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Autore: Monique Namie    11/03/2012    1 recensioni
L'inizio di questo racconto riprende fedelmente la puntata “The Swarm” – “Lo schiame”, della prima stagione di Generator Rex. Nei capitoli seguenti compariranno personaggi estranei, provenienti da una dimensione superiore e la trama si arricchirà di mistero. La particolarità di questo racconto è l'esistenza di una doppia realtà: quella del cartone animato (guidata da un gruppo d'esperti che tiene tutto sotto controllo) e quella della vita reale (lasciata al libero arbitrio).
[Rebecca Holiday | Nuovo personaggio | Rex Salazar]
Genere: Avventura, Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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2. Il Viaggio

Shona, venticinque anni compiuti da poco, si scosse sulla sedia tormentata dalla visione che le si era presentata allo schermo. I lunghi capelli di un biondo scuro tirati indietro e legati in una coda molto alta si accostavano perfettamente agli occhi verdi, così luminosi che sembravano scolpiti nella giada. Il corpo magro ma slanciato che testimoniava lunghi periodi di allenamento, era coperto da un abbigliamento semplice costituito da un paio di jeans e un maglione nero in fibra sintetica. A differenza di tutti i suoi colleghi, lei non indossava mai il camice perché lo considerava una costrizione imposta dall’eccesso delle regole.

«Chi ha avuto la brillante idea di strutturare i fotogrammi in questo modo?!» Proruppe con tono alterato, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

«Quelli della Men of Action1, credo.»

Shona si girò di scatto verso l’uomo che aveva parlato e lo fulminò con lo sguardo. Lasciando cadere quella discussione si rivolse direttamente al suo fidato collaboratore; un ragazzone enorme sui trent’anni, capelli folti e ricci, un paio di occhiali che lo facevano sembrare un secchione di prima categoria. Era soprannominato da tutti "il gigante buono".

«Rog, mi serve il tuo aiuto. Sai cosa fare in questi casi. Protocollo Tre.»

Il ragazzo si alzò dalla postazione su cui era chinato e si girò verso Shona sgranando gli occhi.

Rog era uno dei migliori tecnici del laboratorio. Conosceva a memoria più di una trentina di coordinate photospaziali2 e sapeva il rischio che si correva attuando il Protocollo Tre.

«Quel protocollo non è mai stato utilizzato fin’ora, non credi sia…»

«L’occasione giusta per iniziare? Sì, lo penso anch'io!» Disse Shona avvicinandosi sorridente. Poi lo afferrò per la manica bianca del camice e lo condusse verso il laboratorio dov’era custodita la strumentazione per i viaggi. Lui si lasciò trascinare: non poteva fare altro, il capo era lei.

La stanza era accessibile solo a Shona. Lei era la sola che potesse aprire la porta che conduceva verso quello che era il nucleo segreto dell’organizzazione; il computer posto all’entrata rilevò le sue impronte digitali, confermò il timbro della voce e scansionò la sua retina. Rog inserì il codice d'approvazione in suo possesso, così la porta automatica si sbloccò e schiudendosi lasciò intravedere al suo interno un mucchio di cianfrusaglie impolverate.

«Più ordinata della mia camera. Adoro questa stanza!» Scherzò Shona con un lieve sorriso sulle labbra. Rog era dietro di lei con espressione accigliata. «Spero tu sappia quello che fai.» Disse.

«Non ti preoccupare. Vai nella sala controlli, accendi le apparecchiature e tieniti pronto al mio segnale.» Poi si ricordò di un'altra cosa e tornò a rivolgersi a Rog che era rimasto lì immobile. «Ah, voglio un vestito verde per questa missione. Ci vuole equilibrio e armonia. Lascio decidere a te il modello e il design.»

Il ragazzone avvolto nel suo camice esitò qualche istante, poi annuì e sparì dentro una porta a qualche metro dalla stanza per i viaggi. Shona varcò il portone blindato appena aperto; le luci automatiche si accesero con un lieve ronzio mostrando il grosso blocco di ferraglia posto al centro della stanza. Un mucchio di cavi scendevano dall’alto e andavano a immettersi in appositi adattatori elettrici sulla sommità del marchingegno. Sulle pareti vi erano scatoloni sigillati e armadi di legno traboccanti di roba strana. Shona usava quel posto come cassaforte personale, era stata proprio lei a riempire gli armadi e a depositare quegli scatoloni dal contenuto top secret sul pavimento grigio e impolverato.

La ragazza aprì il portellone ermetico del macchinario facendo pressione su di una placca invisibile. I vecchi cardini arrugginiti cigolarono nel silenzio surreale di quelle quattro mura. Shona guardò verso la parete est dove Rog doveva essere appostato oltre il vetro oscurato della sala controlli. Alzò un braccio e fece segno con la mano di attivare il congegno entrò un minuto, poi entrò e si chiuse la porta alle spalle escludendo la luce dei neon che poco prima filtrava opaca all’interno del congegno.

Il tempo sembrava passare a rallentatore. Shona attendeva che succedesse qualcosa. Era la prima volta che provava quella macchina e al suo interno non c’era niente che potesse indicare con certezza se lo spostamento photodimensionale fosse effettivamente già avvenuto o no.
Era possibile che Rog nella sala controlli stesse esitando ad attivare il meccanismo.

«Diavolo, Rog! Dopo facciamo i conti se non ti sbrigh!» Sussurrò Shona mentre si passava la manica della maglia sulla fronte un po' sudata per la tensione.

Improvvisamente fu invasa da una stranissima sensazione di smarrimento. Cercò le pareti con le mani, ma non le trovò più. Non sentiva più nemmeno il pavimento sotto ai piedi. L’atmosfera era buia e impregnata dal classico odore tipico degli ambienti rimasti chiusi per troppo tempo. Ogni volta che inspirava, quello schifoso gusto d’aria malsana sembrava arrivargli fino al cervello.

Dopo i primi attimi la sensazione cambiò: ora a Shona sembrava di essere in un ascensore che scendeva a tutta velocità verso terra. Era un po’ come buttarsi da un aereo in piena notte, una notte senza luna, senza stelle e senza vento.

Finalmente l’odore dell’atmosfera stantia sparì. Il nero si fece meno denso e comparvero delle graziose sfumature blu e azzurre. Gli occhi iniziarono a bruciarle come se fosse entrato del sapone. Provò a muoversi, ma aveva le braccia e le gambe intorpidite. Quando cercò di trarre un altro respiro per poco non soffocò, perché l’acqua gli entrò nel naso e nella bocca. Una marea di bollicine d’ossigeno l’avvolsero offuscando tutto per qualche lunghissimo secondo. D'istinto cercò di nuotare verso la superficie che sembrava lontanissima, ma i movimenti risultarono un goffo divincolarsi privo di direzione. Nella confusione e nella foga andò a scontrarsi contro qualcosa. Con la vista intorpidita riuscì a distinguere solo un vago colore rosso, quello che bastò per farle capire di cosa si trattava, o meglio di chi. Fu lui, Rex, a darle la forza necessaria: lo afferrò e si lasciò spingere in superficie dalla pressione dell’acqua.



La dottoressa Holiday controllava meticolosamente gli ultimi dati rilevati dall’apparecchiatura di bordo. Non lo avrebbe mai ammesso apertamente, ma si sentiva terribilmente in colpa per aver mandato Rex contro un così grande pericolo. Si portò le due mani sulla testa e chiuse gli occhi cercando di calmarsi e ragionare con lucidità. Quando sul monitor del computer comparve la faccia del Capitan Calan, Holiday tornò improvvisamente ricomposta, appoggiò le mani sul tavolo e trasse un profondo respiro.

«Abbiamo qualche novità dalle squadre subacquee?» Chiese diretta verso lo schermo.

La risposta di Calan non fu per niente tranquillizzate. «Non lo abbiamo ancora trovato, sembra quasi che si sia volatilizzato.»

Lo sguardo Holiday lasciò trasparire un misto di rammarico e speranza.

«Manda sotto altre due squadre di uomini e avverti la terza di stare pronta. Io stessa mi unirò a loro.» Holiday chiuse così la comunicazione e si lasciò scivolare sullo schienale della poltroncina. Non c’era modo di scendere a terra con i mezzi perché la zona era ancora presidiata da centinaia di insetti mangia-ferro. Era necessario tenersi a distanza di sicurezza e paracadutarsi con indosso la muta e le bombole direttamente sopra al bacino lacustre, sganciare poi l'imbragatura del paracadute e immergersi velocemente nell'acqua. L’impresa era parecchio rischiosa, ma non poteva abbandonare Rex, in qualunque stato esso si trovasse. In fondo era stata tutta colpa sua.



A qualche metro dalla sponda opposta del lago, nascosta dalla vegetazione, Shona giaceva immobile sul terreno polveroso. Il viso rivolto verso il cielo dove iniziavano di già a comparire le prime pallidissime stelle in un cielo ancora troppo chiaro.

Era scossa dai brividi, i capelli fradici appiccicati al viso, gli abiti anch’essi inzuppati lasciavano penetrare la brezza serale fino alle ossa. Appoggiò la testa di lato sul terreno polveroso: Rex giaceva prono in parte a lei con la faccia sporca di terra, i capelli neri che gocciolavano. Vedendolo per la prima volta, il volto di lei s’illuminò e non riuscì a trattenere un sorriso d'ammirazione. La missione era stata un successo.

«Rex! Rex Salazar svegliati, sto parlando a te!»

Shona si sollevò da terra con i gomiti e scosse il ragazzo afferrandolo per la giacca rossa. Rex non dava segni di vita. Tentò per qualche minuto di rianimarlo ma fu tutto inutile; il sorriso le si spense lentamente e profondò nello sconforto. Non poteva finire così. Doveva attuare la seconda parte del piano.



Mini-glossario:
1-
Men of Action è lo studio di produzione del cartone animato di Generator Rex.
2- Le coordinate photospaziali fanno parte della tecnologia photodimensionale, una particolare tecnologia fantascientifica inventata da me che permette alle persone reali di entrare nei pixel dei cartoni animati e interagire con i personaggi dell'animazione.

   
 
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