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Autore: Ainely    01/06/2011    1 recensioni
Gli ultimi anni di vita del dottor Vin Malaspina erano stati spesi per quel sogno diabolico e divino, ma tutto aveva davvero iniziato ad avere un risultato solamente con la figlia in un inverno, il solito rigido inverno tedesco.
La città era coperta da un manto bianco di neve che la isolava dai rumori quotidiani, dal vociare e dai segreti. Segreti che erano ben radicati a Kassel, su un’isola sul fiume Fulda, nei sotterranei della villa edificata nel 1953, frutto di investimenti loschi, ove il dottor Malaspina aveva fornito di generazione in generazione i macchinari più complessi e all’avanguardia per la creazione e la manipolazione dei geni. Solamente poche persone conoscevano cosa si nascondeva e perchè si manteneva così segreta l'intera operazione al suo interno: complotti internazionali? Spionaggio? Ricerca biochimica? Nulla di tutto questo? Ma il laboratorio di Kassel non era l'unico, no. Altri quattro stavano continuando a lavorare per riuscire a completare l'EVA Project, l'Elementar Vitro Antebios Project.
Genere: Azione, Science-fiction, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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- Capitolo due -
Ricordi e incontri

 




SHINJUKU - Giappone

Presente


 
- Mamma, papà? Che sta succedendo? – Il bambino si sentiva sperduto e neanche i volti dei suoi genitori, che più che volti sembravano ombre pulsanti, indefinite e scure, come pulsante era la luce che rischiarava la stanza, riuscivano a confortarlo. Fuori pioveva. Ogni volta che sbatteva le palpebre poteva cogliere una lacrima di pioggia bagnar il terreno. Era primavera..Forse no… Autunno. La donna e l’uomo che lo affiancavano, i suoi unici parenti in vita, da quanto sapesse, continuavano a tenerselo vicino: quasi spaventati dal fatto che quel bel bambino di neanche cinque anni potesse essergli portato via.
 
Il ragazzino sorrise forzatamente ad entrambi,cercando di rassicurarli, nonostante il fatto che quello più intimorito ,lì, fosse sicuramente lui. La testolina si voltò prima a destra, poi a sinistra, finché una luce non attirò l’attenzione del bambino. Avevano continuato ad addentrarsi all’interno di quella che non poteva altro che essere un castello, come minimo una villa, ed erano arrivati ad un immensa scalinata. La luce proveniva da lì… C’era una porta…
I due lo lasciarono andare, poi con fare incoraggiante lo spinsero verso quei gradini che sembravano non finire più. Fece un paio d’incerti passi, si voltò a guardarli e poi riprese a camminare.
 
-Uno,due,uno,due- Contava ogni suo passo e ,essendo i gradini molto alti, alle volte s’aiutava con le mani per tirarsi su. Il cuore gli batteva forte, quasi potesse prender il volo. Non si era mai sentito così. Paura. Paura. Quel posto lo terrorizzava. Eppure continuava a procedere. Lentamente,inevitabilmente,dolcemente si ritrovò davanti a quella che non sembrava più una porta,ma solo una grande lampada, una lampada che emanava una luce calda e confortevole, da cui fu inghiottito un istante dopo.
 
La luce era calda. Così rilassante. E lo avvolgeva tutto. Quando improvvisamente un incessante ‘bip bip’ iniziò a sfondargli i timpani e ,di scatto, venne ridestato dal sonno. Spalancò gli occhi che bruciarono alla vista del sole, costringendolo a lanciare un gemito di risentimento mentre iniziava a guardarsi intorno. 
 
-Ma che diavolo?!- era nella sua stanza. Era tutto come al solito: le pareti che un tempo avevano ospitato carta da parati ,forse azzurra, erano spoglie e malandate, piene di piccole crepe che spesso aveva avuto paura di toccare (mai sfidar la sorte: non voleva ritrovarsi senza una parete e dover ripagare i danni). Il pavimento in parquet era liscio e ben levigato, sulla scrivania regnava il solito caos dovuto ad un intensa nottata di studio. Non c’era un computer. I soldi, quelli che guadagnava da solo, gli servivano per far le faccende. Per il cibo gli arrivavano ogni mese mille yen, alle volte meno, da provenienze piuttosto incerte.. Alle volte il pacchetto contenete il denaro era firmato con “dalla banca”. 
 
Dopo aver finito il minuzioso controllo dei suoi pochi averi, scese dal letto, lasciando così com’erano le coperte. Scrollò più volte il capo, passandosi una mano fra i corti capelli neri,dal taglio arruffato, cercando di scacciar via l’ennesimo incubo. Detestava fare quegli inquietanti sogni. Quei sogni così reali, così palpabili nella sua testa. La cosa che lo preoccupava maggiormente era che i particolari non cambiavano mai. Le immagini, le sue sensazioni: si ripetevano ogni volta che gli si ripresentava lo stesso sogno, come una pellicola che continuava a essere trasmessa . .  Una noiosa ed alquanto scialba telenovela spagnola.
Sospirò e si diresse in bagno, tirando su la serranda, facendo filtrare il quantitativo di luce necessaria per permettersi di specchiarsi all’interno dello specchio. Guardò prima la corporatura esile, magra, niente da ridire essendo anche piuttosto basso nonostante i sedici anni. Poi passò al volto: dai lineamenti dolci e delicati, le labbra carnose e rosate, il naso alla francese e gli occhi grandi, nonostante fosse per metà giapponese, e celesti. Un celeste particolare.. Così chiaro da sembrare bianco, alle volte. Si passò un dito sulle occhiaie viola che stonavano con il suo bell’aspetto. Sono ridotto male, pensò, prima che il secondo richiamo della sveglia lo facesse rinsavire. 
 
In pochi minuti fu fuori casa, una fetta di pane tostato in bocca; quasi gli cadde in terra mentre saliva sulla sua bicicletta (più che altro il rottame di una bicicletta). Indossava la divisa della scuola superiore che frequentava, primo anno, nessuna particolarità intellettuali od atletiche,anzi, era sempre stato considerato goffo da ogni suo insegnante. Sempre che stessero parlando di lui.
 
Mangiò cercando di non soffocarsi con il cibo, pedalando il più veloce possibile. Saranno state si e no le sei e mezza. La città dormiva e probabilmente il trambusto che aveva sentito sotto casa sua poco prima era uno dei camion che veniva a scaricare la merce per i negozi della via.  Poteva pedalare in pace per strada, lasciando che il vento gli scompigliasse i capelli e gli rinfrescasse il volto. Ah.. Che dolce sensazione esser baciato e sfiorato così da quelle folate. Tiepide, fredde o calde che fossero. A lui bastava sentirsi immerso in quel continuo movimento, per provare quel sentimento che comunemente era chiamato felicità. Quelle attenzioni che lui definiva dolci lo facevano sentire coccolato.. Coccolato come nessuno aveva mai fatto.
 
Già. Abbassò lo sguardo, si fermò ad una tabaccheria, scese velocemente da sella e dopo essere entrato uscì con un mucchio di fogli di giornali arrotolati. Riprese il possesso della sua bicicletta ed iniziò il primo giro-lavoro della giornata per il quartiere. Di nuovo i suoi pensieri si riversarono sulle cortesie del vento, e su quanto lui fosse stato gentile nei suoi confronti. Non aveva mai avuto una famiglia… Tutti i suoi ricordi erano racchiusi in quei sogni.. Squarci di parole o discorsi. Come quando suo padre, in seguito ad una notte passata insonne a causa di un incubo, gli aveva spiegato cosa fosse la paura.
 
-Vedi piccolo- Iniziò suo padre mettendoselo sulle ginocchia. –Quando una persona ha paura, quando ha veramente paura, sente il cuore battergli all’impazzata. Una persona spaventata non riesce a pensare e reagisce e si comporta d’impulso, seguendo il suo istinto primordiale, che è quello di mettersi in salvo. Ecco, tesoro, tu non devi mai farti vincere dalla paura. – Il bambino lo guardava attentamente, pendeva dalle sue labbra e ingurgitava ogni sua singola parola –Perché se qualcuno è in pericolo e tu sei spaventato per lui, non puoi lasciarti sopraffare dal terrore. Devi lottare. Devi lottare per te e chiunque altro ha paura. Tu ce la puoi fare,vero? – E lui aveva sorriso. Uno dei suoi ultimi sorrisi, probabilmente.
 
Passò più di un ora e mezza prima che finisse l’intero quartiere e iniziasse a dirigersi verso scuola. Scuola. Che posto inutile ed insignificante, almeno per lui. Si sarebbe potuto istruire meglio e più volentieri in una biblioteca pubblica. All’inizio di quello stesso anno gli era arrivata una lettera in cui veniva gentilmente informato del fatto che , non si sapeva bene chi, gli aveva pagato gli studi e iscritto ad una delle scuole più prestigiose del dipartimento, al patto che mantenesse i voti su una buona media. Detto fatto era stato catapultato in quel posto che più di altro, gli sembrava una prigione.
 
Il cancello fatto di possenti sbarre di metallo, la recinzione di alti muri bianchi, probabilmente cemento tinto. Entrò con espressione neutra, le mani in tasca e la cartella a penzoloni, sistemata unicamente sulla spalla destra. C’era qualche albero, ma il paesaggio era costituito principalmente dai ragazzi di tutte le età che giocavano o semplicemente chiacchieravano. Si diresse senza alcun problema fra la massa degli studenti ammassati senza il minimo sforzo. Si muoveva invisibile e silenzioso quanto un fantasma. Varcò il grande portone ed entrò in uno degli altrettanti corridoi della struttura. Bianco,Grigio,Nero,Grigio , un altro po’ di nero e poi.. Ah si, altro bianco.  Salì al terzo piano e si sistemò nella sua aula, ancora vuota, occupando l’ultimo banco vicino alla finestra da cui avrebbe guardato l’esterno per sei interminabili ore.
 
 
Al suono dell’ultima campana la classe si svuotò velocemente: gente che saltava entusiasta del fatto che la tortura di quella giornata fosse finita. Lui aspettò che tutti se ne andassero, poi si mise in piedi e,dopo aver tirato giù le serrande dell’intera aula si diresse verso l’uscita. Camminava tranquillamente per i corridoi, ancora la cartella che quasi toccava in terra, lo sguardo intenso a catturare tutti i particolari interessanti del luogo, benché ne avesse pochi. Salì sulla bicicletta, poi scese e la legò nuovamente all’albero a cui l’aveva adagiata durante l’intera giornata. –Non mi va di tornare a casa in bici…-  Si disse stringendosi nelle spalle. Non aveva nessun impegno lavorativo in serata… Quindi perché non farsi una bella passeggiata?
 
In men che non si dica fu fuori da quell’ammasso di mattoni e cemento, per le vie secondarie della città, che ormai conosceva come il palmo della sua mano. Fin da bambino s’era divertito ad esplorare il territorio che lo  circondava, e uno dei suoi primi ricordi senzienti era quello di un vicolo buio e stretto: anche se aveva sempre preferito i posti all’aria aperta. Svoltò un angolo, poi un altro, andò diritto, destra ,sinistra, un'altra volta destra. Ed infine si fermò.
 
Non si fermò perché era giunto alla sua meta, anzi, mancavano ancora parecchi isolati prima di casa sua. Si bloccò quando un uomo dai lunghi capelli bianchi gli si parò davanti sorridendo con fare divertito ed aria superiore. Il ragazzo serrò i pugni ed abbassò lo sguardo prima di cercare di superarlo.
 
Niente da fare, se lo ritrovò di nuovo davanti.
 
Si mosse di nuovo, e come uno specchio l’altro ripeté i suoi gesti.
Il bambino, se così si poteva definire, alzò gli occhi bianchi in cerca di quelli dell’altro: rossi come il sangue.

-Mi scusi- Disse con tono più cortese possibile mentre un silenzioso venticello si alzava alle spalle di entrambi. – vorrei passare.-
Il sorriso dell’albino si fece ancora più intenso mentre chiudeva gli occhi ed inspirava a pieni polmoni l’aria che li investiva, facendosi sempre più forte. Ebbe una sorta di spasmo alle dita che,notò l’altro, erano coperte da guanti termici. –Oh, guarda un po’, finalmente ho trovato un topolino nero… -
 
Spazientito lo spinse cercando di liberarsi della sua presenza alquanto inquietante. –Devo tornare a casa, mi lasci andare, ho da fare! – L’albino lo fermò prendendolo saldamente per le spalle.
 
-Come ti chiami,topolino?- Sussurrò l’altro mentre l’attenzione dell’adolescente venne catturata da una pietra rossa … Fuoco vivo. Voleva toccarla. Ignorandolo avvicinò le dita ad essa. Stava per afferrarla quando ,lasciando lui, l’altro la nascose sotto la sua maglietta. –Ah,ah, topolino! Non si tocca!- Addolcì per un secondo lo sguardo –Se vuoi ne ho un'altra… - . Detto fatto, tirò un'altra pietra, di un colore altrettanto intenso. Era viola, un viola così acceso e vivo che sembrava quasi che il colore all’interno del suo involucro duro e morto si potesse muovere.
 
Gli occhi del ragazzino vennero attratti come da una calamita verso quella pietra che, con movenze secche e svelte, l’altro gli mise in mano. La trovò calda, invitante, e si sentì al sicuro, sicuro come quando era colpito dal vento. Al tatto era liscia e levigata.. Poi, una folata d’aria gelida lo riportò alla realtà.
 
-Non la voglio!- Disse porgendo il palmo aperto della mancina ,dove era tutt’ora lo strano oggetto, all’uomo che storse le labbra irritato.
 
-Te la stai mangiando con gli occhi…- Mormorò con fare irritato inchinandosi verso l’altro, scrutandolo con fare maligno e sospettoso. –Inoltre non posso permetterti di gettarla via … Su quella pietra gira la mia esistenza – Socchiuse gli occhi. – E ci gira anche la tua, bel topolino dai capelli neri. Quindi, converrebbe che tu te la tenessi da conto..- Afferrò il polso che l’altro gli aveva offerto con fare sgarbato, chiudendogli le dita sulla pietra perché la tenesse stretta. Tanto stretta da farsi male. Il volto del ragazzo dai dolci lineamenti si distorse dal dolore, il vento si fece più intenso, più violento. Il fuoco, Sencha, scoppiò a ridere divertito lasciandolo andare. – Ah, ti amo!- urlò contro all’altro che s’era piegato su sé stesso, massaggiandosi la mano infortunata.
 
-Così piccolo, così adorabile, così grazioso e così potente… - Si tolse un guanto per passarsi la mano bollente vicino al volto. Più l’intensità del vento cresceva più l’altro si surriscaldava. –Dimmi come ti chiami.- Sorrise. 
 
- Devo andare.- Disse il topolino, un altro topolino da laboratorio, proprio come Sencha… Solo più piccolo, più indifeso, e più inesperto. Si stabilizzò velocemente, sistemando le mani in tasca, ignorando gli atteggiamenti sospetti dell’albino, superandolo velocemente. Nel muoversi al suo fianco venne sfiorato dalla mano libera dai guanti e.. Ne rimase esterrefatto. Camminò in avanti alibito, incredulo e sorpreso e ,dopo qualche metro si voltò per guardarlo. Continuava ad osservarlo divertito. Come si guarda un programma televisivo. E allora gli disse: -Rise.- e corse via.

 
-Rise… Che grazioso animaletto che ho appena trovato- Sencha chiuse gli occhi e ,senza la minima fretta, iniziò a seguirlo sotto il caldo sole delle due del pomeriggio.



EXTRA≈


 
Nome: Sencha Blackspell
 Età: 21 anni
 Data di nascita: 6 marzo
 Gruppo sanguigno: 0-
 Altezza: 1.82 m
 Peso: 71 kg
 Potere: Fuoco
 Carattere: Dal carattere ribelle e strafottente, in realtà è un tipo che tende a tenere molti segreti e a nascondere, oltre la sua vera natura, anche la sua personalità.
Controlla il fuoco e ciò lo rende una testa calda incontrollabile. Detesta irrimediabilmente la pioggia.
Indossa perennemente dei guanti termoisolanti perché non riesce a controllare appieno le sue capacità. È stato il primo ad essere creato.




















 Nome: Rise Loney
 Età: 16 anni
 Data di nascita: 4 aprile
 Gruppo sanguigno: 0 +
 Altezza: 1.69 m Peso: 60 kg
 Potere: Aria
 Carattere: Apparentemente freddo ed impassibile, un involucro, non un corpo con vita propria, per questo non ha alcun tipo di relazione all’interno della scuola che frequenta come non ne ha fuori. In realtà basta guadagnarsi la sua fiducia perché lui si mostri per ciò che è veramente: un ragazzino ingenuo, dolce e innocente, non essendo mai venuto in contatto ,per un motivo o per un altro, con la realtà. E’ Timido, sebbene non sappia cosa vuol dire veramente questa parola, ed introverso. Adora leggere e esplorare nuovi posti. Controlla il potere dell’aria sebbene prima dell’arrivo di Sencha non ne fosse a conoscenza.
Ha avuto sempre un forte attacco con i genitori, unici suoi parenti, misteriosamente scomparsi al compimento dei suoi quattro anni. Ricorda con molto affetto soprattutto il padre, che l’aveva sempre trattato come un tesoro.
   
 
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