Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Lady Vibeke    02/03/2011    10 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

1.      FIGLIA DEL NULLA

 

This is me, for forever
One of the lost ones

- Nemo, Nightwish -

 

 

 

Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.

Tutto è buio.

Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.

– Chi sei? Che cosa vuoi? – chiede un ragazzo. È giovane, incerto, ma determinato.

Una sottilissima falce di luna brilla fuori da una grande finestra. Un pallido sole di ombre ritorte stagliato sul pavimento. Odore di pioggia nell’aria.

– Datemi la bambina – risponde una placida voce indistinta, un volto oscurato da un cappuccio.

– No! – grida la ragazza. Stringe più forte, più disperatamente. Le fa male.

Il ragazzo accanto a lei fa loro scudo con il proprio corpo. Gli occhi sono due pozze di cristallo nero intorbidite dal panico.

L’aria si fa sempre più rarefatta e irrespirabile.

È buio… troppo buio…

– Datemi la bambina – ripete la voce. C’è qualcosa di duro nel suo tono tranquillo. – Per il suo bene. –

Vento gelido alita dalla porta spalancata alle sue spalle che sbatte incessantemente contro il muro. Solo tenebre, fuori.

– Prendi tutto quello che vuoi! – balbetta la giovane, tremando. – Abbiamo dei gioielli, oggetti di valore… –

– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.

C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.

– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –

 – Cosa vuoi da lei? –

Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.

– Voglio salvarle la vita. –

Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.

Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.

Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.

 

 

La prima cosa che vide, aprendo gli occhi, fu solamente il buio. Denso, palpabile, come ne fossero stati intrisi i suoi occhi, fino ad accecarla. Poi, lentamente, brandelli di luce cominciarono a rischiararle la vista, permettendo a forme e oggetti di acquisire contorni distinguibili, ma affatto conosciuti.

Ebbe un istante di perplessità: non aveva idea di dove si trovasse. Era uno stanzino angusto, buio e umido, fiocamente illuminato da povere fiammelle sparse qua e là. Si trovava in un letto dalle lenzuola ruvide, sepolta sotto a diversi strati di coperte di lana. Il materasso era molto duro. Indosso aveva qualcosa che somigliava a una camicia da notte di fattura molto grezza. In un angolo, dall’altra parte dello stanzino, un fuocherello ozioso ardeva in un bacile di ferro, emanando un gradevole tepore.

Non riconosceva niente di ciò che la circondava, dal mobilio spartano all’odore di muschio che impregnava l’aria. Tutto le era completamente estraneo.

La perplessità, tuttavia, lasciò ben presto posto a un’altra e ben più sconcertante sensazione, non appena una semplice ma significativa domanda si formò tra i suoi pensieri.

Chi sono?

Non trovò risposta.

L’unica, nebbiosa immagine che affiorò erano due occhi di un azzurro glaciale che la scrutavano apprensivi. Non sapeva a chi appartenessero, né quando o dove li avesse visti. Non era in grado di contestualizzare quel ricordo, ma era il solo che possedesse.

Si sforzò di richiamare qualsiasi altra cosa alla memoria: tutto ciò che trovò nella propria mente era una sterminata distesa di vuoto.

Provò a cercare ancora, annaspò nella propria testa tra meandri neri privi di contenuti, scavando sempre più nel profondo, senza incontrare altro che nero ancora più nero.

Presto un senso di vertigine la colse.

Si guardò le mani, disperata: piccole, bianche, urtate da qualche graffio sottile qua e là. Non le riconobbe.

Questa mancanza assoluta di coscienza di sé e dell’ambiente in cui si era ritrovata la spaventò. Un senso di angoscia le agguantò la gola, smorzandole il respiro. Si portò le mani alla testa dolente, gli occhi serrati nel vano sforzo di trovare qualcosa dentro di sé, un’informazione di qualunque tipo, ma non c’erano spiragli di luce in quel vortice di tenebre.

Tuttavia ad un tratto una scintilla inattesa balenò tra le ombre e un nome affiorò incerto sulle sue labbra.

Regan.

Se lo ripeté una, due, dieci volte, come un sussurro ancestrale provenuto da chissà dove, fino a che non cominciò a sentirlo quasi familiare. Sentì che le apparteneva.

Regan, sì. Quello era il suo nome.

Oltre quello, non rammentava nulla. Né la propria età, né il proprio aspetto, né altro. Tutto ciò che sapeva, per istinto, era che il luogo in cui si trovava le era sconosciuto.

Avvertiva l’abbraccio della terra attorno a sé, la presenza forte e rassicurante di mura vecchie decine di millenni a circondarla con calore oltre le pareti di roccia: si trovava sottoterra. L’inspiegabile sensazione di familiarità che ne trasse fu lenitiva, la aiutò a tranquillizzarsi e razionalizzare: forse era lì perché era malata.

Aveva la pelle marcata da lividi e ferite più o meno superficiali già parzialmente cicatrizzate, e odorava vagamente di the. La spalla destra le doleva e il polso era fasciato. Ovunque si trovasse, qualcuno si era preso cura di lei.

Si alzò, evitando di aiutarsi con il braccio destro. Le ci volle uno sforzo nettamente superiore a quel che avrebbe pensato. Quando finalmente riuscì a tirarsi in piedi, i suoi piedi nudi si posarono sulla superficie soffice di un tappeto. Si appoggiò alla parete, colta da un leggero senso di vertigine, e inspirò a fondo fino a che non fu passato. Le sue gambe, però, erano piuttosto malferme.

Si accorse che proprio lì accanto c’era uno specchio. Curiosa e timorosa al contempo, come se temesse di scoprirsi mostruosa, vi si accostò.

Tenne gli occhi chiusi per un po’. Non sapere cosa avrebbe visto la metteva a disagio. Non riusciva a immaginare niente di peggio che essere ignoti a sé stessi.

Quando incontrò il proprio riflesso, si ritrovò al cospetto di una sconosciuta: due occhi a mandorla, di un limpido verde smeraldo, la fissavano indaganti da un viso ovale dai lineamenti morbidi, incorniciato da lunghi capelli che avevano l’esatto colore pulsante del sangue. La pelle candida era segnata da ombre violacee attorno agli occhi e da segni scuri sul collo. Se li sfiorò con i polpastrelli, avvertendo un vago bruciore. Chissà com’era successo, esattamente.

Non si riconosceva. Non c’era nulla di familiare in quel che vedeva, ma doveva farsene una ragione. Non aveva molta scelta, in fondo.

Si guardò intorno: forse fuori da quella stanza avrebbe trovato qualcuno che potesse aiutarla. Qualcuno che potesse darle delle risposte.

La porta era proprio di fronte a lei. Le bastò allungare la mano per afferrare la maniglia di ottone e tirare verso di sé perché si aprisse. Un fiotto di luce più intensa e dorata invase la stanza.

Si schermò gli occhi, avvertendo uno spiacevole bruciore. Si concesse qualche secondo per abituarsi, poi uscì.

La stanza dava su un corridoio piuttosto stretto, che si perdeva nel buio nell’una e nell’altra direzione.

Non c’era anima viva in giro, né si potevano udire rumori di alcun tipo. Non poteva far altro che andare a caso.

Scelse di seguire la pendenza, perché la mollezza che ancora si sentiva nelle gambe probabilmente non le avrebbe permesso di arrancare a lungo in salita.

Il tepore sprigionato dalle torce intervallava l’aria fredda che circolava là sotto, sfiorandole i capelli e le spalle, suscitandole brividi lungo la schiena. Faceva molto freddo, rispetto alla piccola stanza, e il suolo umido le stava congelando i piedi.

Camminò per un paio di minuti, rallentata dalla debolezza, fino a che non iniziò a intravedere un altro corridoio che incrociava il suo percorso. C’erano delle voci che provenivano da un lato, sommesse, assieme a un rumore di passi. Man mano che le voci si avvicinavano, Regan capì che erano due, ed erano di due donne. Una sembrava più giovane, l’altra matura.

– Lucius la deve smettere di trattare questo posto come una locanda –  stava borbottando la più giovane. – Arriva, fa i suoi comodi, e poi sparisce senza nemmeno degnarsi di spiegare. –

Una risata roca in risposta.

– Ha spiegato a Kael, e Kael ha spiegato a me. Aveva un rapporto urgente da fare alla Lega. –

– E la sconosciuta? –

– Tornerà a prenderla non appena gli sarà possibile. Per adesso ci occuperemo noi di lei. –

– Era ridotta male –  la voce della ragazza si fece pensosa – La sua energia vitale era quasi esaurita. Mi domando cosa possa averla stremata in quel modo. –

– Con le tue cure dovrebbe riprendersi in fretta. –

I passi erano ormai in prossimità dell’angolo. Regan si affacciò timidamente e scorse a pochi metri da lei due figure scure che si avvicinavano. Ne distinse dapprima gli abiti: la donna portava una camicia bianca e un corsetto, la ragazza una semplice blusa scura. Erano i tacchi dei loro stivali a rendere i loro passi così rumorosi.

Ad un tratto la più giovane alzò lo sguardo e si fermò.

– Gin, guarda! –

La donna si fermò al suo fianco, perplessa, poi seguì il suo sguardo, e allora comprese. Appena i suoi occhi scuri si posarono su Regan, un sorriso le si aprì sulle labbra.

– Ma guarda. Ben svegliata, bambolina. –

Si avvicinò a Regan in poche falcate. Aveva un portamento disinvolto e sicuro, capelli neri a ricaderle disordinati sulle spalle. Era avvenente, ma non bella nel senso classico del termine: il naso, sottile e leggermente aquilino, le conferiva un’aria furba e maliziosa, che ben si accompagnava al suo fisico formoso, femminile.

– Tutto bene? – indagò la donna.

Regan si sforzò di annuire.

– Credo di sì. –

Si accorse che la sua voce era rauca e le faceva male la gola.

– Sono Angina – disse la donna. Si accostò la mano destra, chiusa a pugno, al lato sinistro del petto e chinò appena il capo – Signora e padrona del luogo in cui ti trovi. –

– Regan –  si presentò quindi lei, frastornata da quell’inattesa movimentazione.

– Ottimo, Regan –  Si compiacque Angina, appoggiandole una mano sulla spalla. Fortunatamente, quella sana – Ti trovo decisamente più in forma di quando sei arrivata.–

Le dovette credere sulla parola. Se le sue condizioni attuali rappresentavano un miglioramento, preferiva non pensare a come dovesse essere stata prima.

La ragazza più giovane era rimasta indietro e la fissava con diffidenza e un certo disgusto. A differenza di Angina, era molto magra e i corti capelli castani marcavano ulteriormente i tratti duri del suo viso.

– Ven. –

Quando Angina la chiamò con un cenno, la ragazza fu costretta a raggiungerla. Portava un vassoio con bende e qualche piccola ampolla sopra.

– Regan, lei è Venena. È stata lei a medicarti. –

– Grazie –  mormorò Regan, sfiorandosi con le dita la lunga serie di graffi paralleli che le attraversavano l’avambraccio.

Gli occhi piccoli e sottili di Venena la squadrarono senza interesse. Le sue mani avevano dita lunghe e sottili e c’era del nero sotto alle unghie mangiucchiate.

– Dovere. –

Regan rabbrividì.

L’aria che circolava là sotto era gelida, anche nonostante la moltitudine di fiaccole che ardevano ovunque.

– Penso che sia meglio metterti addosso dei vestiti veri –  le disse Angina, ammiccando – Vieni –  aggiunse poi, avvolgendole un braccio attorno alle spalle. – Venena ti visiterà mentre io ti cerco qualcosa di carino. –

Regan non aveva idea di chi fossero quelle persone. Non aveva idea se potesse fidarsi o meno di loro, se fosse saggio affidarsi ciecamente a loro, ma non aveva nemmeno qualche alternativa.

Mosse un passo, ma barcollò, la testa colpita da un vortice di vuoto. Sentì le mani sicure di Angina che la afferravano per le spalle, sorreggendola.

– Bevi questo. –

Un odore dolciastro, come di miele misto a spezie, si sprigionò sotto alle narici di Regan. Venena le stava porgendo una fragile bottiglietta piena di un inquietante liquido verdastro.

– Ti darà forza – le spiegò la ragazza in tono incolore, vedendola esitare. – Ti assicuro che non l’ho avvelenato. –

Angina la guardava incoraggiante alla tremula luce dorata delle torce. Aveva un viso dai tratti molto particolari, netti, molto espressivi.

Pur con una qual certa riluttanza, Regan si obbligò a bere. L’intruglio aveva in effetti un che di mellifluo, e un retrogusto asprigno che le fece pensare agli agrumi. Tutto sommato non era poi tanto male. L’effetto fu quasi immediato: fu come se una scintilla le avesse riacceso il sangue nelle vene, spingendolo a irrorare il suo corpo con più vigore, risvegliandole le membra fino a un attimo prima intorpidite. Non sarebbe di certo riuscita a correre, ora, ma se non altro ce la faceva a stare in piedi senza reggersi al muro.

Angina la condusse attraverso un vertiginoso reticolo di cunicoli, alcuni dei quasi attraversati da spifferi di aria gelata. Angina si muoveva senza apparentemente badare a dove andasse. Senza alcun dubbio conosceva la sua casa.

Venena, che camminava un paio di metri indietro, sembrava di malumore.

– Hai fame, Regan? Sete? –  domandò Angina, premurosa.

– Probabilmente le farebbe bene un bagno caldo –  Suggerì l’altra.

– Non ho molto appetito –  ammise. – Ma mi sento ancora un po’ debole. –

– Sei quasi morta – le disse Venena senza il minimo tatto. – Ritieniti fortunata a sentirti ancora. –

Angina annuì.

– Addirittura dubitavamo che ce l’avresti fatta, e invece sei già in piedi. Stupefacente, vero, Ven? –

– Prodigioso, oserei dire. –

Per essere una che aveva sfiorato la morte, Regan si sentiva relativamente in forma.

– Evidentemente l’ambrosia ha fatto il suo dovere. –

– È stata una fortuna – disse Venena, accigliata. – Avrei giurato che non fosse proprio di ottima qualità. –

Angina le allungò una pacca amichevole sulla schiena.

  A volte l’abilità dell’erborista compensa la manchevolezza della materia prima. –

Erano completamente opposte l’una all’altra, quelle due: Angina si comportava quasi come una ragazzina, sbarazzina e vivace, refrattaria alle formalità; Venena, invece, benché non molto più vecchia di Regan stessa, si vestiva di un’assurda serietà, cupa e scontrosa.

– Sai che ti dico, Regan? Ora faccio preparare qualcosa da mangiare e ti faccio compagnia –

– Che ora è? –

Era difficile avere percezione del tempo, là sotto.

– È quasi la terza pomeridiana. Hai dormito per mezza giornata –

Alla fine raggiunsero un bivio: da una parte una larga scalinata saliva, dall’altra proseguiva il corridoio. Qui Angina si rivolse a Venena:

– Di’ a Hilgard di preparare qualcosa di speciale e nutriente per la mia ospite. Ci troverai alle sorgenti, puoi visitarla lì. –

– Certo. –

Venena si congedò senza sprecarsi in troppe cerimonie, eccetto l’occhiata trova che appioppò a Regan prima di voltarle le spalle e andarsene, sparendo come un’anguilla oltre la prima svolta.

– Vieni – Angina le fece cenno di seguirla su per una rampa di scalini piuttosto larga che sembrava scendere all’infinito, perdendosi in un occhio cieco nell’oscurità. – Prima di tutto ti ci vuole un bel bagno caldo. Sei gelata. –

Gelata, pensò Regan, era forse la definizione più esatta per come si sentiva veramente, in sensi letterali e figurati vari.

Seguì Angina con la bizzarra sensazione che i passi stentati che stava muovendo fossero i primi di sempre, come se fosse nata lì, in quelle grotte nel ventre della terra, solo una manciata di minuti prima, perché in fondo il vuoto sterminato che aveva inghiottito il suo passato, qualunque esso fosse, aveva tracciato una sorta di linea di confine che forse lei non avrebbe masi più ripercorso. Tutt’al più, avrebbe potuto apprendere da altri ciò che di lei era stato in precedenza, come una fiaba da farsi raccontare, senza avere il beneficio di sapere se fosse realtà o solo fervida fantasia.

– Che cosa mi è successo? –

La domanda, pronunciata con una smania che sconfinava nella compulsione, risuonò in un’eco asfissiata tra le pareti umide.

Angina si fermò qualche gradino avanti a lei. Si voltò solo un paio di secondi dopo:

– Non ricordi? –

Regan chinò il mento, scuotendo la testa.

– Non ricordo niente. –

Capì che era una dichiarazione inattesa dal modo i cui la donna sgranò gli occhi.

– Niente di niente? –

– A malapena ho ricordato il mio nome. Mi sono dovuta guardare allo specchio per sapere come fossi fatta. –

Era evidente che Angina fosse stata presa in contropiede, perché improvvisamente tutta la sua spensieratezza si era dissolta, sostituita da una palese perplessità.

– Non credo che sia normale questa amnesia – rifletté. – Ma date le condizioni in cui sei arrivata, non sono nemmeno poi molto stupita. –

Fece una pausa e cercò lo sguardo di Regan, la quale aveva colto la sfumatura drammatica di quel “condizioni” e non aveva faticato ad associarlo alle tracce di lesioni che ancora si portava impresse nella carne.

– È stato un mio amico a portarti qui. Ti ha salvata da un cumulo di macerie e sottratta alla spada di un tizio che a quanto pare era molto interessato ad averti. La cosa ti dice niente? –

Regan negò.

– Mi dispiace. –

Si sentiva stupida: erano cose che erano capitate a lei, che dovevano pur essere scritte da qualche parte nelle sua mente, ma era come se una folata di vento avesse spazzato via tutte le pagine della sua storia, facendole naufragare chissà dove, lontano dalla sua portata.

– Non ti demoralizzare – la confortò Angina, prendendola per mano. – Adesso pensiamo a sistemarti e rifocillarti. Del resto ci occuperemo più tardi. –

 

 

Le terre emerse che nel corso dei secoli erano rimaste occultate all’avidità degli occhi gli umani – dai loro stessi abitanti battezzate Mondo Occulto, proprio per questa loro esistenza segreta – erano ripartite in sette grandi Terre, ciascuna delle quali corrispondeva a un Nucleo guidato e regolato da un suo Coordinatore, il quale a sua volta faceva riferimento a un’unica, immensa istituzione che regolava e proteggeva l’equilibrio all’interno dei territori: la Lega delle Sette Terre. La sede centrale di questa congregazione territoriale si trovava in una delle città più ricche e prospere che la Madre ospitasse: Medilana, capitale di Corterra, territorio centrale del continente.

Di tutti i luoghi che Lucius avesse visitato in vita sua – e si trattava praticamente di mezzo mondo – Medilana rimaneva uno dei suoi preferiti: le vie della zona centrale erano ampie e pulite, percorse da sontuose strade lastricate su cui si affacciavano maestosi i palazzi dei nobili e dei ricchi mercanti. Il commercio, in effetti, era uno dei punti di forza della città, fiorente e in costante rinnovamento in quanto a prodotti di importazione. I numerosi mercati dell’aera Sud della città, che quotidianamente richiamavano folle brulicanti da ogni angolo delle Sette Terre, erano la principale testimonianza di questa vivacità commerciale. Per questo e per le molte bellezze, naturali e architettoniche, che offriva la regione circostante, erano innumerevoli anche le pensioni per gli stranieri: i più facoltosi preferivano concedersi soggiorni di lusso presso quelle ricavate nelle dimore confiscate alle nobiltà decadute, i più umili, invece, più propensi ad affidarsi alle tariffe più accessibili della moltitudine di locande che si alternavano a osterie e taverne lungo il Naviglio Grande e le sue diramazioni.

Avere un così importante centro abitato venato di corsi d’acqua aveva certo i suoi tanti, piccoli svantaggi – a partire dai miasmi che si sprigionavano dai brevi tratti di melmosa acqua stagnante, che i cittadini si sforzavano di contrastare coltivando veri e propri giardini pensili fioriti sulle loro terrazze – ma d’altro canto la possibilità di navigare la maggior parte di essi – là dove carrozze, carri e cavalli nulla potevano – costituiva senza alcun dubbio un’enorme facilitazione per il trasporto delle merci. Da qui il soprannome di Porto Senza Mare di cui vantava la città.

In ogni periodo dell’anno le vie principali erano accese dai variopinti colori – secondo la moda di Corterra – degli abiti di seta delle dame, in mezzo alle quali i distinti gentiluomini che le accompagnavano sembravano perdersi, con la sobrietà delle loro mise.

Più di tutto questo, però, Lucius  amava il Foro, con i suoi portici ariosi e la Piazza Bianca, dominata dalla maestosa mole della Basilica. Era il punto di ritrovo di studenti e intellettuali, e lui adorava trascorrervi ore ad ascoltare i loro discorsi, i dibattiti filosofici tra artisti e luminari della scienza, ma anche teatro di feste a cielo aperto e fastosi banchetti indetti per le principali festività, come i Solstizi e gli Equinozi, da sempre considerati momenti importanti in cui celebrare l’avvento di una nuova stagione donata dalla Madre Terra.

I più, tuttavia, erano del tutto ignari di fronte a uno dei maggiori pregi di Medilana: in periferia, appena oltre le mura che custodivano la città, si ergeva un’imponente struttura di pietra scura che vantava, tra una ristrutturazione e l’altra, quasi otto secoli di storia sulle spalle. La Domus Aurea – colloquialmente chiamata Accademia dagli studenti – era un gigantesco capolavoro di architettura gotica che, protetto da antichi sigilli, ospitava l’istituto di formazione dei futuri protettori dell’ordine all’interno delle Sette Terre, e, benché fosse stata distrutta e ricostruita per ben due volte, avrebbe presto festeggiato il suo ottavo centenario.

Lo si sentiva, camminando per gli atri e i corridoi, il peso dei secoli: ne erano impregnati i muri, le statue, gli arazzi nei saloni. A volte si aveva quasi l’impressione di respirare ancora la stessa aria che avevano respirato i primi allievi di poco meno di un millennio prima.

Ma camminare sotto alle volte a crociera dei bianchi soffitti era un piacere che ci si doveva godere a cuore leggero, come facevano gli allievi nel passare da un’aula all’altra, soffermandosi a fare due chiacchiere lungo i portici, o sulle panchine del chiostro, accanto alla fontana.

I marmi diafani risplendevano sotto alla luce pallida del sole che entrava a fiotti dalle arcate ogivali, affacciate direttamente sul parco, ora spoglio del suo lussureggiante verde primaverile e immerso in un deprimente grigiore dalle sfumature spettrali. I centenari alberi ad alto fusto protendevano i loro rami spogli verso il cielo come mani scheletriche, edere scure che si avviluppavano lungo i loro tronchi fino a inghiottirli completamente.

Era una visuale decadente, lontana da quelle variopinte e vivaci che prediligeva lui, eppure aveva un che di incantevole.

Quella mattina, tuttavia, non c’era tempo da dedicare al piacere personale.

Lucius allungò il passo.

Aveva ancora impressa nella mente l’immagine della ragazza. Sapeva che era in buone mani e che Angina le avrebbe prestato le giuste cure, ma aveva comunque una certa fretta di tornare.

Marciò spedito tra gli studenti, alcuni dei quali gli rivolgevano saluti sorpresi. Teneva qualche corso per gli allievi più esperti, sporadicamente, ma solo verso la fine dell’anno, come propedeutico alle sessioni di esame. Non era normale che fosse lì in quel momento, a corsi appena iniziati.

Gli sarebbe piaciuto poter frequentare l’Accademia, ma di solito alla sua età si era già in procinto di concludere il percorso formativo e diventare dei professionisti. Dopo una vita come la sua, ormai era tardi per dedicarsi agli studi, e comunque, anche senza riconoscimenti ufficiali, tutti sapevano che ne sapeva di più lui della maggior parte dei maestri della Domus, e forse era anche per questo che non era ben visto dal corpo docenti.

– Lucius! –

Riconobbe la voce che lo stava chiamando, ma fece finta di non aver sentito. Non aveva tempo per i convenevoli e le spiegazioni.

– Lucius, aspetta! –

Una mano lo afferrò per un braccio e lo obbligò a fermarsi.

– Sei per caso diventato sordo? –

Trattenendo un sospiro, si voltò, già sapendo chi si sarebbe ritrovato di fronte.

– Ciao, Anneli. –

La ragazza gli rivolse un sorriso radioso, un fascio di libri stretti al petto.

– Cosa ti porta qui? Credevo che non ti avrei rivisto prima di… –

Si interruppe quando si rese conto che gli abiti di Lucius erano strappati e macchiati di sangue e fanghiglia.

– Cosa ti è successo? –

– Chiamiamola un’esercitazione fuori programma. –

– Sei tutto intero? –

Lucius si sforzò di sorriderle.

Anneli gli era simpatica, ma aveva scelto il momento sbagliato per una chiacchierata.

– Sì. Sono venuto per vedere Castalia. Alla Sede mi hanno detto che è qui –

Lo sguardo nero perlaceo di Anneli si adombrò.

– Sei in servizio, quindi. –

– Temo proprio di sì. –

Lei si imbronciò.

Era una delle allieve più brillanti e promettenti della Domus, di una bellezza sfacciata e molto consapevole, tipica dei membri della sua famiglia. Alta, sottile, agile: aveva un talento spiccato per i combattimenti armati e la manipolazione della mente, dote rara e molto ricercata, soprattutto all’interno della Lega. Ma lei voleva fare la Liberatrice di Anime e, determinata e dotata com’era, nessuno glielo avrebbe mai potuto impedire. Con quattro fratelli più grandi alle spalle – di cui tre ancora allievi – tanto popolari per le loro qualità accademiche quanto per la loro avvenenza, la sua strada era praticamente, se non proprio in discesa, almeno in comoda pianura.

– Credo che Castalia sia nello studio di Belecthor. Se vuoi ti posso accompagnare. –

Lucius la scrutò severo. Tutti gli altri si stavano avviando verso le rispettive aule.

– Forse è meglio che tu vada. –

Ma demordere non era una delle più spiccate caratteristiche dei membri della famiglia di Anneli.

– È successo qualcosa? –

Intuitiva, come sempre. Fin troppo, a volte.

– Nulla di particolare. –

Anneli lo guardò dritto negli occhi con insistenza. Immediatamente Lucius avvertì un noto formicolio alle tempie.

La ragazza stava tentando di leggergli nel pensiero. Per sua sfortuna, però, lui era nettamente superiore ai soggetti su cui lei era abituata ad esercitarsi.

– Non provare a usare questi trucchetti con me! –  la ammonì, seppur con una nota divertita.

Lei arrossì, ma continuò a guardarlo con impertinenza.

– Non puoi nemmeno dirmi di cosa si tratta? –

Lui scosse la testa.

– Ho paura di no. Ma comunque lo scoprirai presto, credimi. Non è il tipo di notizia che può restare segreta a lungo e sono sicuro che tuo padre sarà tra i primi a venirlo a sapere –

Quelle parole sembrarono placarla.

– Su, andiamo. Ho una certa fretta. –

Lucius si lasciò accompagnare allo studio del direttore.

Dovettero attraversare tutto l’edificio per raggiungere l’Ala Nord.

Mentre percorrevano i lunghi corridoi, Anneli non osò chiedergli più nulla. Si limitò a scoccargli fugaci sguardi indagatori, i loro passi che risuonavano nel silenzio sepolcrale del piano deserto, quasi sperasse di cogliere qualcosa nella sua espressione, e non cedette fino a che, salito l’ultimo gradino di una lunga scalinata, Lucius si fermò.

– Siamo arrivati –  Annunciò. Sulla massiccia porta di legno scuro qualche metro avanti a lui, scintillava una targa di ottone con sopra inciso a lettere eleganti Director Summus. – Ora è meglio che tu vada. –

Anneli abbassò remissivamente lo sguardo.

– Quando tornerai? –

– Non lo so. Ho come la sensazione che avrò parecchio da fare nei prossimi giorni –

Bussò, sentendosi gli occhi di Anneli puntati sulla nuca.

Gli dispiaceva essere così sgarbato, ma gli eventi di quella notte erano stati allarmanti e chi di dovere ne doveva essere informato con la massima urgenza.

– Avanti –  Disse una voce possente oltre la porta.

Lucius appoggiò una mano sulla maniglia e si voltò per rivolgere ad Anneli un sorriso saccente.

– Non sprecare tempo a tentare di origliare. Sai meglio di me che è inutile. –

Anneli avvampò.

– Bene! –  esclamò, indispettita e offesa, e gli voltò le spalle in malo modo. – Tolgo il disturbo! –

– La prossima volta sarò più disponibile –  le promise Lucius, guardandola allontanarsi come una furia, il lungo abito blu scuro che ondeggiava alle sue spalle. Solo allora fece caso al nastro di raso rosso che le circondava la vita: aveva ufficialmente iniziato il suo secondo triennio di studi.

Le matricole del primo triennio non avevano nastri di riconoscimento: solo chi riusciva a passare al secondo livello ne guadagnava uno, rosso, e infine, per l’ultimo triennio, agli specializzandi ne veniva conferito uno bianco, sul quale, durante la cerimonia conclusiva del percorso accademico, veniva scritta la specializzazione prescelta dall’allievo.

Appena Lucius entrò nello studio, fu accolto da un tiepido aroma di the. Comodamente sprofondato nella sua consunta poltrona di broccato rosso, infatti, Belecthor ne stava sorseggiando una tazza fumante e una grassa teiera di porcellana occupava il centro della scrivania ingombra di scartoffie.

In piedi accanto alla vasta finestra sulla sinistra, invece, Castalia lo fissava austera a braccia conserte, i suoi contorni sottili stagliati in controluce. Aveva l’aria di chi non aveva affatto gradito l’interruzione.

– Lucius –  Belecthor lo salutò con una nota di sorpresa. – Cosa ti porta da queste parti? –

Nessuno fece caso al suo aspetto disastrato: non era poi così raro, per lui, farsi vedere in quelle condizioni. Di tutto poteva lamentarsi, ma non certo di condurre una vita noiosa.

– Buongiorno, Direttore –  si portò la mano destra chiusa al petto, chinando appena la testa. – Castalia. –

Si fece avanti lentamente, i suoi passi resi felpati dagli strati di vecchi tappeti che ricoprivano la pietra del pavimento.

Dalla prima volta che aveva messo là dentro, ormai diversi anni prima, nulla era cambiato: le stesse pareti spoglie, la stessa libreria colma di polverosi volumi antichi, lo stesso odore di incenso misto all’aroma di foglie di the. Belecthor era il tipo di uomo che amava la routine e odiava i cambiamenti, cosa che talvolta poteva renderlo prevedibile, ma quando si trattava di trasmettere conoscenza, pochi erano alla sua altezza.

– Domando scusa per il disturbo –  Esordì Lucius, ossequioso. – Ho delle notizie urgenti da riferire. –

– Io e Angus stavamo discutendo di questioni importanti –  replicò Castalia, sbrigativa. – Le tue notizie possono aspettare. –

– Mi permetto di dissentire –  obiettò lui, educato.

Lo sguardo contrariato che Castalia gli sferrò non servì a intimidirlo. Era abituato a essere trattato con sufficienza, sia da lei che da molti dei suoi uomini.

Castalia aveva senz’altro i suoi buoni motivi per nutrire dell’astio verso di lui, ma il carattere incurante di Lucius lo aveva da sempre automaticamente posto nella favorevole condizione di esserle condiscendente senza portarle rancori. L’eccessiva enfasi che talvolta metteva in questa condiscendenza, tuttavia, serviva a rammentare a chi tentava di dargli ordini che lui non era agli ordini di nessuno.

O quasi.

– Castalia –  intervenne Belecthor in tono blandente. – Possiamo tranquillamente prenderci una pausa dalle nostre noie per qualche minuto. Sono sicuro che sia qualcosa di importante, se ha tutta questa urgenza. Non è vero, Lucius? –

Lucius gli sorrise riconoscente.

– Assolutamente, signore. –

Angus Belecthor gli era sempre piaciuto. I capelli grigi e la barba incolta erano i soli segni che la vecchiaia gli aveva imposto. Era ancora un uomo vigoroso, vivace nella mente quanto nello spirito, severo e irreprensibile con i ragazzi della Domus in merito a studi e responsabilità, ma sempre pronto a unirsi a loro per qualche banchetto o bevuta serale. Diversamente da altri insegnanti, che si erano guadagnati il rispetto a suon di minacce e punizioni, lui se lo era semplicemente conquistato con il suo buon carattere, e anche per questo molti parlavano di lui che uno dei migliori Direttori che l’Accademia avesse visto dall’alba dei tempi.

– E sia –  cedette Castalia. L’occhiata severa che piovve addosso a Lucius era di una tale ostilità che parve tingerle le iridi castane di rosso. – Hai un minuto. –

– Credimi, mi basteranno cinque secondi per farti cambiare idea –  promise lui, soave.

– Ne hai appena sprecati tre. –

– La Corte è stata rasa al suolo. –

Un momento di sconcertato silenzio separò lo strascico della rivelazione dalla risposta soffocata e incredula di Castalia, improvvisamente impallidita:

Cosa? –

Lucius raccontò tutto ciò che aveva visto alla Corte, o ciò che ne restava. Si soffermò con particolare attenzione a parlare della ragazza e dell’uomo che aveva tentato di portarla via. Alla fine delle spiegazioni – che durarono molto più di un minuto – Castalia e Belecthor sembravano entrambi decisamente preoccupati.

– Sei sicuro di quello che stai dicendo? –  indagò la voce cauta di Castalia.

– L’ho visto con i miei occhi, solo poche ore fa –  le assicurò. – Ed è grazie a quel tizio che sono ridotto così, anche se alla fine ho avuto la meglio. –

Una pesante cappa di incredulità piombò sui presenti, facendoli irrimediabilmente ammutolire.

– Ma chi oserebbe mai muovere un simile affronto a Desmond? Chi ne avrebbe il potere? –

Lucius comprendeva quello sgomento. Fin dalla sua fondazione, ormai quasi mille anni prima, la Lega aveva combattuto per contrastare i soprusi di chi agiva senza rispetto verso la Madre e le sue creature, ma le forze che si era costruita la Corte nei secoli con ogni genere di mezzo illecito la aveva resa un nemico impossibile da debellare definitivamente.

– Dovevi venire subito da me! –  imprecò Castalia.

– Ho portato al sicuro la ragazza – Si giustificò Lucius con calma.

– Cosa c’è di più sicuro della sede primaria della Lega? –

– Suvvia, Castalia, non fare domande di cui non vuoi sentire la risposta. –

La donna non riuscì a celare del tutto un moto di rabbia.

– L’ho lasciata in mani fidate che ne che avessero cura. Le sue condizioni erano serie. –

Castalia scelse di non indagare oltre. Lo squadrò con sospetto e si mise a misurare la stanza a passi nervosi.

Lo scoppiettio del fuoco che ardeva del grosso camino di pietra sulla parete destra della stanza risuonava indisturbato da altri rumori.

– Questa storia non mi piace. Se questa ragazza si trovava alla Corte, poteva essere solo per due motivi: o è una prigioniera, o è una di loro. –

Funzionava così, con Desmond: se entravi nella sua dimora, o eri con lui, o eri destinato a morire. Varcare i cancelli della Corte era un’esperienza che nessuno poteva dimenticare: nell’oltrepassare la soglia che separava il cortile interno della corte da diverse centinaia di metri di strapiombo, si poteva quasi sentire l’aria farsi più fredda e rarefatta, con quell’odore di stantio tipico dell’umidità dei sotterranei. Ce n’era un labirinto, alla Corte, in cui venivano rinchiusi i prigionieri destinati alla tortura o a qualche sevizie sperimentale. I racconti popolari dicevano che in quelle segrete i lamenti dei prigionieri ancora in vita si unissero a quelli degli spettri dei defunti, ma Lucius c’era stato, là sotto, e tutto ciò che aveva potuto udire era stato un incontrastato, terribile silenzio tombale.

– Se era una prigioniera, non era una comune. Non aveva ferite, a parte quelle fresche riportate durante il crollo del castello. Ed era ben vestita. –

– Dunque era una di loro –  Concluse Belecthor asciutto da dietro alla sua scrivania.

– No, io non credo. –

Lucius lasciò cadere una breve pausa di silenzio, durante il quale il Direttore lo studiò a lungo negli occhi, il viso tirato da un’evidente preoccupazione, mentre Castalia continuava a vagare per la stanza, ansiosa.

– Il suo aspetto è strano. –

Castalia si fermò.

– In che senso strano? –

L’immagine del volto cereo della giovane riemerse vivido nella mente di Lucius. Rivide la sua espressione disperata, il velo di morte che già aveva iniziato a rubare luce alla sua anima.

– Ha i capelli rossi. Di un rosso forte, come il sangue. E i suoi occhi… –  un brivido gli percorse la spina dorsale nel ricordare quello sguardo disperato. – Non ho mai visto un verde così. –

Castalia e Belecthor si scambiarono un’occhiata dubbiosa.

– Pensavo che forse potrebbe essere il frutto dell’ennesimo esperimento di Desmond –  azzardò Lucius. Era stata la sua prima ipotesi: un incrocio tra un demone e una ninfa.

La mandibola squadrata di Castalia si serrò, enfatizzando lo stupore sul suo viso.

– È possibile –  convenne Belecthor, lisciandosi pensosamente la barba ispida – Probabile, anzi, vista la peculiarità di questa giovane. –

– Chiunque fosse l’uomo che voleva rapirla, potrebbe essere anche il responsabile di quanto accaduto alla Corte – fece notare Lucius.

– Se così fosse, significa che ha un nemico in comune con noi, e ci ha indubbiamente fatto un enorme favore. Il che mi porta a pormi due domande – ragionò Belecthor – Dobbiamo considerarlo alleato o avversario? E, soprattutto, cosa c’è di così allettante in questa giovane per scomodare un tale potere per averla? –

– Per ucciderla – precisò Lucius.

Non era rimasta che un’ultima goccia di vita, nel corpo della ragazza, quando l’aveva trovata, e quella goccia pendeva da un filo così sottile che era stato un rischio anche solo toccarla. Tutto ciò che ci si poteva augurare era che le abilità di Venena come curatrice fossero tanto invidiabili da riuscire a restituire sufficienti energie a un’anima già sfiorente.

– Forse era solo una testimone scomoda – ipotizzò Castalia.

– Non è da escludere. –

– Devo mandare immediatamente una squadra a fare un sopralluogo. Dobbiamo capire cosa diavolo sta succedendo e soprattutto chi c’è dietro. Lucius, hai detto che l’uomo con cui ti sei battuto portava uno stemm.a –

– Sì. Una specie di fiamma a tre punte divisa nel mezzo. –

– Ti dice niente, Angus? –

Belecthor fece un mesto cenno di diniego.

Con un sospiro che denunciava apertamente il suo disappunto, Castalia tornò a considerare il discorso lasciato in sospeso:

– Sapresti farmene uno schizzo? –

– Certo. –

Lucius si guardò intorno alla ricerca di carta e penna e vide che Belecthor già gli stava porgendo un foglio e la sua elegante penna d’oca personale.

Non fu difficile tracciare il simbolo che aveva visto: era lineare e semplice, di forma perfettamente circolare. Somigliava vagamente a un tulipano stilizzato.

– Ecco. –

Allungò il foglio a Castalia, la quale glielo strappò praticamente di mano per osservarlo da vicino. Le rughe che le incresparono la fronte, tuttavia, erano l’inequivocabile segno che quel disegno non le dicesse alcunché.

– Farò fare delle ricerche –  Dichiarò infine. Afferrò il proprio mantello dalla poltrona di fronte alla scrivania e se lo buttò addosso. – Ora devo tornare alla Sede, non c’è tempo da perdere. –

Si avviò verso la porta e la aprì, voltandosi indietro appena prima di uscire:

– Voglio parlare con quella ragazza, Lucius. Portala da me. –

Un fare imperioso ai limiti della brutalità: una pessima abitudine che Lucius non aveva mai tollerato facilmente.

– Io lavoro per Soile, Castalia, non per te –  le fece notare amabilmente. – Accetto ordini solo da lei. Ma, se ci tieni tanto, posso tranquillamente concederti un favore personale. –

Un’ombra oltraggiata balenò sul volto della donna, rughe sottili le solcarono la fronte e le labbra, ma non replicò.

– Ti sarei grata se tu mi facessi questo favore –  aggiunse semplicemente a denti stretti.

Lucius pensò a quella poveretta, all’assoluta inerzia con cui si era arresa tra le sue braccia. Qualunque cosa si aspettasse Castalia da lei, avrebbe dovuto attendere.

– L’ho lasciata priva di conoscenza soltanto poche ore fa – puntualizzò, lasciando ben intendere quanto fosse irragionevole esigere di avere un colloquio con una persona appena sfuggita alla mano della morte.

Belecthor si schiarì significativamente la gola, dando segno di aver perfettamente colto il messaggio, ma Castalia, ormai sulla difensiva, fu irremovibile:

– Allora la voglio alla Sede non appena sarà in grado di stare in piedi. Sono stata chiara? –

Lucius ritenne che fosse meglio non ribattere. Si limitò a piegare appena la testa in avanti, assecondandola.

– Chiarissima. –

Soddisfatta, Castalia rivolse un frettoloso cenno di saluto a Belecthor, poi scomparve oltre la porta, che sbatté alle sue spalle.

Uscita lei, la stanza sembrò ingrandirsi e illuminarsi, come se i muri avessero fatto un passo indietro e il fuoco di fosse spontaneamente attizzato. La natura puntigliosa e nevrotica di Castalia la rendeva un ottimo comandante, sul campo, ma una presenza decisamente ingombrante con cui condividere uno spazio così limitato, a maggior ragione se non si rientrava nelle sue grazie.

Eufemisticamente parlando.

– Lucius. –

La voce pacifica di Belecthor lo richiamò dalle sue riflessioni.

– Castalia pecca di presunzione, nei tuoi confronti, ma non è cattiva. So che non è alla Lega che la tua lealtà è consacrata, ma, vista la situazione, forse dovresti dimostrarti più collaborativo. –

– Io sono collaborativo –  protestò Lucius con veemenza. – Con chi merita la mia collaborazione. –

Sospirando, Belecthor allungò una mano verso la teiera e si riempì una tazza.

– Le responsabilità del Coordinatore Generale sono alte, ragazzo. Non sottovalutare la difficoltà della sua posizione. –

Lucius si passò una mano sul viso. Era stanco, avrebbe voluto riposare, godersi un bagno caldo, ma non c’era tempo. Doveva tornare da Angina, prima. Forse da lei avrebbe avuto modo di darsi una ripulita.

– Vuoi un consiglio? –  gli disse Belecthor, sorseggiando il suo the con una calma ostentata – Va’ dalla tua trovatella, assicurati che stia bene e, se così è, portala al più presto da Castalia. Ho la sensazione che ci aspettino tempi duri. –

 

 

Si sentiva ancora il tepore dell’acqua, addosso. La pelle, ora profumata di oli e unguenti curativi, era più morbida e le ferite erano meno infiammate. L’infuso di melissa e calendula che Venena le aveva tamponato sui tagli e sulle abrasioni aveva senz’altro sortito il suo effetto.

I suoi piedi nudi poggiavano su un enorme tappeto che occupava gran parte del pavimento di roccia. Angina l’aveva portata in una caverna immensa dalle chiare pareti calcaree, il soffitto alto una ventina di braccia, e con un semplice gesto della sua mano aveva acceso una lunga serie di torce che avevano immediatamente rischiarato l’ambiente, spalancando così davanti agli occhi di Regan una visuale incredibile: l’antro ospitava delle sorgenti sotterranee, che si raccoglievano in piccoli laghetti naturali. In alcuni l’acqua era uno specchio immobile e limpido, in altri la superficie era opaca e sorvolata da densi strati di vapore, in altri ancora piccole bolle d’aria scoppiettavano ritmicamente, emergendo dal fondo, e in qualcuna precipitavano vivaci zampilli cristallini.

Dopo un ricco pranzo a base di carne arrostita e verdure crude, Angina e Venena avevano aiutato Regan a spogliarsi e la avevano fatta immergere in una polla di acqua meravigliosamente calda, in cui lei si era abbandonata con immenso sollievo. Era stato un toccasana per le sue articolazioni indolenzite.

Con le lozioni che Venena le aveva consegnato, si era lavata, togliendosi di dosso polvere e sangue incrostato, domandandosi nel frattempo come avesse fatto a ridursi in quello stato. Da quel che aveva capito, i suoi ospiti si aspettavano che fosse lei a dare delle risposte, quando invece tutto ciò che aveva da offrire loro erano soltanto altre inutili domande. Aveva spiegato la completa assenza di ricordi nella sua testa e Angina sembrava averle creduto; Venena, invece, l’aveva guardata in tralice e aveva contratto severamente la mascella. Regan aveva già capito che non si sarebbero mai piaciute, loro due.

Ora che si era asciugata e sistemata, se non altro, si sentiva più in forze. Le era stato dato qualcosa da mettersi, ma lei aveva indossato con riluttanza sia il corsetto sopra la camiciola, sia i calzoni neri: non aveva le curve di Angina e su di lei quei vestiti facevano un ben povero effetto. Continuava a sistemarseli addosso, ad aggiustarli cercando di migliorare qualcosa, ma non c’era verso: il suo era un corpo ancora acerbo, ben lungi da quello procace di una donna adulta.

– Tra un paio d’anni li riempirai meglio –  Le disse Angina, divertita, intenta a stringerle i lacci sulla schiena. Regan suppose che fosse la prima volta che il suo busto veniva costretto in un corsetto, visto il disagio che avvertiva nel muoversi e nel respirare.

Aveva visto l’abito che le avevano tolto la sera prima: una nuvola di seta, pizzi e merletti in cui non si era minimamente saputa immedesimare. Al confronto, gli abiti di Angina le sembravano fatti su misura per lei.

– Vieni qui, bambolina. –

Angina le fece cenno di raggiungerla, indicandole uno sgabello di legno accanto a un tavolo in un angolo su cui Venena stava trafficando con una serie di boccette. C’erano anche dei teli puliti, piegati con cura, e un cestino pieno di pezzi di sapone.

Regan obbedì e si mise a sedere.

Angina prese una spazzola e iniziò a passargliela tra i capelli, per tutta la loro lunghezza. Regan chiuse gli occhi. Era una sensazione piacevole, con uno straordinario potere calmante.

– Hai dei capelli meravigliosi. Erano anni che non ne vedevo di così lunghi e lucenti. –

– I tuoi sono belli. –

– I miei sono capelli da guerriera – puntualizzò Angina. – Tutta un’altra cosa. –

– Che cos’hanno di particolare i capelli di una guerriera? –

– Innanzitutto devono essere più corti dei tuoi, e puoi scommettere che non saranno mai così lustri. E si tengono quasi sempre legati, per non impacciare i movimenti. –

Regan cercò di immaginarsi con una spada in mano: non ci riuscì.

– Non credo di essere mai stata una guerriera. –

Angina rise.

– Con queste mani da principessina, piccola, al massimo potevi esserlo nei tuoi sogni. –

Regan restò a fissarsi i palmi adagiati in grembo, mentre Angina riprendeva a pettinarla: le sue mani erano lisce, bianche, morbide al tatto. Non portavano segni di fatica. Anzi, non portavano segni di alcun tipo.

– Prima o poi la tua memoria ritornerà –  esordì Angina, come se le avesse letto nel pensiero. – Fino ad allora, evita di passare ogni momento a sforzarti di ricordare. Nessuno ti restituisce il tempo perso. –

Non sapendo cosa dire, Regan tacque.

Non aveva idea di cosa sarebbe stato di lei, adesso. Senza un passato, senza qualcosa da cui partire, non capiva in che modo potesse sperare di andare avanti.

– Mi chiedo se il tuo cervello non abbia deciso di privarti della memoria per il tuo bene –  rifletté Angina a un tratto.

Regan tacque ancora.

Si trattava di un pensiero che aveva sfiorato anche lei: stando a quanto le avevano raccontato, il luogo in cui era stata trovata non era esattamente un’oasi di felicità e qualcosa le diceva che c’era un qualche fondamento in quella semplice supposizione.

– Mi spaventa non sapere chi sono –  mormorò.

– Un cumulo di giorni perduti non costituiscono la tua essenza –  le disse Angina. – L’impronta che  hanno lasciato è ancora la stessa dentro di te. Tu sei ancora tu, anche se non ricordi attraverso quali esperienze lo sei diventata. –

Regan ascoltò il suono di quelle parole che si perdeva nella vastità della camera. Le piacque il tono deciso e rassicurante con cui erano state pronunciate e ancora di più le piacque il loro significato. Provò un’improvvisa gratitudine verso quella donna.

– Io qui ho finito –  Annunciò Venena. Aveva raccolto tutte le ampolle sul vassoio, lasciando solo un calice scuro sul tavolo.

– Lì dentro c’è un decotto che dovresti bere –  disse a Regan. – Aiuterà il tuo corpo a rimettersi in forze. –

Regan occhieggiò con poco entusiasmo l’oggetto in questione. Nonostante sapesse di averne bisogno, non le andava proprio di bere quella roba.

– Grazie. –

Venena non sprecò inutili cerimonie: cucì insieme due parole di saluto, poi prese la sua roba e uscì.

– Devi scusarla, non ama molto la presenza degli estranei –  borbottò Angina.

A giudicare dal suo comportamento, Venena non doveva amare molto la presenza delle persone in generale.

– Posso capirla. –

– Spero che con questo tu non voglia dire che ti senti a disagio, in questo momento. –

– Assolutamente no! Anzi, penso di dovervi dei ringraziamenti. Siete stata fin troppo buona con me. –

– Prima di tutto, ti vieto categoricamente di rivolgerti a me dandomi del Voi. In secondo luogo, questo posto ha sempre accolto molti randagi. Non sei la prima né sarai l’ultima, credimi. –

– Che cosa fate, qui, esattamente? –

Scorse un sorriso che si formava sulle labbra di Angina, riflesso sulla superficie metallica del calice.

– Siamo quello che certa gente definirebbe fuorilegge, ma siamo di quelli buoni. Non facciamo del male a nessuno. A meno che non se lo meriti. –

Era calata una tonalità cupa su quell’ultima frase, in cui Regan riuscì a percepire amarezza e rancore represso.

– Mi dai il permesso di sistemarteli come si deve?–  le chiese Angina, passandole una mano tra i capelli.

– Sì, certo –  Rispose Regan, incerta.

Passarono qualche minuto a chiacchierare. Angina le raccontò meglio della propria attività e nel frattempo intrecciava grosse ciocche con gesti esperti, separando e tirando, incrociandole tra loro. Quando ebbe finito, fece alzare Regan e la fece specchiare in una delle polle di acqua limpida e immobile.

– Mi sta bene –  Si stupì lei, osservando la lunga treccia che dalla nuca le scorreva giù fino alla vita.

– Non solo ti sta bene, ma così starai molto più comoda. –

Avrebbe dovuto iniziare ad acquisire confidenza con il proprio aspetto. Non sapeva se si piacesse o meno, ma i suoi lineamenti iniziavano perlomeno ad avere un vago sentore di familiarità.

– È davvero strano guardare il proprio riflesso e vedere un estraneo –  rifletté a voce alta.

Prima che potesse aggiungere altro, qualcuno bussò alla porta: tre colpi decisi che riecheggiarono in tutta la grotta.

– Avanti. –

La porta si spalancò con uno scricchiolio. Regan si aspettava che fosse Venena, tornata a prendere qualcosa, invece si trattava di un uomo. O meglio, un ragazzo, perché non poteva essere tanto più grande di lei.

– Buongiorno, signore –  Salutò con brio il nuovo arrivato.

Man mano che si avvicinava, Regan distinse meglio le sue fattezze. Era alto, vestito di nero, con un viso attraente e due occhi azzurri come il ghiaccio che la guardavano curiosi. Gli stessi occhi, ne era sicura, che le erano apparsi nella mente appena risvegliata.

Il suo passo era lento e felpato. C’era qualcosa di felino in quell’andatura, nel modo in cui le lunghe gambe si succedevano l’una all’altra in brevi falcate disinvolte, l’orlo del pastrano che gli lambiva le caviglie.

Solo quando le fu praticamente di fronte, Regan si accorse di quanto fosse malconcio: tra vestiti strappati in un paio di punti e macchie di fango e sangue, sembrava appena uscito da un nubifragio.

– Lucius! –  esclamò la voce suadente di Angina, come nulla fosse. – Hai fatto presto .–

Il ragazzo sorrise, e il suo volto si illuminò.

– Noto con piacere che la nostra ospite sta molto meglio –  disse, strizzando un occhio a Regan, la quale a stento se ne accorse, intenta com’era a rimirarlo. Il suo timbro era ammaliante, un manto di velluto scuro e avvolgente dalle sfumature ridenti.

Fecero una rapida presentazione.

– Venena ha fatto una delle sue magie e ce l’ha rimessa in sesto. Hai visto quant’è graziosa senza sporcizia addosso? –

Regan avvertì lo sguardo di Lucius vagare su di sé.

– Molto graziosa, sì – constatò, compiaciuto. – Begli occhi davvero, cerbiattina. –

– Non farti incantare dalle sue moine, Regan: il nostro Lucius ha un confesso debole per le belle donne –  cinguettò Angina – E viceversa naturalmente. –

Lucius le rivolse un sorrisino beffardo e si sfilò il cappotto. Lo lasciò cadere distrattamente a terra con un tonfo sordo, poi iniziò ad aprire anche la camicia, e un attimo dopo anche quella fu a terra. Rimase solo una sottilissima catenina d’argento a cingergli il collo, una stella a sette punte con un cuore di rubino a fare da pendente.

Regan fissò a bocca aperta il torso nudo del ragazzo: non sembrava così muscoloso, da vestito. Le spalle erano possenti, muscoli sviluppati disegnavano linee nette sul torace e sulla schiena, tra le scapole, lungo le braccia. Ma non era quello a sconvolgere Regan. La pelle chiara di Lucius sembrava una tela aggredita da un artista impazzito: tra rari tagli freschi – uno particolarmente brutto gli sferzava il fianco – e qualche brutto livido, cicatrici grandi e piccole deturpavano l’altrimenti perfetto incarnato, alcune lunghe e sottili come fili d’erba, altre di forme strane, frastagliate, altre ancora brevi e nette, bianche e lucide. Ce n’era una serie, sulla sua spalla sinistra, che formava una collana di punti allineati in una stretta curva simmetrica. Un fisico di una bellezza statuaria imbrattato da costellazioni di marchi indelebili.

Lo fissò senza fiato, rapita da una fascinazione perversa che dal nulla le stava nascendo dentro.

– Non farti turbare da queste –  Le disse Lucius tranquillo, mentre le sue mani sfilavano gli stivali dai suoi piedi. – Sono solo vecchi graffi. –

– Non mi turbano –  disse Regan con altrettanta tranquillità. – Sono poetiche. –

E lo erano. Tanto fini e armoniose, nel loro insieme, da sembrare disegni volontari, tracciati da mani consapevoli per decorare e impreziosire, piuttosto che deturpare. Era forte e vicino al morboso il fascino che quei segni esercitavano su di lei: riusciva quasi a vedere il sangue che aveva lambito ogni cicatrice quando ancora era stata un taglio aperto, e ne era ipnotizzata.

– Poetiche –  Lucius soppesò quella singola parola tra sé, strascicandola nel passarsela tra le labbra. – Nessuno aveva mai fatto un complimento così lusinghiero alle mie cicatrici. –

– Gli servono a enfatizzare la sua irresistibile reputazione da cattivo ragazzo –  Scherzò Angina. Lo sguardo che ebbe per Lucius era di pura adorazione.

– Non sono un cattivo ragazzo – si difese  lui. – Ho solo cattive abitudini. –

– Ecco perché ti ritrovi questi bei ricami sparsi su tutto il corpo. –

– Non hai sentito? –  Lucius enfatizzò un tono vanitoso. – Sono poetici! –

Poi, come nulla fosse, si slacciò la cinta e abbassò i pantaloni, rimanendo quasi del tutto nudo, ad eccezione di un paio di corte brache di tela. Regan si domandò se, vista la situazione, non si sarebbe dovuta in qualche modo sentire in imbarazzo.

Non le fu ben chiaro il perché lui si stesse spogliando – e con tanta disorientante disinvoltura – fino a che non lo vide voltarle le spalle e tuffarsi dentro uno dei laghetti di acqua fredda.

Quando riemerse, i capelli neri gli aderivano al viso e la sua faccia era decisamente soddisfatta.

– Mi ci voleva proprio –  sospirò, scostandosi i capelli all’indietro. – Hey, Gin, passami un po’ di sapone! –

Senza scomporsi, Angina afferrò uno dei blocchi profumati nel cestino e glielo lanciò. Lucius fece sfoggio dei suoi ottimi riflessi nel prenderlo al volo con una mano sola.

– Grazie. –

Regan sapeva che non era normale che un uomo si esponesse così di fronte a una donna. Non era imbarazzata, ma era sorpresa dall’incuranza che sia Lucius che Angina mostravano: nonostante lei fosse ben più matura di lui e lui fosse praticamente nudo, erano perfettamente a loro agio.

– Era un po’ che non ti facevi qualche ricamo nuovo –  lo prese in giro Angina, sedendosi sul bordo roccioso della pozza. – Cominciavo a temere che tu avessi perso mordente. –

Lucius rise, crogiolandosi nell’acqua.

– Mai e poi mai. –

– Una volta venivi spesso a trovarmi – laconica, Angina affondò le dita tra i capelli bagnati di Lucius, che aveva appoggiato ruffiano la testa al suo ginocchio. – Adesso la Luce del Nord ti tiene troppo lontano da me. –

L’amaro della nostalgia mitigato dalla dolcezza dell’affetto: sapeva di zucchero e fiele quel sussurro che suonava così strano sulla voce graffiante di Angina.

Lucius si crogiolò come una bambino nelle sue carezze, offrendole il viso come un cagnolino in cerca di coccole.

Regan non era sicura della natura del loro rapporto: a tratti si provocavano con la malizia di due amanti, a tratti si scambiavano tenerezze da madre e figlio, a tratti si burlavano l’uno dell’altra come cari amici di vecchia data. Forse, pensò Regan, era tutte quante quelle cose.

– Sei il solito marmocchio lascivo di sempre – ridacchiò Angina, mentre lo spingeva via.

Per tutta risposta, lui la schizzò con uno spruzzo d’acqua.

– Ho incontrato Venena, poco fa –  disse poi, appoggiandosi con un gomito fuori dalla vasca, guardando verso Regan. – Mi ha detto del tuo piccolo inconveniente. –

Lei non comprese subito a cosa si riferisse.

– Oh, sì. La mia memoria…–

– Non ricordi altro che il tuo nome? –

– Purtroppo no. –

Uno sbuffo simile a una risata sfuggì dalle labbra di Lucius.

– Sarà divertente doverlo spiegare a Castalia. –

– Chi è Castalia? –

Lui sventolò la mano come se la cosa fosse del tutto priva della benché minima importanza.

– Una tizia a cui faccio favori nel tempo libero. –

Angina sollevò un sopracciglio con fare ironico, ma non disse niente.

– Regan – Lucius si fece improvvisamente più serio. – So che sei stanca e, date le circostanze, credo che sarà anche inutile, ma ci sono delle persone che vorrebbero parlare con te di quello che è successo la notte scorsa. –

Lei si morse il labbro, titubante.

– Di che aiuto vi potrei essere? –

Le dava un brivido strano pensare di uscire, andare via di lì. Si sentiva al sicuro, in quel luogo sotterraneo, protetta dalla terra, ed era ancora troppo scossa per sentirsela di uscire.

– Sai, si tratta di persone molto potenti –  le spiegò Lucius. – Che forse potrebbero aiutarti a recuperare i tuoi ricordi. –

  Le sarebbe dovuta sembrare una buona notizia. Lo era, in fondo.

– Ci sono persone più potenti di lei che hanno la correttezza di non abusare della propria influenza –  sbuffò Angina. – Qualcuno dovrebbe farglielo lo notare, qualche volta. –

– Io lo faccio, di tanto in tanto –  affermò Lucius. – È una soddisfazione di raro piacere. Ma temo che questo non le farà cambiare idea sul colloquio che si aspetta di avere con la nostra piccola ospite. –

– Non fa niente –  Minimizzò Regan. Si sentiva già abbastanza in colpa per essere un tale disturbo per quella gente così disponibile.

Cercò lo sguardo di Lucius e lo ritrovò tra sottili ciuffi di capelli zuppi d’acqua.

– Verrò con te da questa Castalia, se è necessario. –

Il modo in cui lui le sorrise le fece capire che aveva apprezzato la risposta.

 

 

Era fuori di sé.

Gli era inconcepibile che la storica dimora della Corte fosse andata distrutta come un castello di sabbia in una mareggiata.

Ne osservava i resti da lontano, assieme a un manipolo dei suoi, i pochi sopravvissuti, e sentiva la rabbia ribollirgli nelle vene. Aveva solo una vaga idea di cosa potesse essere successo, ma si rifiutava di crederci. E, d’altro canto, lo aveva visto con i suoi stessi occhi lo sprigionarsi di quell’immenso potere.

L’angelo era morto, e le ripercussioni che la sua morte aveva avuto erano state inimmaginabili.

L’ultima cosa che riusciva a ricordare erano le proprie dita che assieme alla lama del pugnale affondavano tra le costole del giovane e un grido di dolore che si sprigionava nell’aria. Poi tutto aveva cominciato a tremare e l’intero castello, prima che chiunque si potesse rendere conto di quel che stava accadendo, si era accasciato su sé stesso, esattamente come aveva fatto l’angelo tra le sue braccia, esanime. Da lì in poi tutto era nebbia, fino al momento in cui si era risvegliato nel buio, imprigionato sotto a una lastra di pietra che lo aveva protetto.

Ne era uscito a fatica, risalendo tra blocchi di pietra che erano rimasti impregnati del suo sangue, e quando era emerso in superficie non aveva trovato altro che un’immensa distesa di detriti e corpi morti. E la ragazza, forse, era ancora da qualche parte là sotto.

– Mio signore. –

Tornò in sé, abbandonando riflessioni gravide di rabbia, risentimento e frustrazione.

Al suo fianco, Isabel attendeva che lui avesse un qualunque tipo di reazione di fronte a ciò che stava osservando da ormai diversi minuti, immerso in un silenzio sconvolto.

– Mio signore, dovremmo allontanarci da qui. –

La voce di Isabel era timorosa. Lo guardava devota, la freschezza della giovinezza passata ancora abbastanza vivida da renderla luminosa sotto all’incombere della luna. Boccoli di mogano, occhi di ametista, pelle di rosa canina: una mezzaninfa di straordinarie capacità magiche. La aveva scelta per quello.

Lei era stata lontana dalla Corte, al momento della tragedia. Lei e i tre uomini che erano rientrati con lei lo avevano soccorso e avevano aiutato lui e i sette superstiti – sulle circa cento persone che abitavano regolarmente la Corte – a rifugiarsi nella foresta.

Se n’erano andati appena in tempo. Solo qualche minuto più tardi avevano scorto in lontananza il sopraggiungere di alcune persone che non avevano avuto difficoltà a riconoscere come membri della Lega.

– Siete ferito, avete bisogno di cure. –

– Isabel ha ragione, mio signore – intervenne Galvorn ansimante, reggendosi una spalla tumefatta. Era un angelo grande e grosso, ma l’offesa subita nell’incidente lo aveva incurvato su sé stesso, riducendolo a una mole ingobbita nell’impenetrabilità della notte.

– Non possiamo fare nulla. Gli uomini della Lega sorvegliano la zona. Non siamo in grado di affrontarli. –

Suo malgrado, lui dovette ammettere che avevano ragione loro. Non avevano scelta: dovevano andare via, rifugiarsi il più lontano possibile da lì e riorganizzare interamente la congrega. I caduti di quella notte non erano che una piccola parte dei suoi accoliti, ma, caduta la Corte, ci voleva tempo per ricostituire dal nulla il punto nevralgico cui faceva capo ogni cosa.

– Samael è stato avvertito? –

– Ci attende alle Cinque Torri. –

Avevano diversi giorni di viaggio ad attenderli, e non sarebbe stato semplice.

Gettò un ultimo sguardo al picco in lontananza, indugiando sui miseri resti di quella che per secoli era stata la sua gloriosa dimora: si era tutto dissolto in una distesa di detriti e polvere lavati dalla pioggia. Antichi tesori, preziosi esperimenti, libri rari raccolti in tanti anni di assennate ricerche… tutto perduto.

La Lega ci avrebbe messo poco a disseppellire dalle rovine ogni cosa e appropriarsene senza alcuno scrupolo, e lui non avrebbe potuto fermarli.

Giurò a sé stesso che avrebbe avuto la giusta vendetta, a suo tempo.

– Andiamo – ordinò, e con un fruscio del mantello voltò le spalle e tutto ciò che di più prezioso avesse mai posseduto, lasciandosi inghiottire nel folto della foresta.

 

 

Angina aveva fatto portare dei vestiti puliti per Lucius. Dovevano appartenere a lui, perché erano pressoché identici agli altri e gli calzavano alla perfezione.

Regan non aveva nulla da prendere con sé, nulla che le appartenesse. Tutto ciò che aveva posseduto era rimasto sepolto in un passato di cui non era più padrona.

Angina le regalò un mantello meraviglioso: di pesante broccato nero, con alamari d’argento e tortuosi ricami simili a viticci che si aggrovigliavano sinuosi lungo il bordo. Teneva molto caldo, forse fin troppo.

– Vedrò di rubare qualcos’altro per la prossima volta che torni a trovarmi –  Le disse, lisciandole il mantello sulle spalle.

– Spero di tornare presto, allora. –

Angina li accompagnò all’uscita. La via fu lunga, un interminabile intrico di gallerie labirintiche in cui era fin troppo semplice smarrire l’orientamento, ma in cui lei e Lucius si spostavano con sicurezza.

– Si è mai perso qualcuno, qui dentro?–  chiese Regan, mentre sorpassavano una cavità zeppa di ragnatele.

Il beffardo sogghigno di Angina bastò di per sé a risponderle.

– Oh, è capitato. I pochi che riescono a intrufolarsi qui dentro senza il mio esplicito permesso difficilmente riescono ad andare lontano. O meglio, magari ci arrivano, ma non è un lontano molto ospitale. –

– Leggendo tra le righe, ci sono individui che si sono persi nei cunicoli sbagliati e non hanno fatto più ritorno –  specificò Lucius allegro.

– Davvero?–

Angina scrollò le spalle con indifferenza.

– Ho già abbastanza da fare a badare ai miei uomini, non posso certo perdere tempo a preoccuparmi degli idioti che si intrufolano in casa mia sperando di farla franca. E poi sarà successo al massimo un paio di volte. –

– Da quando ci sei tu –  precisò Lucius. – La sua famiglia vive qui da generazioni –  spiegò poi a Regan. – Certi racconti di suo nonno mi hanno affascinato quando ero un ragazzino: antiche sette segrete hanno dimorato qua sotto, secoli fa. Alcuni superstiziosi credono ancora che la foresta sia infestata da spiriti malvagi. –

Una manciata di minuti più tardi erano arrivati in fondo a quel che sembrava un vicolo cieco: davanti a loro si parava un solido muro di roccia muschiata.

Senza pensarci, Angina vi appoggiò una mano in un punto che sembrava del tutto casuale e la premette dolcemente. Con un sonoro crepitio che fece temere a Regan che la parete si stesse spezzando, a poco a poco la pietra si aprì, andando a formare un’arcata che si affacciava direttamente su una rigogliosa esplosione di verde scuro, che colpì gli occhi delicati di Regan con tanta meraviglia e violenza da ferirli, mentre lei si rendeva conto che, per qualche assurdo motivo, le mancava il respiro.

Il mondo si spalancava davanti a lei invitandola a entrare.

La sua curiosità agì là dove lo stupore aveva inibito i muscoli e la sospinse, un passo dopo l’altro, ad avventurarsi in quello spazio così colorato e inondato di sole.

Le sembrò di vacillare sotto al peso di quella visuale, consapevole che si trattasse soltanto di un ordinario scorcio di montagna, e persino piuttosto desolato, data la stagione.

Era un fitto bosco di conifere che emanava un sottile profumo di resina, invitando a chiudere gli occhi e sfruttare tutti gli altri sensi, e lasciarsi rapire dalle carezze del vento, dal suo fruscio tra le fronde, dalla morbidezza surreale dei muschi che ricoprivano i massi chiari e i tronchi degli alberi caduti. Erba alta e folta faceva da tappeto sotto ai piedi, fresca e tenera al tatto, e qua e là chiazze di neve cristallizzata – a terra e sugli alberi – testimoniavano il passaggio di recenti imbiancate. Benché la temperatura fosse effettivamente piuttosto rigida, Regan non risentiva del freddo; inspirava anzi con estremo piacere l’aria frizzante che le riempiva i polmoni e le mandava in tutto il corpo intense scariche di energia pura.

Il semplice essere lì la stava facendo sentire di gran lunga meglio rispetto a quanto non avesse fatto la pozione di Venena. Era come sentirsi tutt’uno con il bosco che si distendeva attorno a lei.

– Noto con piacere che l’aria aperta sta sortendo un effetto positivo su di te. –

Regan si appoggiò entusiasta a un enorme abete, il naso all’insù.

– Mi sento come se non avessi mai respirato prima d’ora. –

Angina, abbandonata con una spalla contro la cornice dell’arco, si portò una mano al fianco, ridendo.

– O come se non avessi mai visto un albero. –

Regan non raccolse la battuta. C’era una consistente parte di lei che aveva voglia di scappare e correre fino allo sfinimento tra le piante, e ce n’era un’altra, più esigua ma molto forte, che era soggiogata da un inspiegabile timore, quasi temesse che le sue gambe non conoscessero le dinamiche di una corsa a perdifiato.

– Sarà il caso che ci sbrighiamo – le disse Lucius. – Prima parlerai con Castalia, prima te ne libererai. –

Un grosso corvo era come apparso dal nulla e gli si era postato sulla spalla. Lucius gli sorrideva, grattandogli la testa. Nonostante il suo corpo fosse quello perfettamente maturo e sviluppato di un uomo fatto, il suo sorriso era candido e trasparente come cristalli di zucchero, sincero come quello di un bambino.

– Lui è Rok – disse sa Regan, mentre il rapace gli zampettava lungo il braccio, becchettando affettuosamente il pesante tessuto della manica. – Il mio compagno di avventure di sempre. –

Rok studiò Regan con la testa girata di lato, un solo occhio a vagare su di lei con fare inquisitorio, quasi dovesse decidere se degnarla o meno della propria attenzione. Alla fine, dopo una lunga e attenta valutazione, l’animale arruffò pomposamente le penne nere come l’inchiostro ed emise una gracchiata decisiva.

Lucius rise sommessamente, carezzandolo con gentilezza.

– Gli piaci. –

Per fortuna, pensò Regan, che aveva avuto la singolare impressione che il corvo fosse riuscito a scrutarla più a fondo di quanto il semplice dono della vista non consentisse.

Lei e Lucius salutarono Angina con un ultimo abbraccio e qualche raccomandazione generale.

– Lucius, abbi cura di lei, intesi? –

– Sissignora –  Promise lui, con un cenno marziale.

– Ragazzina – Angina posò le mani ai lati del collo di Regan e ammiccò. – Sei in ottime mani. Resta con questo buzzurro e sarai al sicuro. –

– Oh, non dire così, mi fai arrossire! – ciarlò Lucius, in una pessima imitazione di una persona imbarazzata.

– Che la sorte ti sia favorevole, Regan. Aspetterò con ansia tue notizie. –

Dopo l’ennesimo ringraziamento di commiato, Lucius riuscì finalmente a strapparla dalle grinfie di Angina e portarsela via.

Le fece strada nel bosco, seguendo un sentiero che solo lui sembrava vedere. Dietro di loro, gli aghi secchi e le sterpaglie si ricomponevano autonomamente, coprendo le tracce del loro passaggio.

Non camminarono a lungo, e nel frattempo Lucius le illustrò a grandi linee com’erano andate le cosa da che l’aveva trovata. Quando ebbe terminato, Regan pensò di essere stata molto fortunata. La sarebbe solo piaciuto che qualcosa di quel che le era stato riferito avesse per lei qualche senso.

Il profumo di ghiaccio che emanava la neve sugli alberi si mescolava a quello del muschio e delle conifere, dando vita a un’unica fragranza fresca che si respirava volentieri. La debolezza era quasi del tutto svanita e aveva lasciato posto a un vigore che andava rafforzandosi.

Lucius non mancò di preoccuparsi che lei stesse bene e non faticasse a seguirlo, ma Regan gli assicurò che era inutile: si muoveva senza difficoltà, con la disinvoltura di un’abitudine che non esisteva.

– Ci siamo. –

Regan si sottrasse con sforzo non indifferente all’ascolto del canto del vento nel cielo terso sopra la sua testa. Lucius si era fermato di fronte a un gigantesco tronco cavo privo di chioma e la stava aspettando.

Regan riconobbe all’istante i colori spenti e languidi del legno: la Madre aveva già richiamato a sé l’energia vitale di quella pianta, lasciando le sue spoglie mortali a consumarsi attraverso i secoli.

– È morto – osservò, costernata.

– Da almeno una cinquantina d’anni – confermò Lucius, nello stesso istante in cui Rok volava via dalla sua spalla per andare a posarsi in due battiti d’ali su uno dei rami sopra le loro teste, e lì rimase, vegliandoli dall’alto. – Non si potrebbe usare una creatura viva come Portale. –

La fronte di Regan si corrugò.

– Portale? –

– Non sai cos’è un Portale? –

Lei scosse la testa, non senza una buona dose di vergogna.

– Oh, i Portali sono un’invenzione estremamente affascinante. Difficili da creare, ma indubbiamente di grande utilità. Soprattutto per chi ha bisogno di andare molto lontano in tempi molto brevi senza fare fatica. –

La cavità triangolare dell’albero era simile a uno squarcio, una ferita prepotente inflitta con una certa precisione. La furia di un temporale, sicuramente.

– È un po’ strettino, ma sarà questione di un attimo. –

Lucius, un piede già all’interno della fessura, le stava porgendo una mano. Regan intuì che fosse un invito ad afferrarla.

– Devi essere fisicamente in contatto con me per poter passare – le rivelò. – Non avere paura, cerbiattina, ti posso assicurare che è assolutamente indolore e privo di rischi. –

Regan sospirò. Non erano tanto i potenziali rischi o la paura a bloccarla, quanto piuttosto la prospettiva di concedere la propria mano alla stretta che Lucius le offriva.

Era bello, anche se il suo viso era appesantito da occhiaie dense di stanchezza e le sue dita erano ruvide e callose, soprattutto quelle della mano sinistra. Doveva essere uno spadaccino solerte, ed evidentemente mancino.

– Non abbiamo tutta la giornata, sai? –

Regan inorridì nel sentirsi arrossire. Rimpianse di essersi fatta legare i capelli per non potersi rifugiare dietro la loro cortina. Raggiunse Lucius in fretta e gli prese la mano con decisione forse eccessiva.

Lui rise e ancor prima che le dita di lei si fossero completamente adagiate tra le sue, la afferrò saldamente e la attirò fulmineamente a sé. L’ultima cosa che Regan assimilò fu la solidità del petto di Lucius sotto ai suoi palmi e il suo respiro caldo sul viso, poi tutto fu bruscamente inghiottito da un vortice buio.




_________________________________________________________________________


A/N: ecco il secondo capitolo! Ringrazio di cuore Maharet e Hellister per aver recensito il prologo ed essere state così gentili con i complimenti, e anche per aver messo la storia tra i preferiti (spero di non deludere la fiducia ^^). :) Grazie anche a GirlWithTheGun, Hillary (ma tu sei quella che lascia quelle recensioni meravigliose a _Princess_, vero? *-*) e VesiSchwartz che hanno inserito le storie tra le seguite e spero che "seguendo" troveranno un valido motivo per commentare. ;)
   
 
Leggi le 10 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Lady Vibeke