore di Donagh, il fidanzato di Dáireen.

    “Tra un anno, pur alla lontana, quei ragazzi saranno tuoi parenti, quindi vedi di non fare l’orso come tuo padre! Sarà una festa bellissima, la più bella da anni, qui a Doire, cui parteciperanno davvero tutti! Fidati di me, Mirzam, un po’ di sano divertimento ti farà bene…”

Poi era uscita dalla mia stanza con un sorriso a quarantacinque denti, che non prometteva nulla di buono, mia zia era infatti nota ovunque per essere una temibile combina matrimoni, ed io avevo guardato con una certa apprensione il vestito da nobile che mi aveva lasciato sul mio letto, interrompendomi durante la preparazione dei bagagli con Cael: avevo provato subito i sintomi dell’orticaria, al pensiero di doverlo mettere e di dover affrontare tutte quelle cariatidi imbellettate.
E adesso, nascosto dietro la mia maschera, mi trovavo proprio in pieno delirio: già da un paio di ore stavo elargendo sorrisi di circostanza, bevevo cercando di non sbronzarmi, ascoltavo le filippiche contro il Ministero ed evitavo le matrone con figlie da marito che cercavano di accalappiarmi. Per fortuna Jarvis era ritornato in Irlanda con sua moglie da un paio di giorni per trattare un affare con il solito antiquario e aveva preso parte alla festa in maschera: fino a quel momento era stato il mio complice perfetto, abile nel tirarmi fuori dalle situazioni più problematiche, anche se la solita gelosia di Sheena lo costringeva spesso ad allontanarsi e a non sedersi con me e i miei familiari. In quelle tre settimane non avevo avuto modo di incontrare né Sile né la sua famiglia, per questo il momento che temevo di più della serata era l’arrivo di Donovan Kelly, invitato con suo figlio Liam e sua nuora. Non si erano ancora visti ed io pregavo che si presentassero, per dimostrare a tutti che non avevo alcun timore di affrontarli e soprattutto perché speravo di parlare con loro e sapere di Sile, trovare una scusa per farmi invitare e poterla finalmente rivedere.

    “Ti sei nascosto di nuovo vicino alla porta? Guarda che rifugiarsi in un parco male illuminato non è la soluzione migliore: una malintenzionata potrebbe affatturarti e approfittarsi di te…”

Warrington, nel suo appariscente costume da mago assiro, sorrise malizioso, io feci un’alzata di spalle.

    “Attento alle battute, Jarvis: sembra quasi che tu stia facendo un corso da Rodolphus Lestrange…”
    “Il vecchio Rod… Sai, l’ho incontrato l’altro giorno a Londra, mi ha detto che non vede l’ora che tu ritorni, perché hai perso una scommessa e devi pagare. È strano, tu di solito non perdi mai…”
    “Abbiamo scommesso su Bellatrix Black, Jarvis, quindi tutto può succedere…”
    “Che cosa? Non ti starai mettendo di nuovo nei guai con lei, vero? Dimmi che…”
    “Non ho intenzione di mettermi nei guai, né con lei né con altre! Ho troppo da perdere…”

A costo di morire, non avrei permesso né a quella maledetta né a nessun altro di rovinarmi ancora la vita, però, per un attimo, ripensai, trattenendomi dal ridere, alla lettera di Lestrange che mi era arrivata la sera prima: una lettera che era riduttivo definire trionfante. Rodolphus mi ricordava che appena fossi tornato a Londra avrei dovuto acquistare per lui l’Athame da Borgin, perché avevo perso la scommessa: a quanto pareva, aveva finalmente goduto delle grazie della sua futura sposa, non perché l’avesse conquistata con il suo fascino, ma perché era riuscito ad approcciarla senza rischiare la pelle, al termine di una serata passata a farla sbronzare con champagne elfico corretto da una sua mistura strana. Questo non provava nulla sulla natura di Bella, a parte che fosse meno scaltra di quanto pensassi, e già ridevo al pensiero della sua furia al risveglio, quando si era ritrovata nuda a letto con Rodolphus, e aveva capito che il suo fidanzato era riuscito nell’ardua impresa di sottometterla. Continuando nella lettura, però, il sorriso aveva lasciato il posto all’incredulità: a quanto pareva, nonostante avesse fama di ragazza facile fin dai primi anni di Hogwarts, Bellatrix si era sempre comportata da perfetta Black, ovvero da pazza, certo, ma anche da ragazza di buona famiglia, prendendosi delle soddisfazioni con i suoi amanti, senza mai concedersi del tutto. Morale della storia, aveva involontariamente fatto omaggio della sua prima volta proprio al suo futuro sposo, a quel Rodolphus Lestrange che, dopo di me, era l’uomo che detestava di più. Dovevo ammettere di non averlo mai sospettato, al punto che non avevo curato anche quel dettaglio, durante la mia recita, ma a pensarci, questo spiegava la sua ossessione per il sangue e la reazione che aveva avuto alle mie parole, a Zennor; Rodolphus, invece, doveva averlo scoperto in qualche modo, per questo aveva accettato di scommettere l’anello di suo padre contro l’Athame. E per questo aveva reagito tanto male quando aveva sospettato una tresca tra Bella e me. Lestrange aveva anche scritto che, quel mattino, Bella aveva avuto una comprensibile crisi isterica, ma quando aveva farfugliato qualcosa come “Maledetto bastardo me la pagherai, giuro che questa non te la perdonerò!”, aveva avuto la sensazione che non si rivolgesse a lui, ma a qualcun altro. Ghignai, la mia vendetta aveva toccato livelli che nemmeno mi ero immaginato: c’era di che festeggiare per anni, peccato solo per l’anello di Salazar, ma mi sarei fatto venire un’altra idea.

    “Perché adesso stai sorridendo con quell’espressione così mefistofelica?”
    “Di mefistofelico qui c’è solo l’ideatore di questa dannata festa… Ho voglia di andarmene! Non ha senso restare qui, sembriamo dei buffoni… E ormai ho capito che né Sile né i suoi si faranno vedere, non finché sarò a Doire… Forse hai ragione, è felice della scelta fatta, ma evidentemente lasciare Corso non vuol dire che voglia tornare con me... Sinceramente, la capisco…”
    “Forse hai ragione, ma… non credo sia questo il momento più adatto per… arrendersi... ”

Mentre parlava, avevo sentito uno strano brivido percorrermi rapido la schiena, guardai Jarvis, aveva un’espressione concentrata, un lieve sorriso gli aleggiava agli angoli della bocca, mi voltai, seguendo il suo sguardo e di colpo sentii il cuore galopparmi impazzito.

    No, non è possibile, non può esserci davvero lei dietro alla porta... No, non c’è la sua figura eterea, bruna, dai grandi occhi chiari quasi quanto i miei dietro a quei tendaggi, dietro a quei… veli...

Il mio cuore si fermò, i tendaggi che adornavano la sala, in effetti, sembravano dei veli, come nel mio sogno.

    “Salazar! Mirzam, fermati! Non fare cazzate!”

Non mi curai di nessuna delle parole che mi rivolgeva Jarvis, di nessuna: senza rendermene conto, affondai come una lama nella folla, sembrava che ovunque fosse calato il silenzio, che non ci fosse più musica, che non ci fossero più parole, che il mondo stesso avesse smesso di girare e respirare. Dovevo raggiungere quella porta, dovevo alzare quel velo, dovevo conoscere la verità. La gente si scostava al mio passaggio: Donovan, entrato proprio in quel momento, mi fissava, esterrefatto; tutti quanti sembravano fissarmi, mentre mi avvicinavo, ma a me non importava niente. Forse si rivolse a me per dirmi qualcosa, ma non me ne curai, nemmeno lo salutai, lo superai, mi tolsi la parrucca e la maschera e li buttai a terra, avanzai tra la gente che faceva ressa sull’ingresso e mi ritrovai nel corridoio, in mezzo ad ancora moltissimi altri invitati che bevevano e chiacchieravano, illuminati dalla luce fioca di lampade e bracieri, nascosti qua e là tra mobili, decorazioni veli e tendaggi.
All’improvviso, mentre gli occhi percorrevano smaniosi quel lungo corridoio, mi bloccai: non ci misi nemmeno un secondo a riconoscerla, nonostante il costume. Vestiva di chiaro, non un vestito da sposa, come nel sogno, ma un abito da sacerdotessa celtica, che la velava completamente. Era lì, in fondo al corridoio, sospesa, sembrava attendermi. Sorrisi: anche a distanza si vedeva che tremava, come l’aria che ci separava, sembrava vibrare all’unisono con me. Dopo qualche secondo di esitazione, feci un passo, poi un altro, il cuore che mi scoppiava, mentre lei restava immobile: decine di persone ci separavano, ma a me sembrava che il resto del mondo fosse scomparso. Volevo abbracciarla, toglierle quei veli che m’impedivano di vederla completamente, baciarla; lei, quasi mi avesse letto nella mente, iniziò a sollevare il velo, prima fino alla curva armoniosa delle sue labbra, poi svelò il suo naso e le sue lentiggini; infine ammirai di nuovo i suoi occhi. Sentii le lacrime rigarmi la faccia, e non m’importava che gli altri mi guardassero e mi giudicassero.

    Finalmente…

Sapevo pensare solo questo: finalmente. Era davvero davanti a me, potevo davvero guardare lei, non era solo un sogno. La raggiunsi, presi le sue mani tra le mie, gli occhi dell’una fusi in quelli dell’altro, incapaci di parlare, di respirare, di fare anche solo un altro passo, come se un gesto potesse rompere l’incanto e rigettarci in una realtà crudele e insensata. Sile, in silenzio, aumentò la stretta sulle mie mani facendomi capire che voleva uscire sulla terrazza e restare da sola con me, io la seguii, il cuore in tumulto, incapace di dire anche solo il suo nome, sotto la luce della luna piena. Ero in tranche, non smettevo di guardarla, avevamo molto, troppo da dire, io avevo troppo di cui scusarmi, ma non era di questo, di errori che volevo parlare, dopo tanto tempo, no… io… Ero pieno di domande, felice e al tempo stesso terrorizzato.

    “Sile…”

Lei continuò a restare in silenzio, sollevò una mano fino ad accarezzarmi timidamente il viso, raccogliendo quelle lacrime contro cui avevo smesso di combattere, sconfitto; percorse le linee del mio volto, in silenzio, fissandomi con quegli occhi che cercavo da tanto, da troppo. Si sollevò sulle punte e appoggiò le labbra sulle mie, le sue mani si persero tra i miei capelli. Io non osavo nemmeno toccarla, per paura che lei sparisse di nuovo, ma a un tratto non ce la feci più, avevo bisogno di sfiorarle il viso, le lentiggini, i capelli: scesi con le dita fino a metà schiena, e la strinsi a me, serrandola nel mio abbraccio, per non lasciarla più andare via. Mai più. Il bacio si fece vorace, volevo dissetarmi con quelle labbra, perdermi in quel momento: dovevo approfittare di quegli istanti di pura felicità, ne avevamo persi troppi, troppi, di attimi come quello. Aprii gli occhi, li fissai nei suoi, aperti a cercarmi: era ancora lì. Tra le mie braccia non tenevo più solo un diafano sogno. Mi staccai appena da lei, temendo di esagerare, come mio solito, feci un passo indietro, ma Sile mi poggiò la mano sulle labbra, impedendomi di parlare, e con l’altra mi mantenne vicino a sé, appoggiò il suo capo sul mio petto, perdendosi nel mio abbraccio; pareva serena, tranquilla, ma era emozionata come me per quel bacio, sentivo il suo cuore impazzito che pulsava forte quanto il mio.

    “Non deliravo, sotto le macerie, quando ho detto di aver sempre amato solo te, Mirzam: l’ho negato a lungo, per non soffrire, ma io ho amato sempre e solo te… Non potevo sposarlo… non volevo…”

Alzò gli occhi su di me, brillavano di lacrime alla luce della luna, il suo viso si accese di porpora, in parte imbarazzata, in parte orgogliosa e decisa. Avevo sempre amato questo di lei, la sua forza, il suo coraggio nel combattere, sempre, fino alla fine.

    “Ho mandato tutto a monte l’estate scorsa… Volevo che tu lo sapessi… volevo che almeno tu…”
    “Jarvis mi ha spiegato tutto, ma… Io lo sapevo già, l’avevo capito dentro di me… io… io ho visto che mi cercavi… nei miei sogni… anche se era troppo bello e non riuscivo a crederci…”

Sile sembrò sorpresa, ma non fece domande, ci sarebbe stato tempo, tempo per spiegare ogni cosa.

    “Mio padre voleva solo proteggermi, voleva darmi tempo per fare chiarezza, aveva paura che fossi confusa e che stessi facendo un’altra stupidaggine…”
    “E tu stavi facendo un’altra stupidaggine? Come pensava tuo padre, Sile?”
    “No, la mia unica vera stupidaggine è stata andarmene da Hogwarts. Io dovevo restare al tuo fianco, Mirzam… Si deve sempre restare al fianco di chi si ama… Sempre…”

Sile mi guardava, gli occhi pieni di lacrime, io credevo che sarei potuto morire in quell’istante, per quanto ero felice. L’abbracciai, le sollevai il viso, seguii con le labbra le linee perfette del suo naso e poi delle sue labbra, quindi la baciai come la prima volta, tanti anni prima, con timore e devozione, pregando che quell’istante durasse in eterno. Che quello fosse davvero l’inizio, il nuovo, vero inizio della nostra vita. Tutto intorno a noi era scomparso, forse c’era della musica, ma io non la sentivo, sentivamo solo una musica tutta nostra, mentre ci baciavano e ci cullavamo uno nell’abbraccio dell’altra. Ci staccammo per respirare, la fissai. Sicuro come mai ero stato nella mia vita.

    “Ora sei qui, Sile, siamo di nuovo qui, insieme, a Doire, come avevi detto tu, come avremmo dovuto già tanti anni fa… Tutto il resto non conta, non deve più contare… mai più. Ricominceremo da capo… Cancelleremo gli errori vivendo giorno per giorno la vita che abbiamo sempre sognato… tu ed io… solo tu ed io… noi possiamo tutto… perché ci amiamo, ci siamo sempre amati e ci ameremo per sempre… Chiedimi qualsiasi cosa ed io la metterò ai tuoi piedi, qui… dove io mi metto adesso, ora e fin oltre la morte.”

Le strinsi le mani e la fissai, poi, sotto la luce della luna piena e dei suoi occhi stupiti e commossi, m’inginocchiai davanti a lei e mi sfilai dal dito l’anello di messer Yuket, quello che avevo fatto realizzare per lei, anni prima.

    “Ti prego, accetta questo anello e la mia vita…”

Percepii dei brusii alle mie spalle, ma non mi voltai, guardai Sile, temetti di vedere la sua preoccupazione o il suo rifiuto, invece, come me, era immersa nella stessa magia che era nata tra noi tanti anni prima. Lasciò che le mettessi l’anello all’anulare destro, lasciò che si adattasse magicamente alle sue dita, e prima che mi rialzassi, si tolse il ciondolo di sua madre che portava al collo, per metterlo al mio. Poi mi raggiunse a terra, mi abbracciò, e prima di baciarmi di nuovo, mi sussurrò lieve all’orecchio:

    “Un solo sangue, una sola vita, un solo destino… un solo amore… fino alla fine dei miei giorni…”

Dietro di me, gli ignoti spettatori, che avevano assistito alla scena, iniziarono ad applaudire, ma io non me ne curai, avevo la mente solo per la vita che finalmente avevo riaccolto tra le mie braccia. Quando mi rialzai, però, vidi che tra gli altri c’era Donovan Kelly, appoggiato all’arco della porta, con un cipiglio severo in faccia, e il suo solito sigaro in bocca. Di certo non era di quelli che avevano applaudito a quell’esibizione pubblica e indecorosa di romanticismo: mi frapposi tra Donovan e sua figlia, continuando a tenerla stretta a me, e lo fissai, facendogli capire che non avrei ammesso intromissioni, nemmeno da lui.

    “Milord, io…”
    “Ti do un mese di tempo per provarmi che questa non è una delle tue solite pagliacciate, Sherton… E non provare a mettere in mezzo tuo padre per salvarti le chiappe anche stavolta… Dovrai essere tu a convincermi di meritare mia figlia, se e quando avrai le palle di presentarti alla mia porta…”

Donovan fece cenno a Sile e con sgomento fui costretto a lasciarla andare: aveva ragione, dovevo dimostrare a lui e a tutti quanti di meritare quanto avevo chiesto, ma sapere che lei era pronta a restare per sempre al mio fianco, mi avrebbe dato la forza per affrontare e superare qualsiasi prova.

***

Mirzam Sherton
Herrengton Hill, Highlands - mer. 14 aprile 1971

    “Se crede di poter umiliare mio figlio e la mia famiglia così e farla franca si sbaglia di grosso! Chi si crede di essere? Donovan Kelly è impazzito! Che cosa crede di ottenere? Sembra quasi che abbia qualcosa da nascondere…”
    “Calmati Alshain… Tu che ne pensi Mirzam? E soprattutto… cosa ne pensa Sile?”
    “A noi sta bene affrontare nove mesi d’inferno, qualsiasi cosa, purché alla fine possiamo sposarci… in fondo è solo colpa mia, gli ho mancato di rispetto…”
    “Quel malefico pazzo! Non si ricorda cosa combinava lui alla vostra età? Infame…”
    “Tutti noi da ragazzini abbiamo tenuto in poco conto le regole… ma quando si passa nel ruolo di genitore le prospettive cambiano… ti ricordo che anche noi abbiamo una figlia, Alshain…”
    “Non vorrai dargli ragione, Deidra?”
    “No… ma posso capire che sia preoccupato… tu non lo saresti per Meissa?”

Mio padre si rabbuiò di colpo, sapevo che per lui Meissa era una specie di tabù e si sentiva male anche solo al pensiero che un giorno sarebbe diventata grande. Pur nella tragedia del momento mi venne da ridere: l’avrei proprio voluto vedere, il grande, liberale, Alshain Sherton alle prese con il moccioso che sarebbe andato, un giorno, a chiedergli la mano di mia sorella… Come minimo gli avrebbe affatturato qualche parte delicata del corpo.

    “Se fossi preoccupato, farei in modo di conoscere meglio il fidanzato di mia figlia, non impedirei ai due di vedersi fino al giorno del matrimonio! Che senso ha? Si è mai visto un fidanzamento in cui per otto mesi, i due non possono frequentarsi? Il fidanzamento serve per conoscersi, anche tra famiglie… Come faccio a conoscere quella ragazza se mio figlio non può invitarla a casa nostra?”
    “Pare che per lo meno ci permetta di andarli a trovare a Doire, Alshain… e ci permette di invitarla qui, quando Mirzam non c’è… faremo così… Vedrai… Si tratta solo di una sfida: Donovan vuol costringere Mirzam a lamentarsi con te e mandare te a combattere le sue battaglie, dimostrando di essere un ragazzino viziato come si figura nella sua mente. Quando non troverà soddisfazione, si renderà conto da solo che le sue posizioni sono ridicole… e tornerà a comportarsi in modo ragionevole…”

Mio padre non era convinto, rimase in piedi accanto al caminetto rimuginando l’offesa e la vendetta, mia madre, seduta sulla poltrona accanto a lui, continuava a sferruzzare una cuffietta per il bambino. Dopo quattro settimane passate comportandomi con Sile e con la sua famiglia come si conveniva durante un canonico corteggiamento Slytherin, mi ero presentato la sera prima a casa di Donovan Kelly, per chiedergli ufficialmente la mano di sua figlia, in prima persona, senza mandare avanti mio padre con le sue generose offerte e le sue abilità oratorie. Ci avevo messo poco a capire però che, indipendentemente da come mi fossi comportato, Donovan aveva già deciso di prendersi nei miei confronti tutte le soddisfazioni che riteneva necessarie e opportune, per rifarsi delle offese, vere o presunte, che riteneva aver subito da parte mia. In realtà, sapevo che i numerosi torti, di cui mi riteneva colpevole, si riducevano a uno soltanto e, mettendomi nei suoi panni, potevo capirlo: non gli andava giù, pur passati quattro anni, la notte che avevo passato con Sile a Essex Street, e l’astiosità verso mio padre era dovuta al fatto che lo riteneva mio complice, avendomi dato le chiavi della sua casa di Londra. Testardo com’era, era meglio se mi fossi rassegnato subito, perché, probabilmente, anche dopo trent’anni di matrimonio, circondato da una mezza dozzina di figli e chissà quanti nipoti, Donovan Kelly avrebbe continuato a guardarmi con rancore per quella notte in cui, secondo lui, l’avevamo umiliato. Sile ed io, però, non ci saremmo mai pentiti, nemmeno sottoposti a ogni genere di vessazione, di quella che era stata la notte più bella della nostra vita, la nostra prima e unica notte d’amore. Quando mio padre aveva ascoltato le condizioni del suo vecchio amico, dapprima si era messo a ridere, poi, compreso che non stavo scherzando mi aveva guardato preoccupato: ci era imposto un fidanzamento lungo nove mesi, compreso quello che avevo già passato frequentando la sua casa, con l’obbligo di non vederla, per dimostrargli in maniera inequivocabile che non ero il ragazzino irresponsabile e privo di autocontrollo che aveva messo a rischio la vita di sua figlia. Non voleva nemmeno un ricevimento per il fidanzamento o altre pubbliche esternazioni, questo perché, dal suo punto di vista, ci eravamo già coperti di ridicolo a sufficienza.

    “Studierò attentamente questo contratto, troverò  il modo di fargliela sotto il naso, a quel vecchio babbione… Salazar! Ma si può essere più ottusi? Avevo già in mente di festeggiare in maniera grandiosa, invitare tutti quanti, far vedere la bellezza di un’unione sancita dall’amore, e non dai soliti compromessi… e lui…”
    “Ti ringrazio di tutto questo e del pensiero, padre, ma la penso come Sile: tanto tempo fa, lei mi ha detto che non le interessavano feste, anelli, dichiarazioni pubbliche e chissà cos’altro, lei voleva molto meno, e al tempo stesso, molto di più, perché lei voleva solamente me… come io voglio solamente lei… Per la mia stupidità ho perso quattro preziosi anni, otto mesi fisicamente “lontani” sono niente, se alla fine potrò restare insieme con lei per tutta la vita…”

Mia madre alzò gli occhi su di me, poi su mio padre, che la osservava con una strana luce negli occhi: per un attimo, ebbi la straordinaria sensazione di aver ripetuto parole che erano già state dette, anche se non le avevo mai sentite di persona.

    “Credo che questa ragazza mi piacerà moltissimo… Alshain?”
    “Nel contratto non c’è scritto nulla a proposito delle lettere… voglio che Sile sappia che da oggi Herrengton è la sua casa e noi siamo la sua famiglia...”

Pur senza averla fisicamente tra noi, Sile li aveva già conquistati. Non ne avevo mai dubitato.

***

Mirzam Sherton
Doire, Irlanda del Nord - ottobre 1971

A Doire l’autunno arricciava le foglie e le disperdeva nel vento. Camminavo lungo il fiume, chiuso nel mio mantello, nel buio, punteggiato dalle luci artificiali, nel silenzio, rotto solo dal rumore di qualche auto in lontananza. Mi fermai sul ponte a respirare l’aria carica di magia e di attesa che sentivo palpitare tutto intorno a me: quella terra era la mia infanzia, era uno dei luoghi in cui ero vissuto felice, aveva finito con l’entrarmi nell’anima più della stessa Herrengton. Avevo pensato, a volte, che avrei potuto lasciare tutto e vivere lì, dimenticare il mio nome, e diventare, in questo modo, ancora di più, il figlio di mio padre. Quella terra ci offriva tutto ciò di cui avevamo davvero bisogno, ci rendeva liberi dalle nostre ossessioni e ci donava l’unica vera felicità. Ma sapevo leggere ormai anch’io i segni e tutto diceva che, come tra i babbani stava maturando la guerra, l’oscurità avanzava anche nel nostro mondo. La mia seconda patria, ormai, era prossima a esplodere, a insanguinarsi; cielo e terra e acqua sarebbero stati macchiati dal sangue del fratello versato dall’altro fratello. Doire sarebbe bruciata, le bandiere sarebbero state strappate, uomini e donne e persino bambini sarebbero rimasti a terra, freddi e inermi. Anche noi saremmo stati travolti da quella follia.
   
    Presto, troppo presto.

Le mie stesse mani si sarebbero macchiate di sangue: era ormai deciso, non avevo scampo, l’ordine di Milord era stato preciso, c’era un prezzo per la vita che avevo scelto ed era ormai giunto il momento di pagare. Ero stato ingenuo a credere che non mi avrebbe più presentato il conto. Respirai a fondo, indossai la mia maschera, volevo apparire sereno, felice, pronto a un futuro senza ombre, non volevo mostrare i segni del mio turbamento. Arrivai in fondo alla via, là dove per i babbani esisteva solo un parco abbandonato, circondato da mura sfatte e filo spinato, e per noi iniziava il complesso dell’ospedale cittadino. Salii le scale e attraversai l’ampio ingresso, bussai alla segreteria e chiesi di lei… salii due piani, percorsi un lungo corridoio, lessi il suo nome sulla porta e attesi seduto il mio turno. Quando uscì una coppia con un neonato in braccio, mi alzai, bussai alla porta, ed entrai: una giovane donna, dagli occhi di mare e il sorriso di stelle, sollevò il viso dalle sue carte e, sorpresa della visita inaspettata, si alzò dal suo posto per venirmi incontro, felice, mi sciolsi nel suo abbraccio, nei suoi baci, nella sua risata che sapeva sempre rincuorarmi. Mi chiedevo spesso come avessi fatto a vivere tanto a lungo lontano da lei, ma ora sapevo che per quattro lunghi anni, avevo smesso di vivere…

    “Ti credevo a Inverness ad allenarti per la partita contro i Tornados… Che cosa ci fai qui?”
    “Io… Avevo solo bisogno di vederti, Sile… So che non dovrei, ma qui in fondo… non siamo soli, no? Salazar! Mancano ancora due mesi a Yule! A volte credo che non riuscirò mai a rispettare gli impegni che ho preso con tuo padre!  È innaturale vivere lontano da te, senza vederti se non nei miei sogni… Ma non voglio che tu sposi un uomo incapace di mantenere le promesse…”

Sile rise, cercando di evitare le mie labbra che, caste, si stampavano sul suo collo bianco come neve, poi mi accarezzò il viso, lasciando che mi perdessi nel suo sguardo innamorato.

    “Dovresti mantenere le promesse se sono sensate… Tu sei tornato da me, Mirzam… hai mantenuto la tua promessa… cosa vuoi che contino le altre, soprattutto quelle di un pazzo come mio padre?”
    “Qualsiasi promessa ti riguardi, Sile, merita di essere mantenuta… Tu… tu hai rispettato ogni promessa… mi hai persino salvato la vita, Sile… tu sei coraggiosa, sicura e decisa… a volte mi chiedo se riuscirò mai a essere forte come te…”

Sile mi fissò, forse percepì il turbamento dietro la mia corazza, mi strinse le mani tra le sue poi mi accarezzò il viso e si strinse a me.

    “Lo sarai… Mirzam… Lo saremo… insieme…”


*fine dell'intermezzo*


NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti, recensito...  e un grazie particolare a quanti hanno votato questa FF per il concorso di EFP sui migliori personaggi originali..

Valeria



Scheda
Immagine: collage realizzato attraverso varie immagini trovate in rete
  
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