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Autore: Shade Owl    10/12/2011    1 recensioni
Sei mesi dopo gli eventi della Fornace, Timothy Anderson è stato messo a capo di una squadra di apprendisti, gli stessi quattro ragazzi che ha protetto in precedenza. Ma la temibile Alleanza delle Ombre, servendosi di Julien Wings, ha dei piani da portare a termine, piani che lui deve contrastare. A complicare le cose, la sua collega Raven scompare all'improvviso. Cos'altro potrà andargli storto?
Genere: Avventura, Fantasy, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sangue di demone'
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Il giovane nuotava nelle profondità marine, respirando grazie ad uno strumento magico simile ad una maschera naso/bocca, color nero pece.
Era circondato da pesci di aspetto incredibile, che mai avrebbe immaginato di vedere in vita sua, e dissimili da qualsiasi altro della loro specie: grossi, pallidi e cechi, che sfuggivano alla sua presenza quando lo sentivano nuotare al loro fianco, meno agile e aggraziato degli abitanti del fondale.
Erano privi di occhi riconoscibili, molti dotati di lunghi denti simili a zanne, alcuni con bocche così larghe che sembravano dei piccoli buchi neri. Farsi mordere da una di quelle creature poteva essere molto spiacevole. Doveva ammetterlo, facevano un po’ paura a vedersi.
Dietro di lui la luce era scomparsa da parecchie ore, e le correnti dell’oceano lo sballottavano in direzioni non desiderate, ma la magia lo sosteneva e lo sospingeva sempre più in basso, consentendogli di ignorare il gelo degli abissi e la pressione soverchiante che altrimenti l’avrebbero ucciso nel giro di pochissimi secondi.
Lentamente, dal buio più profondo cominciò ad emergere una sagoma, a malapena visibile alla luce del semplice incantesimo illuminante che stava adoperando per vedere dove nuotava: era un’enorme costruzione di pietra, diroccata e crollata in più punti, piena di incrostazioni di alghe, coralli, crostacei e residui di sabbia e sporcizia dovuti a millenni passati su quel fondale, circondata da migliaia e migliaia di altre rovine.
Se erano così individuabili non era certo grazie alla fortuna, quanto alla potente magia e all’antichissima tecnologia che permeava tutto ciò, rendendo impossibile alla sabbia, all’acqua e agli animali distruggere quelle costruzioni, invisibili a chiunque non possedesse ciò che lui, invece, aveva ritrovato un anno prima in Micronesia, dentro un’altra antica rovina.
Era un bracciale di metallo, ricoperto di incisioni alle quali non era stato in grado di dare un significato preciso, malgrado la sua esperienza. Lo indossava al polso, sotto la tuta da immersione, e qualsiasi fosse il suo potere esatto, di certo lo rendeva capace di orientarsi in mezzo alla metropoli sommersa senza alcun problema.
Guardò la piramide per qualche secondo, immobile nell’acqua; sapeva di dover entrare là dentro, ma sapeva anche che non poteva farlo semplicemente attraverso uno dei tanti fori sulla sua superficie: stando alle sue ricerche, era necessario trovare prima un passaggio adeguato nelle sue pareti già bucherellate, il solo che l’avrebbe condotto a destinazione. Ogni altra strada sarebbe stata un vicolo cieco o una trappola.
Girò attorno alla struttura, un occhio posato sul bracciale… sarebbe cambiato quando si fosse trovato abbastanza vicino…
Tutte le rune scomparvero all’improvviso, mentre passava davanti ad una parete particolarmente ricoperta di alghe e melma. L’entrata era lì.
Prese un coltello che si era portato dietro e rimosse la sporcizia, stando attento a non danneggiare lo strato sottostante, che si era conservato perfettamente grazie alla magia ed alle tecniche avanzatissime con cui era stato costruito. Sopra vi erano incisi dei simboli, leggermente diversi da quelli del bracciale, e questi era in grado di tradurli: per aprire la porta, era necessario un tributo di calore e di legno.
Grandioso… fuoco e legno, le due cose peggiori da far apparire sott’acqua… Pensò scocciato.
Tramite l’incantesimo di creazione si procurò una bolla di vetro, grande quanto un pallone da calcio, svuotandola completamente dell’acqua che avrebbe dovuto altrimenti contenere. Attraverso la magia del fuoco, poi, accese una fiamma lì dentro.
Il muro tremò un momento, ma non successe altro: ancora non era sufficiente, mancava il legno. E quello non poteva limitarsi a metterlo dentro una palla di vetro.
Dovette quindi scendere ancora un po’ fino, al fondale vero e proprio, dove si trovavano numerosi relitti marci e pietrosi, assolutamente inutilizzabili, oltre che alcuni crostacei più o meno grandi, enormi scogli taglienti e alghe a non finire.
Cercò un punto particolarmente spoglio e, da un sacchetto appeso alla cintura, tirò fuori un piccolo seme che piantò sotto la sabbia. Ci sparse sopra alcuni piccoli granelli scintillanti presi da un barattolo contenuto sempre nella stessa borsa e, dopo alcuni minuti di attesa, un germoglio spuntò sotto i suoi occhi.
Nel giro di pochissimo tempo, davanti a lui, c’era una pianta che quasi lo equivaleva in altezza, con un solido fusto di legno simile a quello di una betulla, ma con una chioma fluida ed ondeggiante, fatta da tante striscioline verdi e sottili. Sembrava essere sia un albero che un’alga.
Quanto mi piacciono gli incroci a crescita rapida… Pensò tra sé.
Decisamente, aveva fatto bene a portarsi dietro il necessario. Meno male che si era documentato bene.
Con il coltello tranciò un ramo e nuotò fino al muro, accanto al quale brillava ancora il fuoco sottovetro alimentato dalla magia, e passò una mano sulla roccia: un punto in particolare, nel centro di un cerchio di rune che prima, senza il fuoco, non era riuscito a vedere, brillava pigramente. Al suo interno, c’era un simbolo che significava, approssimativamente, “qui”.
Colpì il punto indicato col ramo. Immediatamente, il muro riprese a tremare, e stavolta non smise. Lentamente, nella parete cominciò ad aprirsi un foro che si allargò fino a permettere il passaggio di un uomo non particolarmente grasso.
Senza esitare, ci nuotò dentro ed attraversò uno stretto corridoio di pietra, al termine del quale intravedeva una debole luce color cobalto. Probabilmente, laggiù c’era la cosa che cercava.
Arrivato alla fine del corridoio (che non era certo cortissimo), si ritrovò in un’enorme stanza in rovina, piena di alghe e di incrostazioni di sale e sabbia. Sul soffitto, simile ad un lampadario convesso, era incastrata la fonte di luce che dava a tutto l’ambiente quell’apparenza spettrale, un solo, minuscolo frammento di cristallo azzurro, lungo non più di cinque centimetri.
Lo guardò per alcuni istanti, stupito dalla sua forza e dalla sua lucentezza. Gli era difficile concepire come qualcosa di così minuscolo e impiegato in un modo tanto diverso dal suo vero utilizzo (a quanto ne sapeva, era in grado di guarire) potesse fornire tanta luce, anche in un ambiente simile e dopo millenni di immobilità.
Nuotò fino al soffitto, coltello alla mano, e con quello cominciò a fare leva. Nel giro di pochi minuti riuscì a disincastrare il frammento di cristallo dalla roccia; quello gli scivolò nel palmo aperto, fluttuando qualche istante nell’acqua che lo circondava.
Immediatamente, la luminosità che emanava scomparve, riassorbita nella roccia, mentre tutto intorno scendeva l’ombra, smorzata appena dal suo lume magico.
Stava per voltarsi ed andarsene, quando sentì un rumore leggermente attutito giungergli alle orecchie, tipo di pietra che cadeva. Si voltò di corsa, appena in tempo per vedere un lunghissimo tentacolo pieno di ventose che cercava di ghermirlo.
Con un guizzo si portò lontano dal pericolo, mentre da una porta che prima non aveva visto (probabilmente si era aperta quando aveva preso il cristallo) usciva un gigantesco essere dotato di innumerevoli arti. Non era facile da riconoscere con tutto quel buio, ma non aveva dubbi: quello era un Kraken.
Più velocemente che poté si diresse verso il corridoio d’uscita, ma un colpo particolarmente potente dato da uno di quei tentacoli ad una colonna fece crollare parte del soffitto, e la porta fu ostruita dalle macerie.
Senza pensarci un attimo si voltò e si nascose dietro un pilastro, mentre un altro tentacolo lo inseguiva; continuando a nuotare, evitò meglio che poté ogni suo attacco, cercando in tutti i modi di non finire in trappola, e continuò a costringere il gigantesco polpo ad attorcigliarsi attorno alle poche colonne che ancora reggevano il soffitto: se fosse riuscito a farlo crollare, sarebbe potuto uscire da lì.
Non dovette attendere poi molto: il Kraken era tanto forte che i pilastri cedettero dopo pochi minuti, già indeboliti dai millenni che li avevano visti costretti a sopportare la terribile pressione sottomarina.
Il soffitto cominciò a cadere, e le macerie piombarono addosso al mostro, mentre lui, molto più piccolo ed agile, le schivava una dopo l’altra, senza risparmiare la magia nel fare questo. Si diresse verso l’alto, nuotando più veloce che poté, lasciandosi alle spalle il tempio sommerso ed in rovina, il Kraken morente e la civiltà scomparsa alla quale tutto ciò era appartenuto…
Ovvero, l’antichissima civiltà di Atlantide.

***

Due settimane d’inferno, ecco cos’erano state: un funerale, un bambino rimasto orfano, il lavoro che andava a rotoli, il suo migliore amico che presto o tardi si sarebbe arrabbiato a morte con lei, mille e più impegni assurdi che si affollavano uno dopo l’altro, il litigio con suo padre e la quasi totale mancanza di sonno.
Cos’altro poteva capitarle?
Camminava da sola, di notte, in mezzo ad una stretta via deserta di una città addormentata e silenziosa, sotto la pioggia battente, senza ombrello e senza un cappotto. Tutto era così buio e così freddo che le sembrava di essere in mezzo al niente.
Era bagnata fradicia ed immersa nel silenzio, rotto soltanto dallo scrosciare dell’acqua che le cadeva sulla testa, le si insinuava tra i capelli, inzuppava i vestiti… i piedi le affondavano in pozzanghere gelate formatesi nelle buche dell’asfalto stradale, sconnesso e crepato in più punti. Non aveva scarpe, le aveva perse.
Sanguinava da vari graffi aperti su tutto il suo corpo, graffi che ormai nemmeno ricordava come si erano formati, tante ne aveva passate soltanto quel giorno. Molti, forse, risalivano anche ad un po’ di tempo prima. Si ripromise di curarsi appena ne avesse avuta l’occasione.
Strinse più forte tra le mani la sfera metallica, chiedendosi se tutto ciò valeva il dolore che altri avevano subito e la fatica che lei stessa stava facendo.
Scelse di credere di sì.
Al suo udito, pur se limitato dalle gocce frenetiche della pioggia, non sfuggì il suono di un tonfo sordo ed attutito, come di un martello imbottito che piombava di botto su qualcosa di duro. I suoi sensi percepirono un tremito leggero nel suolo. Qualcosa di molto pesante era atterrato dietro di lei…
Altri rumori simili risuonarono alle sue spalle. Le pozzanghere tremolarono, e non solo per le gocce d’acqua che ci finivano dentro. Un fetido odore di cane bagnato le ostruì le narici. Bassi ringhi sovrastarono lo scroscio della pioggia e il suono del vento.
Strinse la sfera tra le mani, con ancora più forza di prima: niente paura. Niente rabbia. Niente disperazione. Niente dolore. Era tempo di battersi.
Mise via l’oggetto ed estrasse i due lunghi machete d’argento che le pendevano dai fianchi, voltandosi rapidamente ad affrontare i quattro licantropi inferociti.

Per ora, solo il Prologo. Per il resto, mi sa che ci metterò un altro paio di giorni. Spero di avere suscitato curiosità, e di ricevere tante recensioni. A presto!

   
 
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