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Autore: Heine     31/07/2010    4 recensioni
Una storia che parte dal passato semi-sconosciuto di Hiruma Yoichi, quarterback dei Deimon Devil Bats, con come protagonista un nuovo personaggio.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Ready, Set, Hut Non penso di essere una persona che crede nel destino.
Ma, tempo dopo aver ricevuto quella telefonata, mi resi conto che probabilmente qualcosa di simile esisteva.



Doburoku era un allenatore provetto, e la sua tecnica di insegnamento era basata su anni e anni di esperienza, di cadute, di vittorie e di partite perse. Tuttavia, alla sua veneranda età, possedeva delle limitazioni fisiche. Guardava quei giovani e promettenti atleti del Deimon, e si rendeva conto che lui, star d’un tempo passato, non poteva più uguagliarli. Provava una certa invidia, insieme ad una sorta di senso protettivo, orgoglio e voglia di vederli un giorno sul podio su cui lui non era potuto arrivare.
Voleva vederli vincere il Christmas Bowl, a tutti i costi.
Eyeshield 21, ovvero Sena Kobayakawa, era infinitamente migliorato durante la Death March fino a Las Vegas, in tutto: come mentalità, come maturità, come velocità e come resistenza. Aveva un talento innato, le sue erano gambe d’oro. Rispetto agli altri componenti della squadra, era decisamente superiore, sebbene sia Monta che Kurita fossero entrambi talentuosi. Sena aveva bisogno di qualcuno che lo seguisse da vicino, prima di tutto perché lui, Doburoku, non era in grado di corrergli a fianco a quella velocità; secondo, perché il suo talento andava coltivato. Quel ragazzo poteva andare lontano, diventare un professionista serio e poteva ambire a gradi vittorie.
Hiruma, il quarterback, non era in grado di poterlo allenare da vicino, poiché doveva seguire il resto della squadra e sé stesso in primo luogo; Anezaki era la manager, e non era adatta a prendere le redini della questione.
Con la fronte aggrottata, fece un gesto per chiamare Hiruma.
- Che c’è, vecchiaccio di merda?- gli urlò da lontano il biondo quarterback posando su una panchina la propria mitragliatrice.
- Ho bisogno di parlarti di una cosa.- rispose serio Doburoku, lo sguardo concentrato fisso sul campo.
- Sbrigati vecchiaccio, devo far fare ancora ai nanerottoli venti giri del campo.
Doburoku, pacato, sorseggiando il sake tra una pausa e l’altra, gli espose in sintesi le sue preoccupazioni e le sue idee. Hiruma, le mani sui fianchi, diventò serio e il suo sguardo si fece pensieroso.
- E chi pensi possa seguire quel marmocchio, vecchiaccio? Non siamo una squadra come l’ Ojo. Non abbiamo dei sostituti validi né tantomeno qualcuno che possa seguire Eyeshield senza essere pagato. Posso fare quello che vuoi per i fondi del club, ma non mi va di sprecare soldi per qualcuno che non conosco e che potrebbe rivelarsi un fesso.- sentenziò alla fine con fare sprezzante.
- Non ci sono delle conoscenze, che ne so, qualcuno che in passato era in squadra?- suggerì Doburoku bevendo sake.
- Musashi è tutto preso dal suo lavoro di muratore e dal padre. E poi se tornasse in squadra sarebbe il kicker che ci manca, idiota.
Calò il silenzio, ed entrambi rimasero assorti dai loro pensieri. Hiruma puliva il proprio fucile con dei gesti ormai dettati dall’abitudine, Doburoku si grattava la nuca con una smorfia in viso.
Fu un istante. Alzarono entrambi lo sguardo, chi con un ghigno in volto, chi con un sorriso a trentadue denti.
Erano arrivati alla stessa soluzione.

 


Vivevo nella sperduta campagna giapponese, in allegra compagnia di mucche, galline e vitelli. Incredibile ma vero, il Giappone possiede anche una campagna! Dei campi verdi, risaie, boschi e strade sterrate.
Quando si pensa al Giappone, vengono subito in mente le gradi megalopoli quali Tokyo o Osaka, la tecnologia, il Monte Fuji, gli anime, i manga, e niente di più.
Dopotutto, il turismo è concentrato soprattutto in quegli ambiti.
Mio padre, figlio di impiegati, aveva deciso di rompere la tradizione di famiglia, ed era scappato di casa, aprendo una piccolissima ferramenta in un paesino sperduto dell’ Hokkaido, circondato solo ed esclusivamente da prati. Poi aveva incontrato mia madre ed infine aveva avuto me, Chizuru.
Essendo molto legata alla mia famiglia e poco propensa alla socializzazione, alle elementari non feci amicizia con quasi nessuno. Eravamo una classe di circa quindici bambini in tutto -nel senso che eravamo quindici bambini in tutta la scuola-, a livelli diversi di conoscenza e di età diverse. La maestra ci seguiva tutti, mettendoci a gruppi a seconda delle età, organizzandosi le spiegazioni come riusciva.
Passavamo tutta la mattina e metà del pomeriggio a scuola, dopodichè tornavamo a giocare o ad aiutare i nostri genitori nei campi. Non era il mio caso, dato che mio padre possedeva una ferramenta, ma mi piaceva saltellare per i campi, raccogliere fiori e poi portarli a mia madre, aspettando felice una carezza sui capelli.
Insomma, ero una bambina molto semplice, per niente amante della violenza, taciturna e a tratti ambigua per i miei compagni. Avevo infatti una sorta di mania per la corsa, correvo per i prati anche per delle ore, senza stancarmi mai. Mi dava sollievo, era la mia unica valvola di serio sfogo.
Un bambino molto simile a me, in un certo senso, era un tal Yoichi, un bambino smilzo, con i capelli neri costantemente spettinati, un ghigno diabolico stampato sul volto e orecchie a punta, il quale possedeva un’intelligenza e una furbizia fuori dalla norma. Era il classico bambino sempre in punizione, che ne combinava di tutti i colori e che incitava alla ribellione. Per quanto ne sapevamo noi, viveva col padre, un ricco giocatore di scacchi- o almeno, pareva- che possedeva un appartamento appena fuori dal paese, il quale, tuttavia, non era quasi mai in casa. Di sua madre non avevamo notizie, e lui non parlava mai se non interpellato. Passava le ore chino sul banco a fare schizzi di schemi e robe che io non capivo, oltre a disegni di armi e di pistole che di certo non rendevano felice la maestra; l’alternativa agli schizzi erano le classiche puntine da disegno messe sulle sedie dei compagni.
Non aveva amici. Era troppo violento e aggressivo, non rispondeva mai bene e la gentilezza non era la sua prerogativa di vita. Gli altri della classe lo evitavano più che potevano, e parecchie volte aveva ricevuto delle lamentele da parte dei genitori degli altri compagni.
In sintesi, era una vera peste. Ma non era casinista, ed era questo ciò che inquietava.
Un giorno, capitai casualmente come sua vicina di banco. Il vecchio vicino aveva costantemente dei cerotti sul sedere a causa delle puntine, e mi lasciò il posto con estremo sollievo. Io ero terrorizzata. Mi ricordo che non mi salutò neanche, continuando tranquillamente i suoi diabolici schizzi e senza degnare di uno sguardo gli esercizi di matematica che la maestra ci aveva assegnato. Tutto ad un tratto, si voltò verso di me di scatto, un enorme ghigno sul volto che gli andava da un’orecchia all’altra.
- Hei tu!- mi disse, sghignazzando- Hai delle puntine da disegno? Le ho finite tutte con il vecchio compagno.
Quello fu il mio primo, inquietante incontro con Hiruma Yoichi.

 

Nei giorni seguenti, tentò ovviamente di mandarmi nel panico più totale mettendomi costantemente tutte le sante mattine le puntine sulla sedia, e io, che avevo finalmente capito come funzionavano le cose, costantemente tutte le sante mattine mi chinavo, raccoglievo le puntine in una mano e gliele restituivo sorridendo. Non demordevo, anche se la mia pazienza era messa sempre alla prova da quel bambino maligno.
Avrei potuto benissimo andare dalla maestra a piagnucolare come qualsiasi altro bambino sano di mente, ma no, mi dicevo che se l’avessi fatto gliel’avrei solo data vinta.
Non parlavamo, sentivo che lui borbottava qualcosa durante le lezioni ma niente di più; ogni tanto lo sorprendevo a disegnare le sue amate pistole accompagnandosi con dei “BAAANG!”, ma in quei momenti era talmente preso da quello che stava facendo che tendeva ad escludere totalmente il mondo esterno. Non che gliene importasse molto, degli altri, dopotutto.
Dopo settimane e settimane di continui appostamenti di puntine sulla mia sedia, decisi che ne avevo abbastanza. Non vedendo altro modo se non rispondere con le sue stesse armi, il giorno seguente gli misi io le puntine sulla sedia. Ero impassibile, ma dentro di me ghignavo come se fosse stata la prima volta che facevo una marachella. Lui arrivò al banco, si fermò, guardò la sedia e rimase un po’ interdetto. Io feci una smorfia, delusa dal fatto che lui non ci fosse cascato, ma lui invece di dirmi qualcosa e mandarmi a quel paese mi rivolse uno dei suoi soliti sorrisi demoniaci e mi restituì le puntine.
Durante quel semplice scambio di scherzi, facemmo amicizia. Lui si rese conto probabilmente che ero una delle poche che aveva osato provocarlo, e io mi dissi che potevo anche fare amicizia con qualcuno. In effetti Yoichi mi faceva un po’ pena: era sempre da solo, e suo padre non veniva mai a prenderlo fuori da scuola.
Il primo discorso serio che facemmo fu a proposito delle armi che disegnava. Mio padre teneva dei fucili in casa- ovviamente non caricati- e possedevamo qualche manuale di armi a cui io avevo dato una sfogliata qualche volta, non avendo niente di meglio da fare. Avevo una buona memoria visiva al tempo, e riuscivo un po’ ad abbinare le immagini ai nomi.
Sembra strano che due bambini di appena dieci anni possano fare amicizia per una cosa come le armi, e invece per me e Yoichi fu così, e non riesco ad immaginarmi un altro modo in cui noi potessimo diventare amici.

Ovviamente continuò a farmi scherzi su scherzi, a volte anche davvero diabolici, e non si risparmiava per niente le battutacce e l’assenza totale di gentilezza nei miei confronti; tuttavia, prendemmo l’abitudine di andare dopo la scuola nei prati insieme. Lui non mi calcolava molto, non era abituato a stare in compagnia, e correva per i campi fingendo di essere in mezzo ad una delle sue fantasie. Beh, fantasie. Si trattavano di giochi in cui lui assediava qualsivoglia collinetta di terra, gare a chi era più veloce o a chi si arrampicava prima sull’albero, oltre a varie incursioni nei meleti dei vicini a rubare la frutta.
Non mi portò mai a casa sua, ma approfittò più volte dell’ospitalità di mio padre, ovviamente per fini quali vedere e toccare da vicino i suoi fucili. Un pomeriggio, mentre eravamo in un campo sotto illuminato dal caldo sole estivo, incominciò a raccontare confusamente della sua famiglia, di suo padre, del disprezzo e della rabbia repressa che provava nei suoi confronti. Io gli chiesi di sua madre; lui si zittì per un momento, poi ringhiò a voce bassa, fissandosi i piedi, che era scappata con un altro uomo quando lui aveva all’incirca quattro anni. Rimasi sconvolta. Ero così abituata a vedere la mia famiglia felice, che per me, bambina di dieci anni, era quasi impossibile pensare ad una cosa del genere.
Era un bambino forte, non pianse né diede segni di cedimento. Mi guardò, mi ringhiò di non dirlo a nessuno, si voltò dandomi le spalle e, le mani ficcate a fondo nelle tasche dei pantaloncini, prese a calciare un sassolino sulla strada. Rifiutò con un gesto brusco la mia mano sulla sua spalla, e andò a casa sua senza dire una parola.

Circa un mese dopo, saltò la scuola. Una mio compagno l’aveva visto uscire di casa, ma non era entrato in classe. Chiamarono il padre, ma era irrangiungibile.
Uscita da scuola, sentii un “Hei!Psst! Chizuru! Idiota, voltati!”, mi girai e lo scorsi nascosto dietro ad un muretto, con un ghigno enorme stampato in volto. Era euforico da far paura, sprizzava entusiasmo da tutti i pori. Mi avvicinai di soppiatto a lui e gli chiesi perché diamine non era venuto a scuola, che tutti erano preoccupati per lui e che pensavano fosse scappato. Lui mandò a quel paese tutti e mi incitò a seguirlo. Durante il viaggio, mi raccontò che era entrato nella base militare americana vicina al nostro paese, e che aveva scoperto uno sport fantastico, “stra-figo”, assolutamente incredibile, e che voleva farmelo vedere.
Mi spinse di forza in un buco che aveva praticato lui precedentemente nella rete che circondava la base militare – io non volevo entrarci, continuavo a ripetere che era troppo pericoloso- ma lui a forza di spintoni mi buttò di peso dentro, sghignazzando come un ossesso. Mi ritrovai ai bordi di un campo enorme, dove uomini dalla stazza enorme si spintonavano, sudati, passandosi una palla ellittica con dei lacci sui lati.

Era violenza allo stato puro, ma era stranamente affascinante. Mentre li guardavo a bocca aperta, lui mi illustrava in termini tecnici cosa stavano facendo, mostrandomi un manuale di “Football Americano”, uno sport a me ignoto prima di quel momento. Io però non lo ascoltavo. Ero tutta presa da un tizio di una delle due squadre che correva come un fulmine verso l’altra metà campo, la palla stretta contro il petto. Correva come un dannato, ma sembrava divertito al massimo. Mi rispecchiai in lui, rivendendo me stessa e i lunghi pomeriggi prima di conoscere Yoichi a correre nei prati, raccogliendo i fiori per mia madre. Il cuore mi batteva a mille.
Prima che me ne rendessi conto, un uomo enorme ci oscurò con la sua ombra, e prese Yoichi per la maglietta, sollevandolo a cinquanta centimetri da terra. L’euforia si trasformò nel giro di due secondi in terrore allo stato puro, ma il ragazzino non fece una piega. Si scambiarono qualche battuta tagliente, poi Yoichi gli sussurrò qualcosa all’orecchio; l’uomo avvampo’ di botto, sbraitò contro i bambini ficcanaso delle ultime generazioni, e ci disse di portare le nostre chiappe fuori da quella base. Terrorizzata, tirai per una manica il mio amico e gli dissi di andarcene, che io avevo paura e che me ne volevo andare al più presto da lì. Lui sbuffò, spazientito, e acconsentì a malavoglia, imprecando sonoramente. Corremmo per un po’ senza fermarci, per poi sederci sotto un albero.
Mi ringhiò contro che non avevo capito niente di quello che avevo visto e che saremmo potuti benissimo rimanere lì ancora un po’, e io, invece che stare zitta e incassare come facevo di solito, gli risposi a tono. Prima che lui potesse replicare, gli raccontai incespicando sulle parole per l’emozione che cosa avevo provato vedendo quell’uomo correre con la palla in mano, concludendo infine con una decisa richiesta di insegnarmi a giocarci. Il suo volto si illuminò di colpo, rise sonoramente e tirò fuori dallo zaino la palla ellittica che avevo visto prima. La fissammo entrambi come se fosse stato oro, poi iniziammo a giocarci.
E da lì in poi, non ci fermammo più. Passavamo ore a lanciarci quella palla- lui era particolarmente bravo nei lanci- e ad esercitarci con i blocchi. Come forza ero nettamente inferiore a lui, ma ero decisa a non demordere. Il mio animo, in fondo, era quello di un maschiaccio, e piano piano scoprii che l’orgoglio era una cosa fondamentale da proteggere. La forza fisica non era il mio forte, ma Yoichi non era neanche lontanamente paragonabile a me come velocità.
Diceva che un giorno, nella sua vita, avrebbe fondato un club di football americano, e che sarebbe sicuramente entrato nella NFL. Una volta ammise che era un peccato che non ci sarei potuta essere io in squadra con lui, dato che il football americano non era cosa consentita alle femmine, e quello fu l’unico accenno di una vaga gentilezza che ebbi da lui nel giro di un anno.
Dato che era un’irreparabile cretino, seppi che si era recato più volte all’interno della base militare americana dopo che mi ci aveva portato, e che era riuscito a fare una sorta di “amicizia” con i componenti delle due squadre. Aveva imparato a giocare a poker e, grazie alla sua innata intelligenza, aveva vinto parecchi dollari grazie alle vincite. Non ci faceva niente con tutti quei soldi, la sua era una pura voglia di assaporare la vittoria e di godersi la gloria. Uomini. Mi propose più volte di andare insieme a lui, ma mi rifiutai di rimettere piede là dentro. Avevo una paura bestiale di quel colosso che lo aveva tirato su per la maglietta.

Le cose a casa mia andavano abbastanza bene, finchè mia madre non si ammalò. Era sempre stata cagionevole di salute, ma aveva avuto un improvviso calo delle difese immunitarie e aveva preso una malattia abbastanza grave. C’era assolutamente urgenza di ricoverarla in una clinica specializzata, ma nell’Hokkaido non era presente niente di simile.
Decidemmo, dopo giorni e giorni di silenziosa preoccupazione, di trasferirci temporaneamente nel Kanto, a Tokyo, dai genitori di mio padre, in modo che mia madre potesse essere curata. Ciò voleva dire lasciare la mia casa e tutte le abitudini che possedevo. Oltretutto, avrei dovuto lasciare il mio primo e unico amico, Yoichi Hiruma che, per quanto diabolico, insensibile e cattivo bambino quale era, mi aveva accettata e mi aveva resa felice, in un certo senso. Oltre ovviamente alla mia unica possibilità di praticare il football americano.
Un pomeriggio, tra un lancio e l’altro, lo dissi a Yoichi. Lui si fermò, spalancò gli occhi e improvvisamente si fece serio. Mi guardò con una tristezza infinita. Lo stavo abbandonando anche io. Non mi disse niente, prese la palla e se tornò a casa, la fronte aggrottata.
Il giorno seguente, nell’intervallo, mi informò che anche lui si sarebbe trasferito a Tokyo, a causa di suo padre, con cui aveva parlato. Avrebbe frequentato le medie e il liceo lì, e avrebbe lasciato una volta per tutte il suo paese d’origine. Io ero quasi commossa. Non mi sembrava vero, il mio unico amico si trasferiva con me! Avremmo potuto giocare di nuovo insieme!

Non fu proprio così, tuttavia. La megalopoli non possedeva gli spazi aperti che avevamo in campagna, e non ci permise di continuare la nostra tradizione dei pomeriggi passati ad allenarci. Non abitavamo molto distanti, e il nostro solito punto di incontro era davanti alla clinica dove mia madre era ricoverata, esattamente a metà strada tra le due abitazioni. Suo padre ovviamente non mantenne la promessa di vivere con lui, e lo lasciò a qualcosa di molto simile all’autogestione. Yoichi si tinse i capelli di biondo e prese a pettinarseli in maniera un po’ punk, utilizzando molto più gel di qualsiasi altro alternativo in Tokyo; era una sorta di gesto di ribellione verso suo padre, io la pensavo così. Ci iscrivemmo entrambi alla stessa scuola media, la Mao, una scuola mediocre ma che possedeva un campo da football americano.
Nel giro di due mesi, eravamo cambiati moltissimo. Lui era cresciuto molto in altezza –mi superava di un bel po’-, io avevo assunto una sorta di espressione perennemente indifferente. Ero pallida come un morto –non che si notasse molto, data la mia carnagione già rasente all’albinismo-, e avevo tagliato i capelli neri già corti ancora più corti. Non li pettinavo, e il tutto abbinato alla mia abitudine di portare abiti e felpe larghe, la maggior parte smesse da un mio cugino, mi conferiva un’aria un po’ strana e inquietante agli occhi della gente. Non stavo bene a causa dei continui peggioramenti di salute di mia madre, e il mio animo ne risentiva.
Accostata ad uno come Yoichi, quando camminavamo fianco a fianco la mattina per andare a scuola, sembravamo due appena evasi di prigione. Non era bello, ma non ci facevo molto caso; a Hiruma invece la cosa piaceva parecchio, e aveva preso l’abitudine di segnarsi qualsiasi pettegolezzo su un’agendina che aveva intitolato “Agendina dei ricatti”, e che tirava fuori con un movimento fluido all’occasione. In poche settimane, aveva fatto una scheda su ogni studente della Mao, comprese le foto compromettenti di ognuno. Scoprii con sollievo che io non ero tra quelle schede, e ne fui felice.
Per puro caso, conoscemmo un ragazzo di nome Kurita, un bestione di 120kg per 170 centimetri di altezza, patito del football americano e paradossalmente buono come il pane. Era ingenuo, semplice e gentile, l’esatto contrario di Yoichi. Urlò con le lacrime agli occhi che il suo più grande sogno era quello di riuscire a fondare una squadra di football americano, e improvvisamente Hiruma si fece interessato. Scoprì tramite uno dei suoi “sottoposti” che Kurita era un blocker  eccezionale, data la sua stazza e la sua forza.
Un caldo giorno di Ottobre, Yoichi tornò alla base militare, senza dirmi niente. Voleva scommettere i propri soldi su una delle due squadre. Purtroppo, puntò sulla squadra sbagliata: il quarterback e un blocker  erano stati colti da un malessere e non potevano giocare. Sicuramente avrebbe perso tutti i suoi soldi, se Kurita non l’avesse seguito di nascosto. Decisero così che Hiruma avrebbe preso il posto del quarterbak e Kurita del blocker, giocando al loro posto.
Persero comunque, ritornarono a casa pesti e Yoichi fu costretto a dare tutti i suoi soldi alla squadra vincitrice, ma quella partita persa fece scattare qualcosa nel ragazzo. Così, decise di metter su una squadra, al fine di vincere il Christmas Bowl e di vendicarsi di quella penosa partita.
Ci allenavamo tutti i pomeriggi dopo la scuola, anche se io ero solo di figura. Yoichi decise di fare il quarterback e di prendere il comando della squadra, mentre Kurita sarebbe stato uno dei blocker  - e anche l’unico – e io il running back, data la mia velocità che ormai sfiorava il record liceale.
Per un altro puro caso, incontrammo un tal Gen Takekura, soprannominato da tutti Musashi data la sua somiglianza con il famoso samurai, un genio dei calci. Lo scoprì Hiruma e, dopo una serie di ricatti non riusciti, Musashi decise di unirsi a noi di sua spontanea volontà. Era molto gentile e schietto, soprattutto nei miei confronti, e mi disse che era figlio di muratori, e che la forza nei muscoli era una cosa di famiglia.
Ero felice. Avevo due nuovi amici, e ce la spassavamo alla grande. Spesso dopo gli allenamenti andavamo insieme a bere qualcosa, ed erano momenti pieni di calore. Non di certo da parte di Yoichi, perennemente sul chi va là e pronto a qualsiasi diavoleria gli passasse per la testa, ma Kurita era davvero un pezzo di pane, e si entusiasmava per qualsiasi cosa. Bastava che avesse un po’ di gente intorno perché si rallegrasse all’improvviso.

Verso la fine dell’anno scolastico, mia madre morì. I medici non riuscirono a salvarla. Quando le cose sembravano quasi per essersi messe a posto, si prese una febbre altissima e si spense nel giro di una notte.
Fu una brutta botta, sia per me che per mio padre. Passammo giorni chiusi in casa a cercare di non far vedere all’altro il proprio dolore, non capacitandoci dell’assenza della presenza di mamma. Tutto ci ricordava lei, e non riuscivo a entrare in cucina senza ricordare il suo sorriso gentile e la sua risata delicata. Non dormivo e non mangiavo, non riuscivo a fare altro se non rimanere nella mia stanza con le ginocchia strette al petto.
Gen, Kurita e Yoichi seppero la notizia tramite la segreteria della scuola, io non riuscii a contattarli per dirglielo.
Una sera, il telefono di casa squillò. Guardai il numero e vidi che non era registrato nella rubrica telefonica. Alzai la cornetta e con voce gracchiante risposi con un quasi impercettibile “Pronto..?”
- Chizuru, sei tu…?
Era Yoichi, e nel sottofondo si sentiva Kurita che lo implorava di essere gentile.
Il ragazzo zittì lui e Gen- che sicuramente era lì, perché si percepivano i suoi sbuffi- e ritornò alla cornetta.
-  Hei, ci sei?
- … Sì.
- Io, Gen e Kurita passiamo a casa tua.- disse, un misto tra un mormorio confuso e un sospiro.
Non era evidentemente in grado di chiedere il permesso, per lui tutto era ovvio. Ma apprezzavo il gesto e soprattutto non avevo la forza di rispondergli a tono.
- Mio padre non c’è, Yoichi, e lo sai, brutto idiota, che i fucili sono ancora nell’Hokkaido.- risposi io seccamente, senza pensarci.
- Cret… Chizuru, Kurita e quel vecchiaccio di Musashi desiderano vederti. Quei fucili ormai non sono più in uso.
Era il suo modo di dire che anche lui voleva passare da casa mia.
- Okay.- risposi, e chiusi la chiamata.
Neanche due minuti dopo, suonarono alla porta. Ah, quel Yoichi. Era già appostato sotto casa mia, e non si aspettava di certo un rifiuto. Il solito bastardo.
Andai io ad aprire dato che mio padre era uscito per delle commissioni, e mi ritrovai prima di poter proferire parola tra le braccia morbide di un Kurita in lacrime.
Rimasi un attimo interdetta, poi lo abbracciai, mordendomi le labbra per non scoppiare a mia volta in lacrime. Quando si decise a mollare la sua presa ferrea, potei guardare in volto gli altri due, ma abbassai subito lo sguardo sui miei piedi, ficcando i pugni stretti a fondo nelle tasche della felpa. Musashi aveva un’espressione assolutamente abbattuta in volto, ma quella di Yoichi era … serietà, confusione, tristezza –dopotutto aveva conosciuto anche lui mia madre, e per un certo periodo lei si era anche presa cura di lui, dato che quest’ultimo non la possedeva-, più un accenno al solito ghigno che non riusciva a togliersi dal volto per motivi principalmente di orgoglio. Musashi mi abbracciò, un abbraccio veloce ma profondo, carico di significato. Non mi aspettavo niente da Yoichi, ma con mia estrema sorpresa sentii le sue mani ossute e forzute afferrarmi le braccia; fui costretta ad alzare lo sguardo, e incontrai i suoi occhi azzurri, serissimi.
- Cazzo, Chizuru, riprenditi. Guarda in che stato pietoso s’è ridotto quel vecchiaccio di merda di Musashi.
Lo fissai, seria, poi scoppiai a ridere. Lui, confuso, mi lasciò andare, indietreggiando leggermente e guardandomi come se fossi stata una pazza furiosa.
Io continuai a ridere, presto seguita da Musashi e da Kurita, che rifilò una sonora pacca sulla schiena ad un Yoichi abbastanza sconvolto.

 

Dopo la morte di mia madre, io e mio padre decidemmo di tornare nell’Hokkaido. Stare a Tokyo non aveva senso, e non ci piaceva moltissimo l’aria di città. Così, alla fine dell’anno scolastico, ci trasferimmo di nuovo nel mio paese natio.
Lo dissi a Yoichi, Musahi e Kurita durante l’ultimo allenamento. Se l’avessi fatto presente prima, Kurita di sicuro avrebbe sofferto di più. Ovviamente Yoichi sapeva già tutto il giorno dopo aver deciso con mio padre di trasferirci, non ho la più pallida idea di come. Kurita, depressissimo, aveva organizzato all’ultimo una cena d’addio a casa sua, e ci eravamo riuniti tutti lì.
Non fu per niente commuovente o entusiasmante, a mio parere.
Kurita aveva preparato tutto in maniera perfetta, mangiammo bene e ci facemmo compagnia, ma né Musashi né Yoichi spiccicavano parola. Erano entrambi seri, e rispondevano a monosillabi, io già di mio non parlavo moltissimo, e Kurita cercava di fare qualcosa che ravvivasse l’atmosfera. Era strano: quando andavamo fuori a bere dopo gli allenamenti –il tutto grazie a Musashi, che dimostrava almeno dieci anni in più di quelli che aveva realmente- eravamo rilassati, chiacchieravamo tranquilli sulle nuove tattiche con in sottofondo i ghigni di Hiruma. Quella sera, invece, sembravamo totalmente estranei. Quattro perfetti sconosciuti radunati intorno ad un tavolo.
Non potendo più sopportare quella situazione, inventai una scusa e dissi a Ryokan che dovevo andare. Lo ringraziai di tutto cuore e gli dissi che quando voleva poteva venire a casa mia senza farsi problemi, lui scoppiò in lacrime e mi abbracciò singhiozzando. Musashi rise e mi strinse la spalla sorridendomi, salutandomi calorosamente. Yoichi mi lanciò una lattina di birra scadente, ghignò un “Arrivederci” e mi sfoderò il suo solito sorriso beffardo.

E con quell’ultimo saluto, me ne andai da Tokyo, ritornando ai miei amati campi e al clima freddo dell’Hokkaido.

 Mantenni i contatti con tutti e tre. Kurita chiamava ogni tanto chiedendomi come stavo, e di solito quando lo faceva era in compagnia di Musashi. Io e Yoichi ci sentivamo per e-mail circa una volta al mese, e il più delle volte non mi mandava altro che schemi di tattiche varie, schede dei nuovi giocatori promettenti del Kanto, raramente sue notizie personali. Personali, oddio. Erano solo notizie del tipo “Ho cambiato appartamento, adesso ho affittato con la gentile collaborazione del gestore della casa un altro appartamento più vicino alla Mao” e “Non abbiamo reclutato ancora nessun’altro per il club, ma ci fanno tenere aperto grazie alla gentile collaborazione del preside”, il che voleva dire che la sua agendina dei ricatti si stava ingrossando.
Seppi che durante il terzo anno delle medie Musashi aveva lasciato il club e la scuola a causa del padre, che era stato ricoverato d’urgenza in ospedale. Incominciai a chiamarlo più spesso per dargli il mio supporto morale; mi sembrava di rivivere il periodo in cui mia madre era in clinica.

 Frequentai le medie, il primo e metà del secondo anno di liceo in una scuola vicina al mio paese, finchè non mi arrivò quella fatidica telefonata.

 

  
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