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Autore: Koori_chan    05/01/2012    0 recensioni
Sei grandi sovrani del passato, sei ragazzi qualsiasi del presente.
Una caccia al tesoro che si rivelerà un'avventura ben più pericolosa di quanto ognuno di loro avesse immaginato.
Una misteriosa donna che lascia indizi altrettanto misteriosi.
Amicizie, legami, alleanze e battaglie.
Firmate il Contratto e incominciate la ricerca.
Basta una goccia di sangue.
Poi l'Eternità sarà vostra.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I__Sans Souci


Josephine Dubois era una ragazza fortunata.
Era così che giustificava la sua borsa di studio e gli innumerevoli premi e riconoscimenti che aveva ricevuto durante la sua carriera scolastica, specialmente da quando si era iscritta al Lycée Charles De Gaulle.
Forse era vero, ma visto che secondo suo padre fortuna e sfortuna non esistevano, sarebbe stato più saggio imputare i suoi meriti alla sua discreta intelligenza ed alla sua smisurata cultura.
Fin dal giorno in cui, ad appena tre anni, aveva imparato a mettere in fila le lettere per formare parole, e le parole per formare frasi, non aveva mai smesso di leggere.
All’inizio si trattava di libricini piccoli, da poche pagine e stracolmi di illustrazioni fantastiche e a volte un poco spaventose, ma alla bambina non bastavano mai, doveva sempre leggere di più, come una droga.
Poi, un giorno, aveva trovato nella biblioteca della mamma, solitamente chiusa a chiave, un vecchio volumetto impolverato.
L’aveva lanciato sul comodino, con l’intenzione di leggerlo più tardi e dedicarsi alla ricerca di qualcosa di più corposo, ma la copertina di cuoio rigido sembrava chiamarla, e non era riuscita ad impedirsi di sedersi sul letto e sfiorare quelle pagine appena ingiallite e odorose di carta vecchia.
Era così che aveva scoperto la Filosofia, con un piccolo libretto intitolato “L’Apologia di Socrate”.
Fu amore a prima vista.
A quindici anni aveva già letto tutte le opere maggiori di Platone e Aristotele, gli scritti di Sant Agostino e i libri di alcuni filosofi un po’ più moderni, come More, Erasmo, e alcuni francesi come Rousseau e Voltaire.
A volte accadeva che suo padre, di ritorno da un viaggio, scuotesse la testa rassegnato di fronte agli atteggiamenti atipici della figlia.
Capitava che si lamentasse del suo carattere introverso ed ombroso, rimproverandola di non avere amicizie sufficienti per una ragazza della sua età ed esasperandosi nel vederla perennemente china sui libri, che fossero scolastici o meno poco importava.
D’altro canto a Josephine non importava molto avere una vasta schiera di amici ed amiche.
Aveva Alex, e questo le bastava.
A dire il vero non era messa poi così male, in campo di amicizie: a scuola andava d’accordo praticamente con tutti, anche se aveva stretto un’amicizia profonda solamente con una compagna di classe: Alexandrine Aubert.
Si erano conosciute in prima liceo, e da allora erano diventate praticamente inseparabili. Alex era l’unica ad aver accolto davvero a braccia aperte quella ragazzina singolare, venuta da una scuola di basso livello, ammessa grazie a una cospicua borsa di studio.
“Lei è il mio Genio personale”, soleva dire riferendosi all’amica, che spesso faceva i compiti per entrambe.
Ma Alex non era l’unica ad aver guadagnato qualcosa in quel legame.
Per Josephine quell’incontro era stato –non che vi credesse davvero- come un miracolo: aveva finalmente trovato qualcuno con cui ridere, scherzare, avere una vita normale, insomma!
Si, Josephine Dubois amava i libri, potevano trasportarla in epoche remote e luoghi lontani, ma quando era sola in casa, nelle fredde e piovose giornate d’inverno, senza sapere dove fosse suo padre e quando sarebbe tornato, erano soltanto il viso di Alex deformato dallo spioncino e la sua borsa stracolma di DVD e schifezze da mangiare sedute di fronte alla tv a farla sorridere.
Un’altra cosa che Jo adorava, a parte Alex e i libri, era viaggiare.
Aveva sempre invidiato il mestiere di suo padre, nonostante sapesse che era stancante e faticoso. Certo, al posto del gigantesco Volvo del 2004 sarebbe stato più comodo un rapido aereo di linea, ma, ripensandoci bene, avrebbe tolto tutto il senso di avventura.
Il signor Dubois, o Pierre, come lo chiamava la figlia, faceva il camionista a lunga tratta. Partiva da Parigi alla volta di tutta l’Europa: a volte per la Spagna e il Portogallo, in altre occasioni si recava sino alla punta più meridionale dell’Italia, oppure in Scandinavia, fino a Capo Nord e ritorno.
Ogni volta portava a sua figlia qualche piccolo souvenir dai paesi che aveva attraversato.
Josephine ne aveva una mensola piena: il piccolo e bruttino troll norvegese, il peluche di una pecorella dalle Orcadi, un bellissimo amuleto di vetro smaltato dalla Turchia…
Quelli erano i suoi piccoli tesori, non li avrebbe ceduti per nulla al mondo. Non erano certo oggetti di valore, ma le ricordavano tutto il bene che le voleva suo padre.
Adesso che era partito per la Siberia era proprio curiosa di vedere cosa le avrebbe portato! Quella volta il viaggio sarebbe stato particolarmente lungo: due mesi fra andata e ritorno sperando che l’estate avesse reso un po’ più agevoli le strade sempre innevate della steppa russa.
Ma papà non sarebbe stato l’unico a portare un regalino, perchè anche Josephine era partita, e si dava il caso che la destinazione fosse proprio la città che da sempre desiderava visitare: Berlino.
Non avrebbe saputo dire perché Berlino la affascinasse tanto, del resto era ben conscia che in Italia, in Spagna, in Grecia e lungo tutte le coste del Mediterraneo ci fossero città intrise di cultura e di storia, e certo non le disdegnava! Da sempre sperava di poter visitare Roma e Firenze, Granada e Barcellona, Atene e il palazzo di Knossos, ma Berlino, con la sua Isola dei Musei, le sue strade, i resti del Muro e quell’atmosfera di rinascita era sempre stata in cima alla lista delle sue priorità.
Peccato che lo stipendio di papà non fosse sufficiente a permetterle di organizzare un viaggio come sarebbe piaciuto a lei.
Ancora una volta, però, doveva essere grata alla sua immesa fortuna –perché attribuire a se stessa il merito, com’era giusto che fosse, per lei era una cosa inconcepibile- se si trovava nella capitale dei suoi sogni.
La scuola aveva organizzato, agli inizi di Maggio, un concorso di scrittura creativa ed era stata proprio Alex a suggerirle di partecipare.
Del resto il tema era ‘Federico II di Prussia, il Re Filosofo’. Come dire di no se si trattava del personaggio storico che adorava di più in assoluto? Aveva letto tutti i libri in circolazione a riguardo dell’uomo e il suo elaborato era piaciuto così tanto alla commissione degli insegnanti che il premio, un soggiorno di cinque giorni nella vecchia capitale prussiana, era stato assegnato a lei.
- Pronto, buongiorno, parlo con la signorina Alexandrine Aubert? –
- Jo pronuncia ancora il mio nome per intero e ti strangolo! – scherzò la ragazza dall’altro capo del telefono.
- E sentiamo, in che modo mi raggiungeresti qui a Potsdam? –
- Potrei sempre passare attraverso la linea telefonica… -
- E scomporti in una serie di numeri fino ad uscire dal microfono del cellulare? Non credo, cara mia! – rise Josephine, immaginando il viso irritato dell’amica, i capelli boccolosi neri come l’ebano sciolti sulle spalle e alcune ciocche del ciuffo a disturbare gli occhi blu mare.
La sentì sbuffare, prova che la sua immaginazione aveva avuto ragione un’altra volta.
- Quand’è che torni? Qui senza di te è una noia mortale… Insomma, mi è toccato passare la ricreazione con le altre ragazze a parlare di Olivier! –
Olivier Poli, il ragazzo più carino del liceo. Non passava ricreazione che le ragazze della loro classe non trascorressero a conversare su di lui. Un argomento decisamente monotono per una come Alex, più interessata ai videogiochi che al principe azzurro.
- Domani mattina, ho ancora la visita di Sanssouci dopo pranzo e poi il mio viaggio finisce… - commentò con una nota malinconica nella voce.
- Hey, che cos’è questo tono depresso? Non preferirai mica un ammasso di musei polverosi alla magnifica sottoscritta! – esclamò Alex, che a giudicare dal rumore infernale e dal progressivo peggioramento della qualità dell’audio doveva star andando a prendere la metropolitana.
Josephine scosse la testa, portandosi un folto ciuffo biondo dietro all’orecchio. Nulla da fare, era troppo corto, anche tenendo i capelli legati in una coda alta il ciuffo sfuggiva all’elastico, ricadendole sulla fronte.
- Mi pare ovvio che preferisco Berlino! –
- Cosa?! Fingerò di non aver sentito, signorina Dubois! Piuttosto, è giunta l’ora di dirci addio, la metro mi reclama! –continuò, teatrale.
- Certo, certo, trovane di scuse! La verità è che ti sei offesa! – la prese in giro Jo.
- Dai, ti chiamo più tardi, se riesco a finire questo dannato HotDog incomincio la visita di Sanssouci! – disse poi, l’emozione vibrante nella voce.
Lo stesso non si poteva dire di Alex.
- Certo, ma fatti sentire! Io nel frattempo vado a fare una meravigliosa ricerca su Gérminal! A dopo! – commentò, imitando sarcastica il tono dell’amica e riattaccando.
La bionda si ritrovò così da sola, zaino in spalla e panino fra le mani, seduta su una panchina del meraviglioso parco della reggia di Federico II.
Prese a camminare nella direzione da cui era arrivata, verso la biglietteria e il punto di partenza delle visite guidate, osservando ammirata la natura intorno a sé. Fontane e alberi dai tronchi possenti e nodosi conferivano al parco un aspetto quasi magico, come se celasse un segreto antico e misterioso. Sorrise, il Vecchio Fritz non si era fatto mancare nulla in vita: dopo la Musica e la Filosofia era riuscito brillantemente anche nell’arte dell’Architettura…
La visita guidata del palazzo incominciò verso le quattro del pomeriggio, conducendo lo sparuto gruppetto di turisti francesi al quale Jo si era accodata all’interno delle grandi sale fresche e ombreggiate, un vero sollievo dopo aver pranzato sotto il sole cocente di inizio Luglio.
Josephine non sapeva più da che parte guardare. Le pareti, i soffitti, persino i pavimenti erano opere d’arte.
- Ed eccoci alla Sala della Marina, o Sala delle Conchiglie, che prende il nome dalle decorazioni su pareti e soffitto… - spiegò la guida, ma la ragazza non la ascoltava più. La sua attenzione era tutta concentrata sul magnifico salone nel quale era appena entrata.
Le pareti erano incastonate di conchiglie di ogni tipo e dimensione e pietre preziose come agate e ametiste, i toni sul violetto e l’azzurro. Decorazioni di pesci e mostri marini si intrecciavano fra loro dando vita a motivi complicati.
Era un vero spettacolo.
- Proseguiamo con la nostra visita al piano superiore… -
Il gruppetto di turisti seguì la donna senza emettere un fiato, tutto intento ad osservare le meravigliose stanze del palazzo.
 Anche la stanza superiore, l’enorme sala da ballo, era all’altezza delle aspettative.
Josephine si guardò intorno per l’ennesima volta, gli occhi sempre sgranati in un’espressione di puro stupore e fra le mani la piantina del palazzo ormai tutta spiegazzata.
Si chiese come doveva essere stato vivere lì all’epoca di Friedrich der Große, fra feste, banchetti, concerti e balli di gran gala. Le sarebbe piaciuto poter assaporare, almeno per una volta, l’atmosfera di quell’epoca, poter conoscere le persone che avevano abitato quella reggia…
Sorrise al quadro di Friedrich, ma cambiò repentinamente espressione quando le parve che la tela le avesse ricambiato il sorriso.
Ricambiato il sorriso? Che assurdità, i quadri non ridono…
Uscì dalla sala di corsa, per non perdere gli altri, ma lanciò un’ultima occhiata al dipinto. Aveva sempre la solita espressione imbronciata…
Dopo una breve passeggiata nel parco la piccola comitiva giunse al punto probabilmente più importante di tutta la visita.
Josephine aveva atteso pazientemente per tutta la giornata, ma adesso fremeva di curiosità. Stava per recarsi sulla tomba del suo personaggio storico preferito, uno dei più grandi monarchi che il mondo ricordasse!
Beh, si, forse era un poco di parte, ma per lei visitare Sanssouci significava molto più di una semplice vacanza, era come poter incontrare il suo idolo, mille volte meglio di andare a un concerto del proprio cantante preferito…
Raggiunsero l’Orangerie, purtoppo chiusa al pubblico e la oltrepassarono, ritrovandosi su una terrazza che sovrastava i giardini progettati dallo stesso Friedrich.
La tomba era lì. Semplice, passava quasi inosservata nello splendore generale del giardino.
Non si trattava che di una semplice lastra di pietra con sopra inciso il nome. Accanto ad essa, undici lastre identiche, i nomi sbiaditi dal tempo e dalle intemperie.
Il Re Filosofo e i suoi adorati cani, a vegliare su di loro la candida statua di una ninfa, o qualcosa di simile.
Fu in quel momento che Josephine si rese conto di aver dimenticato il dettaglio più importante.
- La patata! – esclamò, attirando gli sguardi curiosi e vagamente interdetti degli altri visitatori.
- Come ho potuto dimenticarmi la patata? Dannazione, sono venuta qui apposta e non l’ho portata! – continuò, battendosi una mano sulla fronte con fare teatrale, incurante degli sguardi ormai sconvolti a lei rivolti.
Quella della patata era una tradizione di cui pochi erano a conoscenza.
Era quello che gli inglesi avrebbero definito “a funny joke”, uno scherzetto innocente, amichevole, affettuoso.
Al posto dei classici fiori, i veri ammiratori di Federico II usavono portare sulla sua tomba un tubero, in ricordo della volta in cui salvò la Prussia dalla carestia imponendo la coltivazione di quella pianta venuta da lontano.
Avrebbe voluto offrire qualcosa in memoria del grande re prussiano, ma, doppiamente stupida, non aveva portato con sé nulla se non una bottiglietta d’acqua, il cellulare e il portafogli con la chiave della sua camera d’hotel.
Sbuffò, continuando a darsi mentalmente della stupida, e si arrese all’idea che non le rimaneva altro da fare che stare un po’ lì, in piedi, in un rispettoso silenzio.
Quando si riscosse dal suo attimo di raccoglimento spirituale si accorse che il gruppo di francesi con cui aveva fatto la visita guidata era sparito. E non erano gli unici ad essersi volatilizzati: nessuna guida, nessun turista. La terrazza dell’Orangerie era completamente deserta.
Istintivamente diede un’occhiata al display del cellulare.
L’orologio segnava le cinque e mezza del pomeriggio. Esattamente l’orario di chiusura di tutto il complesso.
- Porca miseria, non possono avermi chiusa dentro! –
Si precipitò a rotta di collo giù per i gradoni che conducevano alla grande fontana. Superata questa, un crocevia portava in tre differenti direzioni. Proseguì dritta, senza voltarsi, in direzione di quelli che sembravano i cancelli del giardino.
Quando fu abbastanza vicina sentì il cuore perdere un paio di battiti. Sembrava proprio che il cancello fosse chiuso.
Accelerò la sua corsa, aggrappandosi all’inferriata e guardandosi in giro. Al di fuori, lungo il marciapiede, la guardia se ne stava andando fischiettando come se niente fosse.
- Hey! Aspetti! Mi ha chiusa dentro! Aspetti! – gridò nella vana speranza di essere udita.
- Oh, perfetto! Bloccata a Sanssouci, e domattina alle dieci ho l’aereo! –
Fece dietrofront, tornando verso la tomba di Friedrich. Dovevano per forza esserci delle telecamere, se avessero visto che c’era ancora qualcuno all’interno del parco avrebbero senz’altro mandato delle guardie a verificare che tutto andasse bene.
Ma ben presto Josephine si accorse che la sicurezza a Sanssouci non era una priorità. C’erano pochissime telecamere di sorveglianza e sembravano essere state messe lì più per bellezza che per necessità.
La cosa più importante adesso era non farsi prendere dal panico. Avrebbe sicuramente trovato un modo per uscire da quel pasticcio.
Bastava riflettere con calma. Cosa faceva di solito se era nei guai ed era da sola?
Ma certo! Sarebbe bastato telefonare all’Hotel e spiegare loro la situazione, le avrebbero certamente mandato un taxi e, dopo essersi scusata con chi di dovere per la sua testa perennemente fra le nuvole, se ne sarebbe tornata a casa!
Afferrò il cellulare, tutta orgogliosa della sua geniale intuizione, salvo accorgersi con orrore che la batteria l’aveva abbandonata.
Adesso si che non sapeva cosa fare.
Almeno avesse avuto un libro con sé avrebbe potuto ingannare il tempo fino a che non fosse successo qualcosa, ma quella mattina aveva brillantemente deciso di lasciare il suo Candide in Hotel.
Lo sguardo le si posò sull’incisione che campeggiava sulla facciata dell’Orangerie.
Sans Souci.
Senza Pensiero.
- Un corno, sans souci! Io adesso cosa faccio?! – gridò al vento, come se avesse potuto rivolgersi direttamente al Vecchio Fritz.
- Perché proprio a me doveva capitare? – mugolò, lasciandosi cadere a terra accanto alla tomba del suo idolo.
Portò le ginocchia al petto e circondò le gambe con le braccia, iniziando a dondolare leggermente nel tentativo di calmarsi.
Sì, nonostante avesse sempre sostenuto di essere una ragazza coraggiosa, in quel momento diciassette anni non le sembrava un’età così veneranda da potersi sentire al sicuro in un posto simile.
Ottimo, adesso le veniva pure da piangere!
Coraggio Josephine! Alla malaparata passerai la notte come una clocharde, rannichiata su una panchina al parco, sotto le stelle di una bellissima notte di Luglio!
Ma quel pensiero, per quanto romantico e avventuroso potesse sembrare, non la rassicurò nemmeno un poco.
Fra l’altro il sole stava incominciando a tramontare, e non faceva più così caldo come durante il giorno. Fu in quel momento che le cadde lo sguardo sulla fredda pietra grigia alla sua sinistra.
C’era qualcosa di diverso dall’ultima volta che l’aveva guardata.
Un particolare in più.
Sbatacchiante nella brezza della sera, tenuto fermo grazie al peso di una delle tante patate commemorative, c’era un pezzetto di carta.
Josephine ne era certa, non c’era prima. Aveva passato praticamente mezz’ora a fissare la lapide e si era allontanata da quel punto per meno di cinque minuti. Era più che sicura che non ci fosse nessun altro nel parco, come poteva essere arrivato fin lì?
Il buon senso le imponeva di lasciarlo stare dov’era e preoccuparsi di trovare un modo per tornare in Hotel il più in fretta possibile, ma la curiosità era sempre stata un elemento dominante nel suo carattere e anche quella volta ebbe la meglio sulla ragione.
Allungò la mano appena tremante, scostando il tubero freddo e afferrando il biglietto.
Era scritto in inchiostro nero da quella che sembrava una penna stilografica o –e qui si concesse un piccolo sorrisetto di biasimo per la sua eccessiva immaginazione- una penna d’oca.
La grafia era sottile ed elegante, senza sbavature, ma da come risentiva del riflesso del sole calante l’inchiostro doveva essere ancora fresco.
Ma non fu quel particolare ad allarmare la ragazza.
Quel bigliettino era indirizzato ad una persona particolare e, cosa davvero preoccupante giacchè si trovava a Berlino, era scritto in Francese.
Lo lesse un paio di volte per accertarsi di non avere le allucinazioni. Si guardò intorno nuovamente, voleva essere sicura al cento per cento di essere sola, anche se quel messaggio era inequivocabilmente rivolto a lei.

“Pour la Demoiselle Aux Yeux Bleus.
Il commence à faire froid, n’est-ce pas ? Ça serait, selon moi, une bonne idée d’entrer dans l’Orangerie.
F.v.H.”

Deglutì sonoramente, stringendo appena il pezzetto di carta fra le mani.
Demoiselle aux yeux bleus.
E si dava il caso che lei avesse gli occhi blu.
Stette qualche minuto seduta in quella posizione, le sopracciglia sottili incurvate in un’espressione spaventata, finchè un vento particolarmente freddo per la stagione si alzò da ovest, facendo sollevare da terra mulinelli di polvere e foglie secche.
- Coraggio Jo, in fondo non hai molte altre opzioni… - disse fra sé e sé, ignorando quella vocina nella sua testa che le dava dell’incosciente e dirigendosi verso la porta dell’Orangerie.
Appoggiò una mano sul battente di legno e trasse un profondo sospiro, poi spinse in avanti.
La porta era aperta.

  
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