Capitolo
sei: In ospedale
Luke
non aveva mai realizzato quanto fosse distante il Tri Country Hospital,
non
pensava che il viaggio sarebbe stato così lungo. Ma forse
era proprio quel viaggio ad essere
interminabile.
Per
tutto il tempo se ne restò seduto, stretto tra le sue
braccia in un angolo ai
piedi della lettiga sulla quale era adagiato Bo. Osservava nervoso
tutti quegli aggeggi bizzarri che lo circondavano: monitor, sacche piene di liquidi
dal colore
indefinibile. E poi aghi, siringhe, fili e tubi strani che sbucavano da
ogni
parte.
Da
quando erano saliti sull’ambulanza, non aveva mai tolto gli
occhi di dosso dai
due omoni vestiti di bianco che lo avevano relegato senza tante
cerimonie nel
suo attuale cantuccio. Li aveva visti entrambi auscultare ripetutamente
il
petto nudo di Bo, li aveva osservati mentre gli passavano sulla fronte
garze su
garze imbevute di disinfettante o forse di alcol. E infine li aveva
sorpresi ad
inserire nel braccio del cugino un ago, a suo dire, spropositatamente
grande:
“dobbiamo idratarlo.” Disse uno dei due rivolto
all’altro. Da quell’ago partiva
un tubicino che arrivava fin dentro una di quelle sacche che aveva
già visto lì
intorno da qualche parte e che era stata assicurata ad una sorta di
curioso
attaccapanni. O almeno è quello che sembrava a Luke.
Incredibilmente si scoprì
a sorridere al pensiero che almeno Bo era incosciente. Non sarebbero
bastati
altrimenti due energumeni per tenerlo fermo e infilargli
quell’ago nel braccio.
Bo.
Fin
da quando erano bambini, Luke aveva promesso ai suoi zii, a se stesso e
perfino
a Dio, che avrebbe vegliato sui suoi cugini più giovani
finché avesse avuto
fiato nei polmoni. E invece aveva fallito miseramente. Tra quel
convulso
incrocio di braccia e schiene, riusciva a malapena a distinguere i
tratti del
volto di Bo. Sembrava stesse dormendo tanto appariva sereno.
Luke
si ritrovò ancora una volta a chiedersi che diavolo poteva
essere successo per
arrivare fino a quel punto. Come poteva una giornata iniziata come
tante altre
e destinata a finire nello stesso modo, riservare un imprevisto di tale
portata. Come poteva essere accaduta una cosa del genere a Bo? Che ci
faceva
steso su di una barella malferma e arrugginita, la persona
più allegra e solare
che avesse mai conosciuto in vita sua? E come avrebbe reagito zio
Jesse? E
Daisy?
Il
solo rievocare i volti degli altri due membri della sua famiglia, gli
provocò
un attacco di sudarella fredda. Temeva che se a Bo fosse successo
qualcosa di
irreparabile, Jesse e Daisy lo avrebbero ritenuto responsabile. Lui
stesso si
riteneva colpevole. Erano trascorsi solo pochi minuti dalla sparatoria,
ma il
senso di colpa di Luke aveva già cominciato ad ingigantirsi
senza freno. Il suo
era un tormento destinato ad aumentare.
Luke
era talmente assorto nei suoi pensieri, da rendersi conto che
l’ambulanza si
era fermata solo quando uno dei due portantini lo invitò
senza mezze misure a
togliersi dai piedi e lasciarli uscire con la barella. Si
alzò di scatto e fu
costretto ad aggrapparsi allo sportello posteriore per non ricadere
indietro.
Aiutò quindi ad aprire le porte e si spostò di
lato.
I
due omoni, inaspettatamente agili e rapidi, fecero uscire la lettiga
dall’ambulanza e si diressero verso l’entrata
dell’ospedale. Luke li seguì
all’interno finché si ritrovò la mano
di uno dei due premuta sul petto: “lei
qui non può entrare. Si metta seduto in sala
d’aspetto, al più presto i medici
le daranno notizie.”
Luke
vide la porta che i due avevano appena varcato, richiudersi proprio
davanti al
suo naso. Rimase a fissarli da una piccola finestrella di fronte a
sé, li vide
svoltare un angolo e sentì il tonfo di un’altra
porta che si richiudeva. Dopo
qualche istante, si girò e si mise a sedere sulla sedia a
lui più vicina.
Ora
non doveva fare altro che attendere l’arrivo di Jesse e di
Daisy.
Ora
non doveva fare altro che congiungere le mani e pregare.
Non
fece neanche in tempo a raccogliere mentalmente le parole
più adatte per
iniziare la sua supplica a Dio, che udì le voci di Enos e
Cooter in
avvicinamento. Sollevò lo sguardo proprio mentre i due amici
lo avevano
raggiunto: “abbiamo fatto più in fretta che
abbiamo potuto.” Esordì Cooter
sedendosi accanto a Luke.
“E’
dentro da molto? Ha mai ripreso conoscenza durante il
viaggiò?” Domandò poi
Enos andando ad occupare un’altra sedia.
Luke
passò più volte in rassegna le facce dei suoi due
amici. Aveva capito che gli
stavano rivolgendo delle domande alle quali era certo di poter
rispondere, ma
la voce non ne voleva sapere di uscire. Se in banca aveva avuto la
sgradevole
sensazione di avere le orecchie piene di ovatta, ora si aggiungeva
anche il
sospetto di avere la lingua annodata. Se avesse parlato, anche solo per
affermare o negare, avrebbe rivelato un tremore che lo avrebbe fatto
passare
agli occhi dei suoi amici come una persona sopraffatta dal panico. E
lui non
poteva permettere che una cosa del genere accadesse.
Luke
Duke non perdeva mai il controllo.
Non
si lasciava mai trascinare dagli eventi. Lui gli eventi li controllava.
Niente
era mai troppo bello o troppo brutto per permettere che Luke si
sbottonasse la
corazza che aveva sempre indosso.
Nossignore.
Non
avrebbe parlato.
Sarebbe
rimasto in silenzio malgrado le pressanti domande di Enos e Cooter e
avrebbe
atteso composto notizie di Bo.
Serrò
le palpebre per permettere a tutto il suo corpo di assorbire la
decisione
appena presa. Quando le riaprì vide spalancarsi
violentemente la porta
d’ingresso dalla quale lui stesso era da poco entrato in
ospedale.
Vide
Daisy e Jesse procedere a passo svelto nella sua direzione. Avevano
entrambi il
viso segnato dall’angoscia e dall’incertezza.
Quando
gli furono arrivati a pochi metri, si fermarono e rimasero in attesa di
spiegazioni che invece non arrivarono.
Luke si alzò in piedi e si posizionò di fronte allo zio: “mi dispiace zio Jesse.” Fu tutto ciò che riuscì a dire prima di collassargli tra le braccia.
E
come un bambino pianse tutte le lacrime che fino ad allora si era illuso di potersi
ricacciare
indietro.