Like a Cosmonaut

di _Lady di inchiostro_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


 IniziativaQuesta storia partecipa allo “Sci-Fi Fest” a cura di Torre di Carta e Fanwriter.it!
 Numero Parole: 7516
 Prompt/Traccia: Problemi di comunicazione 

Questa storia è successiva a "Like an Astronaut". La lettura è vivamente consigliata, in modo da capire le dinamiche di questa storia.

Buon compleanno Gaia! <3



 
LIKE A COSMONAUT

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CAPITOLO PRIMO

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ATTO PRIMO





Acqua. Si sentiva come immersa dentro un enorme oceano cristallino. Aveva un colorito bluastro, come non lo vedeva da anni, mentre una forte luce le feriva gli occhi; eppure, non riusciva proprio a staccare lo sguardo da quel bagliore, quasi come se fosse un insetto attratto dalla luce artificiale.
Poi, improvvisamente, le apparvero delle immagini davanti, veloci, non riusciva a carpirle bene. Erano confuse e quei colori si mischiavano al blu dell’oceano e all’oscurità di quell’abisso sconosciuto. Strinse le palpebre, cercando di captare qualche frammento, intravedendo soltanto dei visi stravolti. Alcuni le parevano familiari, altri non li aveva mai visti in vita sua. Solo uno aveva un’espressione compiaciuta, di chi ha il pieno controllo della situazione.
Sentì come se qualcosa le avesse afferrato le gambe, e – in un primo momento – si dimenò, accorgendosi poi che nessuno la stava effettivamente strattonando come una bambola di pezza. Tuttavia, continuava a sentire qualcuno o qualcosa che la teneva con forza, e adesso la presa si era spostata anche sui suoi polsi.
Una voce le rimbombò nei timpani. «Non vogliamo farti del male…»
Cominciò a mancarle l’aria, i polmoni che sembravano bruciare, il pompare del suo cuore dentro le orecchie. Dilatò le pupille, oramai aveva esaurito l’ossigeno. Stava per morire…
Poi, aprì di scatto gli occhi, tossendo e spalancando la bocca alla ricerca di nuova aria. Realizzò solo dopo di non essere nelle profonde acque oceaniche, ma seduta sul suo letto, nella sua stanza. Era stato un sogno, un tremendo sogno, persino peggiore degli altri.
E di questo, probabilmente se n’erano accorti anche i suoi genitori.
Selene fissò per un attimo le iridi bluastre di Kageyama, le mani ancora tenute sulle sue spalle, nel tentativo malandato di scuoterla e di risvegliarla, spostando poi lo sguardo su Hinata e abbassando il capo.
Non poteva più tenerglielo nascosto.



*

Qualche giorno più tardi…



Era una sensazione bellissima, come se il motore vibrasse e potesse quasi sentirlo attraverso i palmi delle sue mani. Strinse maggiormente il volante, focalizzando la sua totale attenzione sulla prossima curva, mentre con lentezza spostava una mano sulla leva alla sua sinistra. I suoi occhi divennero sempre più piccoli mano a mano che si avvicinava. Bastava esitare anche solo per un attimo e la navicella…
Non riuscì ad afferrare la leva in tempo, un lato della navicella che si fracassò contro la parete. Se fosse stato un vero incidente, probabilmente sarebbe stato mortale, ma per fortuna si trattava solo di una simulazione, una di quelle che facevano fare ai piloti, su Sibun, per esercitarsi al meglio su qualsiasi tipo di circuito.
«Dannazione!» disse, togliendosi il casco e lanciandolo per terra. Ci mise un manciata di minuti prima di uscire dalla Navicella di Prova, aprendo il cofano come se fosse una botola. Le navicelle di quel tipo erano di colore grigio scuro e raramente venivano usate, poiché i piloti preferivano allenarsi sul campo e non attraverso uno schermo virtuale. Tuttavia, questo era un caso ben diverso. «La prego, Irihata-sensei, mi faccia riprovare!»
L’uomo chiamato in causa si avvicinò alla navicella, sospirando, le mani intrecciate dietro la schiena. Portava i suoi lunghi anni molto bene, anche se stavano cominciando a spuntare i primi capelli bianchi. «Haruka – fece una piccola pausa, prima di continuare – sei ancora inesperta… Queste tipologie di piste non sono adatte ai principianti…»
«Oh, la scongiuro, soltanto un’ultima volta. Se fallisco anche questa, giuro che torno a casa!» disse, quasi in lacrime, congiungendo le mani.
Irihata produsse un sospiro basso, un piccolo sorriso nostalgico che gli incurvò le labbra. «Sei tale e quale a Oikawa…» Scosse il capo. «Va bene, ma solo per un’altra volta!»
«Grazie mille, Irihata-sensei. Le sono debitrice!» E nel dirlo, si richiuse dentro la navicella, tre schermi fluttuanti e proiettati da un paio di telecamere ovali che apparvero davanti all’anziano uomo. Da uno schermo si poteva vedere il pilota dentro la sua navicella, mentre dagli altri due si poteva assistere all’intera corsa, persino dall’alto, proprio come se fosse reale.
Tuttavia, l’uomo rimase a fissare l’immagine di Haruka, un casco bianco e azzurro tenuto ben saldo in testa e che, a suo tempo, era stato di suo padre. O meglio, del suo padre adottivo, e che adesso Irihata stava ricordando con un po’ di nostalgia. La prima volta che aveva avuto l’occasione di parlare con Oikawa Tooru, era stato quando lui aveva tentato di entrare all’interno della scuderia. La figura di Oikawa che si metteva dritto sul posto, dopo essere stato scoperto, non l’avrebbe mai più cancellata dalla sua mente: aveva le guance arrossate e i capelli appiccicati ai lati del viso.
Tooru aveva sempre desiderato poter fare il pilota di corse, sebbene il suo patrigno non approvasse, e questo Irihata lo sapeva bene. Eppure, non disse di no dinanzi all’implorazione di quel ragazzino, il cui desiderio più grande era seguire la strada che lui aveva scelto per se stesso. Lo aiutò ad entrare alla Kitigawa Daichi, una scuderia per giovani matricole, frequentando due anni in uno e mettendosi in pari con i suoi coetanei, diventando uno dei piloti più amati e acclamati della sua generazione. In quegli anni era stato eletto campione per ben sei volte, battendo il titolo di Ukai senior, prima di decidere di ritirarsi completamente.
E adesso, sua figlia stava seguendo le sue orme, frequentando anche lei i corsi della Kitigawa Daichi e impegnandosi più di quanto facessero i suoi compagni. Ancora una volta, si era lasciato impietosire e aveva accettato di allenarla personalmente, insegnandogli i trucchi del mestiere e permettendole di allenarsi con piste decisamente più difficili di quelle che percorrevano alla scuderia della Kitigawa.
Come quella su cui la ragazza si stava esercitando da oramai tre giorni, recandosi alla scuderia della Seijoh alla stessa ora, in attesa di poter sfidare quella curva impossibile e di poter avere finalmente la vittoria. Puntualmente, però, finiva per fracassare la navicella contro la parete.
Non si era ancora data per vinta. Anche in questo assomigliava ad Oikawa.
«Quante volte avrò distrutto la mia navicella prima di capire come dovevo prendere quella maledetta curva? Trenta volte?»
Irihata fece un piccolo sorriso, le mani ancora intrecciate dietro la schiena, voltandosi verso la fonte della voce. «Trentasei. E il mio portafoglio sta ancora piangendo.»
Oikawa – appoggiato allo stipite dell’enorme entrata – scosse la testa, ciuffi castani che gli coprivano parzialmente il volto. In quegli anni, non era cambiato affatto. Era rimasto lo stesso identico ragazzo che era piombato dentro la Sala delle Riunioni, fermamente convinto che sul Pianeta Terra ci fosse vita. E non si sbagliava.
«Le ho restituito ogni centesimo per quelle riparazioni, Irihata-san!» disse, avvicinandosi all’uomo.
«Stavo scherzando, Oikawa! Non dovresti prenderla sul personale!»
«Ma io non la prendo sul personale!»
L’uomo roteò gli occhi, tornando a fissare lo schermo che riprendeva Haruka, un’espressione concentrata e seriosa dipinta sul viso. Era impressionate quanto gli ricordasse Tooru, seppure tra di loro non ci fosse alcun legame di parentela. Avevano entrambi uno sguardo che avrebbe messo paura persino a un leone.
«Come sta andando?» Irihata spostò lo sguardo di lato, incontrando l’espressione fiera e a tratti malinconica di Tooru.
Le labbra erano incurvate in un sorriso dolceamaro, le palpebre semichiuse. Come al solito, stava cercando di nascondere il suo reale stato d’animo sotto una maschera perfettamente studiata; peccato che Irihata conoscesse Oikawa da tantissimi anni, la sua mente era un libro aperto per lui.
Emise un piccolo sospiro. «È tua figlia, Tooru, non può che essere un prodigio.»
«Ma io non sono un prodigio…»
«Ancora con questo complesso di inferiorità? Sei il campione con più vittore sull’intero pianeta, e hai ancora il coraggio di lamentarti?» L’anziano uomo alzò il pugno verso l’alto, forse con l’intento di calarlo su quel testone duro come la pietra, se non fosse che il ragazzo cercò di pararsi con entrambe le braccia. Aveva oramai superato la trentina d’anni, ma rimaneva sempre un bambino troppo cresciuto. «Sto solo dicendo che ha delle grandi potenzialità, più di quanto ne abbiano i suoi coetanei.»
«Questo lo so! Tra qualche anno, riuscirà persino a superarmi, è solo questione di tempo!»
Fece l’occhiolino in direzione del suo vecchio istruttore, nonché Team Principal della scuderia, che però non aveva mai smesso di guardarlo con aria grave, le sopracciglia contratte. Le rughe erano aumentate, nel corso di quegli anni, segnando ancora di più il suo viso. Il silenzio stava cominciando a diventare opprimente, mentre in sottofondo si sentivano solo i rumori provenienti dai filmati.
«Come stai?» sbottò poi Irihata.
Il castano fece un piccolo sbuffo, stropicciandosi gli occhi. Probabilmente aveva notato le vistose occhiaie che aveva sotto gli occhi, dovute a nottate intere passate in bianco, un luce artificiale accesa e il letto colmo di fascicoli e fogli vari. In un’altra occasione, Iwa-chan l’avrebbe subito spedito a letto con uno schiaffo sulla testa, ma non in quel caso. Sapeva quanto fosse di vitale importanza, per lui, finendo per passare delle lunghe notti senza dormire, assieme. Ed entrambi, cercavano di nascondere la loro crescente preoccupazione, soprattutto ad Haruka.
«Sono solo stanco» ammise, con un sospiro che aveva il sapore della sconfitta.
Sentì la mano di Irihata posarsi sulla sua spalla, in un gesto quasi paterno. «Vedrai che la troveranno, Tooru…»
Difficile dirlo.
Hoshi era sparita da un mese. La sua navicella si era volatilizza nel nulla, non aveva più avuto contatti con il Centro di Comando, su Sibun. Non sapevano dove fosse, né come rintracciarla. E quello era solo uno dei tanti casi che già aveva segnato il panico sul pianeta, da tre mesi a questa parte. Tantissimi Ricercatori erano spariti, senza lasciare alcuna traccia.
I primi erano stati due giovani ragazzi, appena entrati al Dipartimento dei Ricercatori. La loro navicella non aveva più dato notizie dopo cinque giorni dalla loro partenza. Con loro, si susseguirono le squadre mandate in missione per cercarli o per altre esplorazioni. Finora, i casi di sparizione erano circa una decina. Compreso quello di Hoshi.
Era partita da sola, con la disapprovazione sia di Tooru che della madre, sostenendo che fosse troppo pericoloso. “Tornerò, te lo prometto”, aveva detto, dandogli poi un bacio sulla guancia. E Oikawa stava ancora aspettando che tornasse.
Aveva fiducia nelle capacità di sua sorella, se l’era cavata in situazioni di gran lunga peggiori – come combattere con un esercito armato, o eludere la sorveglianza per cercare di salvarlo –, eppure aveva paura. Troppe persone erano sparite, in circostanze misteriose, le famiglie non facevano che chiedere di loro, e Oikawa leggeva nei loro volti il dolore che provava lui stesso.
Sapeva che era inutile continuare a leggere e rileggere le conversazioni avvenute tra la navicella della sorella e il Centro di Comando, in cerca di indizi, ma era l’unico modo che aveva per tenere la mente occupata. E Iwaizumi l’aveva capito, per questo si era fatto anch’egli carico del suo dolore, e non gli sarebbe mai stato grato abbastanza per questo. Del resto, anche lui teneva molto a Hoshi, dopo che aveva imparato a conoscerla.
«Avrei dovuto impedirle di partire…»
«Non fartene una colpa. Tua sorella è una ragazza tosta… Vedrai che se la sta cavando alla perfezione!»
L’uomo fece un piccolo sorriso, cui Oikawa non poté che ricambiare, seppure con forza, mentre il rumore di una navicella che sfrecciava veloce li riscosse, facendoli tornare a guardare gli schermi fluttuanti. Haruka stava per accingersi a raggiungere la fatidica curva.
Per un attimo, Oikawa sembrò dimenticare i suoi problemi, rimanendo letteralmente incantato dinanzi alla figura di sua figlia, lo sguardo concentrato che si intravedeva dal casco, incorniciato da alcuni ciuffi nerissimi. I suoi occhi verdi sembravano quasi brillare. L’aveva vista correre più volte sulle piste della Kitigawa, ma era come se non ci avesse mai prestato attenzione veramente. Aveva sempre sostenuto che sua figlia fosse bellissima, fin da quando era piccola e temeva di non riuscirsi a farsi degli amici per via delle sue macchie dovute alla vitiligine. Tuttavia, ora che la guardava meglio, Oikawa si rese conto che non era più la bambina che si era attaccata alla sua gamba, la prima volta che si incrociarono.
Era cresciuta. Era cresciuta, e non poteva fare a meno di immaginarsela con i colori della Seijoh addosso, sul podio.
Il solo pensiero gli aveva reso la gola secca.
«Dai Haruka…» mormorò, lo sguardo concentrato quasi quanto quello della figlia.
Era proprio vero. Quella ragazza era un toccasana per Tooru, come lo era del resto Iwaizumi. Le uniche due persone che riuscivano a risollevargli il morale anche nelle situazioni più ardue.
Haruka afferrò con forza la leva, proprio quando si ritrovò l’imponente curva davanti, e il tempo parve fermarsi in quel momento. Non lo sapevano, eppure era come se padre e figlia fossero diventati una cosa sola, il cuore che batteva a mille, i respiri pesanti e calzanti. Una goccia di sudore le offuscò la vista, mentre le sue dita tremavano.
Si rese conto solo in un secondo momento di aver girato il voltante e, contemporaneamente, di aver mosso avanti e indietro la leva, per dare gas alla navicella. Si rese conto solo in un secondo momento di essere riuscita a mettere il veicolo dritto, dopo essere stata sballottata da un lato all’altro della navicella, e di essere riuscita ad arrivare al traguardo completamente integra.
Cacciò un urlo fortissimo, gli schermi attorno a lei che si spegnevano, segno che la simulazione era finita, sbattendo i piedi per la contentezza.
«Sì, cazzo!» urlò poi Oikawa, talmente forte da essere udito persino dalla figlia, che si tolse il casco e uscì dalla navicella.
«Kawa…?» disse, sorpresa, sorridendo subito dopo, accorgendosi che suo padre era esaltato almeno quanto lei.
Si gettò sopra di lui e sentì le sue braccia che la stringevano con forza, mentre giravano entrambi su se stessi. Haruka non poté non lasciarsi scappare una piccola risata di gioia.
«Sapevo che ce l’avresti fatta» disse, e le sue parole vibrarono contro la spalla della figlia.
«Grazie, papà» disse, dolcemente, un sorriso a increspargli le labbra, rafforzando la presa.
Era bello vedere suo padre sorridere dopo tanto tempo. Era bello sentire le sue braccia addosso, calde, protettive, capaci di farla sentire a casa, anche se con quell’uomo non aveva alcun legame di sangue. Era fiero di lei, era riuscita a distrarlo per un manciata di minuti, lasciandolo con il fiato sospeso, e non poteva che sentirsi onorata per questo.
Passarono diversi minuti prima che Oikawa riponesse con i piedi per terra quel corpo magro e segnato dalle prime e gentili curve, Irihata-sensei che li fissava allo stesso modo di un anziano uomo che ricorda i bei momenti passati con la sua famiglia.
«La ringrazio infinitamente, Irihata-san!» disse la ragazza, inchinandosi dinanzi all’uomo, i lunghi capelli legati da una coda.
«Non ringraziarmi. Questo è stato il tuo primo successo, ma mi aspetto che ce ne siano molti altri, in futuro!»
«Ci conti!»




Oikawa e Haruka uscirono dalla scuderia mezz’ora dopo. Stava cominciando a far buio e le strade erano illuminate dai lampioni rettangolari che, fluttuando in aria, illuminavano le piccole strade e controllavano che fosse tutto nella norma. Di solito, questi piccoli robot rimanevano attivi fino alla mezzanotte, lasciando che fossero solo i lampioni fissi e ancorati ai marciapiedi a illuminare il cammino.
Haruka non aveva mai smesso di parlare del suo allenamento e di quello che era successo durante tutto il tragitto, con quella sua solita allegria ed esuberanza che non l’aveva abbandonata mai. Oikawa l’aveva ascolta, sorridendo, il borsone della figlia – e che una volta era il suo – tenuto ben saldo sulle spalle. Cercava, come al solito, di non farle sentire il peso di quella difficile situazione, il peso del suo dolore. Lo stava già sostenendo Iwa-chan, non voleva che soffrisse anche la sua amata figlia a causa sua.
Tooru, però, non aveva fatto i conti con la perspicacia e l’intelligenza di Haruka, la stessa bambina che l’aveva accolto a braccia aperte dopo che lui si era fatto la doccia. Ancora si chiedeva come diavolo avesse aperto quella porta, a soli due anni.
«Kawa, tutto bene?» chiese, rendendosi conto che forse aveva straparlato troppo e che suo padre, per tutto il tempo, non aveva spiccato parola.
L’uomo parve cadere dalle nuvole. «Sì, perché pensi che c’è qualcosa che non va?»
La ragazza arricciò le labbra, abbassando appena gli occhi, pensierosa. Li rialzò solo dopo una manciata di secondi. «Stai pensando alla zia Hoshi… vero?»
Si fermò di botto, lo sguardo fisso davanti a sé e perso nel vuoto. Non stava osservando niente di particolare, era solo concentrato sui suoi pensieri, eppure Haruka giurò che non avrebbe mai più dimenticato quell’espressione. I suoi padri facevano di tutto per nascondere quello che provavano veramente, abbozzando un sorriso anche nei momenti più duri, cercando di non smorzare mai il suo entusiasmo. Oikawa non aveva mai smesso di starle accanto, di sentire quello che aveva da dire quando lei lo aspettava davanti alla porta del bagno, un rito che avevano fin da quando lei era più piccola. Aspettava che finisse la doccia, e poi parlavano.
Tuttavia, sapeva quanto si odiasse, in questo momento, e Haruka non poteva fare a meno di sentirsi una perfetta egoista. Insomma, perché essere felici se tutti attorno a lei soffrivano?
Continuò a tenere lo sguardo fermo su quell’espressione seria, triste, piegando poi il collo verso il basso. «Mi dispiace…»
Il castano parve riscuotersi dai suoi pensieri solo in quel momento. «Come…?» Rimase un attimo in silenzio, rielaborando quello che aveva detto la figlia. «Perché ti stai scusando?»
«Perché tu e Zumi state soffrendo e io… Io mi sto comportando come un’insensibile.» Attimo di pausa. «Anche io sono preoccupata per la zia, anche io ho paura, eppure non faccio altro che sorridere. Dovrei… dovrei essere angosciata anche io, no?»
«Haruka – le pose i palmi aperti sulle spalle –, non è certo vedendoti triste che aiuterai me e Iwa-chan. Noi… ti siamo grati per essere sempre così allegra, non sai quanto questo ci faccia stare bene.» Aveva la voce incrinata, mentre parlava, i pollici che passavano sotto gli occhi della figlia, gli zigomi appena umidi. Senza la spensieratezza di Haruka sarebbe impazzito. «E poi, la zia vorrebbe che tu l’accogliessi con un bel sorriso, al suo ritorno, non credi?»
La giovane rimase un attimo a riflettere sulle parole del padre, prima che un lievissimo sorriso facesse capolino sulle sue labbra scure.
«Ecco, un sorriso come questo, ma più luminoso!» disse il genitore, facendola sorridere ulteriormente.
Si accoccolò contro il corpo del padre, le braccia che andavano a cingere la vita, chiudendo gli occhi e respirando profondamente. «Papà, lo sai che ci sono quando ne hai bisogno…» disse, e suonava più come un’affermazione che come una domanda.
Oikawa non disse niente per un po’. «Lo so.»
«Ti voglio bene.»
«Anch’io te ne voglio.»
E all’improvviso, una voce a loro ben nota, interruppe quel magico momento tra padre e figlia: «Un attimo, che succede qui? Che mi sono perso?»
I due si voltarono verso la stessa direzione. «Zumi!» esclamò Haruka.
Hajime li stava squadrando, perplesso, capendo immediatamente cosa fosse successo, l’espressione di Oikawa parlava chiaro. Alla fine, non era riuscito a nascondere del tutto la sua sofferenza alla figlia.
«Aspetta, ti do una mano!» continuò la ragazza, prendendo un paio di sacchetti che il genitore teneva in entrambe le mani.
«Hai fatto la scorta per un esercito, Iwa-chan?» lo canzonò il castano, avvicinandosi a lui, il suo classico sorrisetto beffardo che gli incurvava le labbra.
Hajime non disse niente, continuando a squadrare quell’espressione irritante – e studiata, ovviamente – con un certo cipiglio, prima che Oikawa calasse le labbra sulle sue, in un bacio a fior di labbra su cui indugiarono per un po’. I baci di Iwaizumi, il tocco delle sue dita sulla sua schiena e sui fianchi, le lieve carezze che gli scompigliavano i capelli erano l’unica cosa che riuscivano a rilassarlo, a scacciare tutta la tensione che gli si appiccicava addosso.
«Mi sei mancato…» soffiò poi sulle sue labbra, Haruka che li fissava, dondolandosi sui talloni. Sorrideva compiaciuta e i sacchetti di carta sbattevano contro le sue gambe.
Iwaizumi aspettò un attimo prima di parlare, il viso di Oikawa a due centimetri dal suo. «Ho comprato le cose che servono per la cena di stasera.»
«Ma non avevi già deciso che cosa preparare, Iwa-chan?»
«Ho cambiato idea» disse. «E poi, abbiamo degli ospiti.»



 
ATTO SECONDO




Oikawa non aveva idea di chi fossero suddetti ospiti, e quando Iwaizumi gli disse che si trattava di Hinata e Kageyama, Haruka per poco non fece i salti di gioia. Non capitava spesso che potesse vedersi con Selene, visto che lei frequentava l’intenso corso di tirocinio per diventare infermiera.
Arrivati a casa, la ragazza salì immediatamente al piano di sopra, con l’intenzione di farsi una doccia e mettersi qualcosa di decente. Oikawa e Iwaizumi, intanto, si erano spostati in cucina per parlare.
«Li hai invitati tu?» chiese il castano, mentre fissava Iwaizumi che cominciava a cucinare. Aveva un che di ipnotico.
«Sì.» Rimase un attimo in silenzio. «Ma sono stati loro a chiamarmi. Hanno detto che hanno bisogno di parlare con noi due.»
«Di che cosa?»
«Non lo so. Sono stati abbastanza vaghi... Il che è strano.»
Oikawa abbassò gli occhi, pensieroso. «Non ti va di averli qui in casa nostra?» chiese poi Iwaizumi, notando il suo repentino cambio d’umore.
Il ragazzo abbozzò un sorriso forzato. «Sai benissimo che sono sempre in lotta con il mio kohai, Iwa-chan. Anche se non corro più.»
«Lo dico perché so quanto sei nervoso, in quest’ultimo periodo...» I suoi occhi ebbero un guizzo e si posarono su quelli color cioccolato dell’altro. «Hai bisogno di distrarti, Tooru. Haruka non può vederti così. Io non posso vederti così.»
«Lo sai che sei carino quando ti preoccupi per me?» disse, sorridendogli e abbracciandolo da dietro.
«Guarda che sono serio, Shittykawa.»
«Lo so... Come so che mia figlia sente il peso di una responsabilità che non ha...» Posò la fronte contro la spalla del ragazzo, espirando a fatica. Gli pizzicavano gli occhi. «Mi manca Hoshi...»
«Anche a me manca... Manca a tutti...»
«Ho paura, Hajime...»
Il ragazzo si girò, e Oikawa fu costretto a spostarsi dalla sua posizione. Gli occhi color smeraldo di Iwaizumi erano serissimi.
Non disse niente, perché in questi casi il silenzio è un ottimo compagno, ti stringe la mano e riempie quel vuoto causato dall’angoscia. Iwaizumi lo sentiva ancora, il vuoto che aveva lasciato Haruka – la sua sorellina –, un cratere che occupava tutto il suo organo vitale. Sapeva benissimo come si sentiva Oikawa in questo momento, gli organi che pian piano venivano usurati dal senso di colpa, il vuoto che lo avvolgeva come una bolla di plastica e l’opprimeva. L’unica cosa che Hajime poteva sperare era che Hoshi fosse ancora viva. Non era sicuro che Oikawa avrebbe sopportato la sua perdita. E lui non era sicuro di poter sopportare l’idea di vederlo stravolto dal dolore. Lui e Haruka erano l’unica ragione per cui non rimpiangeva quello che aveva lasciato sulla Terra. Per cui non rimpiangeva di aver lasciato il corpo della sua sorellina.
L’abbracciò, passando le dita tra i suoi capelli castani, producendo un profondo sospiro. Oikawa, intanto, aveva preso a singhiozzare sommessamente. «Andrà tutto bene…» gli sussurrò a un orecchio, proprio come faceva alla piccola Haruka quando la tempesta rossa arrivava e spazzava via tutto quanto.
Non avrebbe mai dimenticato quel faccino terrorizzato e solcato dalle lacrime. E la stessa espressione l’aveva Oikawa proprio in quel momento, mentre lui gli passava i pollici sugli zigomi arrossati.
Murakami Haruka era stata la sua forza per tantissimi anni, eppure non era riuscito a fare niente per salvarla.
Oikawa Tooru era la sua forza da quando l’aveva incontrato, in sogno, e questa volta avrebbe fatto di tutto per evitare di perdere anche lui.
Sentirono suonare al campanello, Oikawa che si affrettò ad asciugare le sue lacrime e a ricomporsi. Non gli andava proprio che quei due lo vedessero in quelle condizioni.
«Vado io!» urlò Haruka. Alla fine, aveva optato per una tuta bianca e celeste, con la maglietta dello stesso colore. «Selene!» esclamò subito, gettandosi tra le braccia della ragazza e ostruendo il passaggio ai due genitori.
«Quale onore avervi tra le mura della mia umile dimora!» esclamò Oikawa, arrivato proprio in quel momento assieme a Iwa-chan, cercando di nascondere gli occhi ancora lucidi.
«Grazie a voi per averci invitati» disse Hinata, mentre Haruka aveva già trascinato Selene dentro casa. «Abbiamo pensato di ricambiare il favore e abbiamo portato i panetti dolci.»
I panetti dolci erano un po’ diversi da come se li ricordava Iwaizumi: avevano una bizzarra forma, sembravano quasi dei piccoli coniglietti, e all’interno sapevano di limone. A quanto pare, su Sibun erano una rarità e costavano un occhio della testa.
«Non dovevate disturbarvi!»
«Oh, invece dovevano!» disse Oikawa, che senza alcuna dignità aveva afferrato il vassoio che teneva in mano Tobio. Prese in mano un panetto e lo morse per testarne il sapore. «Okay, sono buoni, potete accomodarvi!»
«E poi sarei io quello dai modi rudi? Chiedi scusa immediatamente!» disse, mollando un calcio sul sedere a Oikawa, che si allontanò in tutta fretta. Aveva ancora il vassoio tra le mani.
«Non picchiarmi, Iwa-chan!» pigolò, sotto lo sguardo basito delle due ragazze, sedute sul divano, in salotto.
«Scusali» disse subito Haruka. «Fanno sempre così...»
«Figurati! I miei genitori fanno anche di peggio!»
«Come?» chiese Kageyama alle loro spalle, facendo sussultare la povera Selene.
«Niente, papà, non stavo parlando di te!» disse, rossa in viso, e Haruka non poté che scoppiare a ridere.
«Bakeyama, vedi di non rimproverare così tua figlia!»
«Ma parla male di noi alle nostre spalle!»
E mentre quel siparietto sembrava non dovere avere fine, Haruka si era girata verso i suoi genitori. Oikawa aveva infilato un panetto in bocca a Iwaizumi, che lo guardava con astio, mentre l’altro sorrideva. E si rese conto di quanto le mancasse quel sorriso.




La cena proseguì tranquillamente, tranne per i battibecchi che si scambiarono diverse volte Kageyama e Oikawa, che veniva sempre rimproverato da Iwaizumi. Le due giovani avevano raccontato delle loro giornate, e Haruka non mancò di far sapere quale mirabolante impresa aveva compiuto quel pomeriggio, sotto lo sguardo basito dei due piloti della Karasuno e di Hajime.
Fu una serata piacevole, fino a quando non arrivò il momento di parlare del motivo per cui avevano chiamato Iwaizumi. Si spostarono in salotto, mentre Iwaizumi aveva chiesto a Asimo di lavare i piatti al posto suo. C’era tensione nell’aria, era pienamente percepibile. Selene si era seduta tra i suoi genitori, stringendo la mano di Hinata con forza, la testa china.
«C’è del tè freddo, se lo gradite...» disse Haruka, portando un vassoio con dei bicchieri ghiacciati.
Nessuno rispose. La ragazza cominciò a preoccuparsi, mentre fissava l’amica.
«Da un po’ di tempo faccio degli strani sogni...» sbottò poi, lasciando tutti di stucco.
Haruka spostò subito lo sguardo sui suoi genitori. Oikawa aveva deciso di abbandonare l’ennesimo panetto, concentrandosi esclusivamente sulla figura di Selene. Stringeva le palpebre con forza, quasi come se avesse paura che, riaprendole, quelle immagini orribili le sarebbero comparse davanti. Tooru sentì la mano di Iwaizumi che stringeva la sua, mentre la loro adorata figlia gli si sedeva accanto.
«Perché non me l’hai detto subito...?» chiese.
«Perché non volevo allarmare nessuno! Volevo essere certa che non fosse solo una cosa passeggera!» Esitò un attimo. «Ma i sogni si sono fatti sempre più intensi...»
«Sogni un’altra persona?» chiese Oikawa, e si ritrovò vittima di uno strano dejà vu. Molti anni prima era stato lui al posto di Selene.
La ragazza alzò lo sguardo, gli occhi che parevano due pezzi di ghiaccio. «No...» esalò. «Sono sempre immersa dentro l’acqua, come se fossi in un enorme lago terrestre...» E nel dirlo spostò lo sguardo su Iwaizumi. «Vedo delle immagini, persone disperate e che chiedono aiuto... E poi mi afferrano per le braccia e per le gambe, non riesco a respirare...»
Cominciò a tremare, la mano di Kageyama che le accarezzò delicatamente la schiena.
«Nient’altro?» chiese Iwaizumi.
«Nient’altro. Semplicemente, mi sveglio.»
«Queste persone sono terrestri?» chiese Haruka. Conosceva tutta la storia dei suoi genitori e del loro legame attraverso i sogni. Gliela avevano raccontata qualche anno fa, assieme alla storia di come l’avessero incontrata.
«No. Sono Sibuiani.» Quell’affermazione fece raggelare tutti sul posto. «Ma vedo anche altre figure... Una in particolare ha gli occhi simili a quelli di un serpente...»
«Un... serpente?» chiese Haruka.
«É un animale terrestre» spiegò Iwaizumi, girandosi poi verso la figlia. «Tu eri troppo piccola per ricordarlo.»
«Da quando sono iniziati questi sogni?» chiese Oikawa, serio.
«Da tre mesi... Più o meno da quando sono scomparsi i Ricercatori...»
Calò un silenzio quasi tombale, prima che Oikawa si alzasse e mormorasse un: “Cazzo”, rivolto alla finestra.
«Avresti dovuto dirlo immediatamente, Selene!» aggiunse.
«Ehi!» Kageyama si alzò in piedi, rivolto verso il suo ex-senpai. «Mi sembra che abbia già detto che non voleva allarmare nessuno!»
«Questa non può essere una coincidenza, Tobio!» urlò l’altro, di rimando. «Quelle persone potrebbero essere in pericolo! Mia sorella potrebbe essere in pericolo!»
Un singhiozzo prodotto da Selene si levò per la stanza silenziosa, mentre Oikawa continuava a fissare in cagnesco Kageyama, ma senza che nessuno dei due avesse più niente da dire.
«Hai riconosciuto alcuni dei visi dei dispersi, Selene?» chiese, pacatamente, anche se la sua voce aveva una nota stanca.
«No, non riuscivo a vedere bene... Ho solo riconosciuto le tute. E poi c’erano tanti visi diversi, non sembravano di nessun mondo che conosco...» Un altro singhiozzo. «Mi dispiace tanto, Oikawa-san.»
«Dimmi di più» chiese il castano con urgenza, ma a interromperlo fu Iwaizumi.
«Aspetta, che significa che sogni delle persone che non sembrano né terrestri né Sibuiani? Vuol dire che c’è un altro popolo?»
La ragazza rimase un paio di minuti in silenzio, prima di annuire. «Forse più di uno. I volti che vedo… non sembrano appartenere alla stessa razza…»
Hajime avrebbe voluto chiederle che cosa intendesse con quell’affermazione, ma Oikawa lo precedette. «Selene, dimmi di più! Hai per caso visto mia sorella nei tuoi sogni?»
La ragazza si strinse nelle spalle, avvolta dalle piccole braccia di Hinata, che aveva alzato lo sguardo su quello stralunato di Oikawa. Sembrava fuori di sé. L’ultima volta che l’aveva visto in quelle condizioni si era presentato alla scuderia per chiedere l’aiuto di Ukai-san.
«Ha già risposto, Oikawa-san! Adesso basta con questo interrogatorio, siamo venuti qui per chiedere il vostro aiuto!» intervenne Kageyama, afferrandolo bruscamente per una spalla. Il castano non lo stette neanche a sentire.
«Selene, ti prego, cerca di sforzarti a ricordare!»
«Tooru, finiscila, non è il caso che tu la faccia spaventare così!»
Iwaizumi si alzò, cercando di allontanarlo dalla ragazza, inutilmente. Sembrava ancorato al terreno.
«Ti prego, dimmi che hai visto mia sorella!»
«Tooru, ti ho detto di smetterla!»
«Selene, parla!»
«ADESSO BASTA, PAPA’!»
Oikawa sembrò tornare lucido solo quando sentì la voce della figlia che gli urlava contro. Si girò lentamente verso di lei, trovandola in piedi: aveva il labbro inferiore tenuto tra i denti e le guance bianche segnate dal pianto. Scostò una ciocca castana dal viso, guardandosi intorno e incontrando le più svariate espressioni. Andavano dall’arrabbiato al preoccupato. Soprattutto quella di Iwaizumi. Neanche nelle situazioni più sgradevoli l’aveva mai visto così preoccupato.
Abbassò gli occhi su Selene, che biascicava parole incomprensibili e che, il più delle volte, volevano essere un modo per scusarsi con il padre della sua migliore amica. Respirò a tentoni, come se avesse preso finalmente coscienza del suo corpo, della sua consistenza e del suo peso. Come se avesse realizzato solo adesso di trovarsi nel salotto di casa sua, la casa che lui e Iwaizumi avevano comprato anni prima. Deglutì. Alla fine c’era riuscito: il senso di colpa l’aveva logorato del tutto e aveva preso possesso delle sue facoltà.
Abbassò lo sguardo, colpevole, recandosi verso le scale che portavano al piano di sopra. Non ebbe il coraggio di guardare in faccia nessuno, nemmeno le due persone che amava più di qualsiasi cosa nell’universo.




Iwaizumi si scusò un centinaio di volte con i suoi ospiti, in particolare con Selene. Le sue crisi di pianto si erano placate dopo che le avevano dato un bicchiere d’acqua fresca e Haruka si era seduta accanto a lei, sorridendole, proprio come farebbe una brava sorella maggiore.
Tra i due, quello più diplomatico fu Hinata, che cercò di placare gli animi del povero Iwaizumi, dicendogli che non doveva preoccuparsi e che forse avevano preteso troppo da loro. Del resto, nessuno vorrebbe essere nei panni di Oikawa, probabilmente anche Hinata sarebbe impazzito se avesse perso sua sorella. Kageyama, invece, non disse niente. Era rimasto in silenzio per tutto il tempo da quando Oikawa era salito nella stanza da letto, e fu lì che lo trovò Hajime.
Era disteso sulla sua porzione di letto, avvolto dalle coperte. Per un attimo, temette che non stesse respirando, tuttavia parlò non appena sentì le molle del letto cigolare sotto il peso di Iwaizumi. «Haruka mi odia… vero?»
Dopo che l’amica se n’era andata, Haruka aveva cancellato quel viso materno che le serviva per consolarla ed era salita in camera sua, salutando appena il genitore. Non l’aveva neanche aiutato a sistemare casa, cosa che di solito faceva ben volentieri. E Iwaizumi sapeva che non doveva utilizzare Asimo per fare delle cose così meschine, eppure gli chiese ugualmente di fargli sentire cosa succedeva nella camera della figlia. Asimo era dotato di altoparlanti e microfoni, utili per poter comunicare da una parte all’altra della casa. O, come in quel caso, per poter spiare la propria figlia nella sua stanza.
Era passato accanto al pannello che serviva per aprire la porta e aveva azionato l’altoparlante. Sua figlia stava piangendo. Era un pianto sommesso e appena udibile, ma Iwaizumi avrebbe giurato che Haruka stesse piangendo. E si sentì morire proprio in quel momento.
L’idea era quella di entrare e consolarla, magari distendersi accanto a lei, tuttavia sarebbe stato inutile. Haruka non piangeva perché si era spaventata o perché era dispiaciuta per l’amica. Forse un po’ sì, ma la verità era che stava piangendo per suo padre. Perché, per la prima volta da quando quella storia era iniziata, aveva visto la vera sofferenza di Oikawa.
Produsse un profondo sospiro dal naso. «Tu sei l’ultima persona che nostra figlia potrebbe mai odiare» rispose.
Tooru tirò su col naso e Hajime intuì che anche lui stesse piangendo. Non era sua intenzione reagire in quel modo o trattare l’amica di sua figlia come se fosse un’indiziata, ma non appena aveva sentito che sua sorella poteva essere in pericolo, tutto era andato in cortocircuito nel suo cervello.
«La voglio salvare, Hajime...» disse, la bocca impastata di saliva. «Lei mi ha salvato tante di quelle volte...»
«Hoshi non ti ha mai chiesto di ricambiare il favore...»
«Lo so... ma per una volta non credi che sia compito mio fare qualcosa per lei?»
Tooru si era messo seduto e si stavano guardando negli occhi. I suoi erano colmi di lacrime e determinati, gli zigomi arrossati e bagnati. Iwaizumi ci passò il pollice sopra con delicatezza, sentendo quanto la sua mano fosse ruvida al contatto con quella pelle morbida.
I fratelli maggiori sarebbero disposti a dare la vita per i loro fratellini o sorelline.
I fratelli minori salvano la vita dei loro fratelli o sorelle un centinaio di volte, anche con piccoli gesti di vita quotidiana.
E Hajime questo lo sapeva bene. Non sarebbe su Sibun altrimenti.
Avvicinò le labbra a quelle dell’altro. Le premette con forza ma non con irruenza, come a voler trasmettere tutto il suo sostegno all’altro. Nuove lacrime bagnarono il volto di Tooru e Hajime le sentì sulle labbra.
Quando si furono staccati, fu Oikawa a parlare, la fronte premuta contro quella dell’altro. «Stringimi.»



Dormirono stretti l’uno all’altro, le braccia di Hajime avvinghiate al busto di Tooru. O almeno, tentarono di dormire. Come quasi ogni notte, Hajime ebbe gli incubi e si svegliò più di una volta, rendendosi poi conto che non era più sulla Terra, ma stretto tra le braccia della persona che amava. Gli lasciò piccoli baci sulla spalla, sul collo o dietro l’orecchio, per poi riaddormentarsi.
Tooru, invece, rimase con gli occhi spalancati, stringendo con forza le mani di Iwa-chan ogni volta che scattava sul letto, sorridendo ai suoi baci sul suo corpo.
Non avevano fatto l’amore, eppure era così confortevole stare tra le sue braccia...
Un altro incubo, Hajime che spalancò gli occhi per lo spavento, strozzandosi con la sua stessa voce. Questa volta, Oikawa fu costretto a girarsi e a sciogliere l’abbraccio. «Hajime, guardami, sono io!»
Il ragazzo lo guardò, confuso. «Do... Dov’è Haruka?»
Oikawa deglutì con forza, prima di rispondere. Sapeva che non stava parlando della loro Haruka. «Lei... Sta bene, Hajime... Si trova in un bel posto.»
L’altro annuì, ancora intontito, affossando la testa sul cuscino. Mormorò un sommesso: “Ti amo”, che fece intenerire il castano. Gli diede un lieve bacio sulla fronte, prima che la sua espressione tornasse a farsi cupa.
Hajime non era l’unico ad avere gli incubi. Oikawa sognava ancora il momento in cui l’aveva trovato disteso su una brandina nella navicella da lui progettata, solo che non si risvegliava. Tuttavia, gli incubi di Hajime erano troppo intensi, troppo simili alla realtà. Oikawa si chiedeva spesso come riuscisse a sopportare tutto quel dolore e a sorridere al tempo stesso.
Quando la loro piccola Haruka era scomparsa, vittima di una tempesta di neve che si abbatteva ogni cento anni su Sibun, Hajime aveva pianto contro la sua spalla. Esattamente come fa un bambino piccolo. Perché si sentiva ancora in colpa per ciò che aveva fatto, perché era per colpa del suo egoismo se Haruka non era partita.
E aveva pianto anche contro il corpo di sua figlia, ancora intorpidito dal freddo, dopo che l’avevano trovata e si era risvegliata.
Oikawa non era sicuro di riuscire a contenere così tanto dolore dentro di sé. Sarebbe scoppiato, esattamente come aveva fatto qualche ora prima, ferendo chi l’amava veramente.
Scese dal letto, cercando di fare meno rumore possibile, in modo da non svegliare di nuovo Hajime. Decise di passare dalla stanza della figlia, per vedere come stesse. Era abbracciata al suo cuscino, la bocca appena spalancata e gli zigomi arrosati. Oikawa le accarezzò delicatamente il volto. «Scusami…» mormorò, per poi stamparle un bacio sulla guancia. La ragazza strinse appena gli occhi, ma non li aprì.
Salì in terrazza e la brezza di quella sera lo investì completamente. Aveva dimenticato di prendere una giacca per potersi coprire. Si sedette sul cornicione, le gambe che penzolavano nel vuoto, respirando a pieni polmoni. Gli piaceva stare lì, circondato da piante in fiore e dai rampicanti. Di solito, si portava dietro un block-notes e buttava giù qualche schizzo di ciò che vedeva. Era un modo per liberare la mente, per evadere dalla vita reale, una vita fatta dai soprusi di Rokuro.
«Se Hoshi fosse qui direbbe che mi sto comportando come un bambino viziato» disse tra sé e sé. Fece una risata amara. «Direbbe che non ho di certo bisogno di lei, ho tutto quello che mi serve qui!»
Eppure Hoshi c’è stata quando ne avevo più bisogno…
Due lacrime silenziose gli percossero gli zigomi e le guance. Hoshi era stata, per lungo tempo, l’unica ad averlo sostenuto e ad averlo appoggiato, ancor prima che diventasse un pilota acclamato dalla gente. Hoshi aveva deciso di mettersi contro suo padre per salvare lui, con cui non condivideva nessun legame di sangue. Lei c’era stata prima dell’arrivo di Iwa-chan e Haruka…
E all’improvviso, l’immagine di Iwaizumi gli apparve davanti agli occhi; non un’immagine qualunque, ma l’esatto momento in cui l’aveva incontrato per la prima volta, gli occhi spalancati e stregati da quel meraviglioso spettacolo, un gioco di luci e ombre che segnava il suo viso. Non seppe per quale ragione ricordò quel momento proprio allora, ma seppe solo che smise immediatamente di piangere. Si asciugò le lacrime, ancora frastornato, prima che uno strano rumore lo facesse sobbalzare per lo spavento.
Era un rumore di qualcosa che si infrangeva contro il terreno.
Un lastra era appena caduta sulla Grande Piazza. Come… come diavolo ci era finita una lastra lì? Era precipitata dal cielo?
Indietreggiò in tutta fretta, dirigendosi verso il telescopio che Iwaizumi gli aveva regalato per il primo compleanno che avevano festeggiato assieme. «Per tutti gli universi…» mormorò, non appena si accorse che, effettivamente, una navicella si stava dirigendo a tutta velocità verso il Deposito.
«Asimo!» urlò, non appena scese al piano inferiore.
«Mi dica, padrone!»
«Chiama immediatamente il Centro di Comando e azione la modalità vivavoce!»
«Come desidera!»
Oikawa aprì la porta della stanza da letto con forza, svegliando Iwaizumi. «Cazzo, Oikawa, mi hai fatto prendere un colpo!» Lo osservò mentre cercava di infilarsi un paio di pantaloni puliti, gli occhi ancora assonnati. «Si può sapere che stai facendo…?»
Non ricevette risposta, poiché la vocetta di una giovane si protrasse per tutta la stanza, segno che Oikawa aveva fatto chiamare qualcuno da Asimo. «Buonasera, qui è il Centro di Comando-»
La ragazza non riuscì a finire la solita solfa che propinava a chi chiamava quel numero, poiché Oikawa la interruppe, urlando: «Mi passi immediatamente Matsukawa Issei, è urgente!»
Dopo essersi ritirato dalle corse insieme a Oikawa, Matsukawa aveva preso il posto del padre alla guida del Centro. Non passò molto tempo prima che rispondesse. «L’hai vista pure tu?»
«È una delle nostre?»
«Ehi, si può sapere che sta succedendo qui?» sbottò poi Iwaizumi, che aveva cominciato già a vestirsi. Aveva intuito che stesse succedendo qualcosa di grave, doveva solo capire che cosa. «Di che state parlando?»
«Temo proprio di sì, ma nessuno risponde alla radio. Stiamo cercando di capire di chi potrebbe essere tramite il radar!»
«Almeno quello funziona!» disse, riferendosi al fatto che i radar delle navicelle scomparse non sembravano rintracciabili.
«Oikawa…» Matsukawa parlò con affanno, la voce che gli usciva in piccoli fiati.
«Cosa? Che c’è, Mattsun?»
«La navicella è quella di tua sorella…»
In quel momento, il tempo parve fermarsi. Le gambe di Oikawa non riuscirono più a reggere il suo peso e fu Iwaizumi ad afferrarlo per le spalle. I suoi occhi si velarono di una sottile patina lucida. «È viva…» sussurrò.
Si ricompose pochi secondi dopo, schiarendosi la voce. «Non fate nulla fino al mio arrivo! Conto su di te per l’atterraggio di fortuna, Issei!»
Il ragazzo non riuscì neanche a replicare, che Oikawa chiese ad Asimo di interrompere la chiamata, precipitandosi poi fuori dalla stanza. Iwaizumi lo seguì, con ancora la maglia del pigiama addosso, incontrando nel corridoio sua figlia. «Che succede? Dove state andando…?»
Si fermò giusto un attimo, giusto il tempo di spiegare quel poco che aveva capito. «La zia Hoshi è tornata… Stiamo andando a prenderla.»
Gli occhi verdi di Haruka si illuminarono. «Voglio venire anch’io!»
«No, tu resta qui, torneremo presto!»
La ragazza stava per opporsi, ma decise di dare retta al genitore, serrando la mascella e annuendo. L’ultima cosa che Hajime vide fu il colore bianco del pigiama di Haruka, prima di voltarsi e raggiungere Oikawa.




Arrivarono al Deposito qualche minuto dopo. Tooru aveva preso la macchina e l’aveva guidata ad altissima velocità.
L’intera popolazione aveva sentito lo schianto di alcuni pezzi della navicella sulla Base Area, milioni di luci che si accesero nel cuore della notte. Avevano mandato due navicelle che riuscissero ad agganciarsi a quella di Hoshi, e solo per fortuna non furono trascinate ad altissima velocità verso il terreno. Riuscirono a posizionarla dolcemente, ma lo sportello si era inceppato, per cui dovettero usare una squadra per aprirlo. Continuava a non rispondere nessuno, come se quella navicella fosse in realtà vuota.
Oikawa sperava che sua sorella fosse comunque viva. Sapeva che non avrebbe mai lasciato che la navicella atterrasse in picchiata se fosse stata mentalmente lucida. Attraversarono i lunghi corridoi della base a grandi falcate, arrivando poi sul punto dove si trovava la navicella.
«Ti avevo detto di non fare niente finché non fossi arrivato io!» disse, spintonando indietro Matsukawa e indicando gli uomini che stavano forzando la navicella.
«Allora avresti preferito che tua sorella morisse nel frattempo?»
Il castano strinse i pugni, osservando l’operazione di salvataggio da lontano.
Quei cinque minuti furono una vera agonia, e quando riuscirono a scardinare l’entrata gli parve di star sognando a occhi aperti. «Hoshi!» urlò, avvicinandosi alla navicella.
«Non dovrebbe entrare, Oikawa-san! Potrebbe essere pericoloso!» disse uno degli addetti.
«Oikawa, torna immediatamente qui!» sentì urlare a Issei, ma non stette ad ascoltarlo.
Passò in mezzo a cavi un po’ distrutti e penzolanti, a pezzi di navicella staccati, stringendo gli occhi nel vano tentativo di individuare le forme degli oggetti. «Hoshi, mi senti?»
Non arrivò alcuna risposta.
Si avvicinò ai sedili del pilota e del copilota quasi col timore di essersi sbagliato, che avrebbe aperto gli occhi e avrebbe cominciato a urlare, e a quel punto ci sarebbero state le mani di Iwaizumi a stringerlo forte e a placare le sue paure. Ma quello non era un sogno, quella era la dannata realtà, e c’era una persona al posto del copilota, un ragazzo che Oikawa non aveva mai visto in vita sua.
Quella era la dannata realtà e la persona seduta al posto del pilota non era sua sorella. Oikawa non l’aveva mai vista in vita sua.



 
____

 
 
Domande?
In realtà, non ce ne sono moltissime da porre in questo primo capitolo, a parte la fatidica domanda: n’do cazzo sta Hoshi? (che tradotto sarebbe: “Dove diavolo è finita la nostra Hoshi?”). Avrete tutte quante le risposte nel prossimo capitolo, non temete. E preparate i fazzoletti, perché in questa storia ci sarà tanto, tantissimo angst. Vi ho avvisati.
Per il resto, BENTORNATI A TUTTI COLORO CHE HANNO SEGUITO QUESTA SERIE DI STORIE! ♥♥
Diciamo che la storia mi è venuta in mente – più o meno – dopo Like an Astronaut, aspettavo solo il contest per buttarla giù e pubblicarla :3
I nostri Oikawa e Iwaizumi sono cresciuti, sono sposatissimi, e anche la nostra Haruka è diventata più grande. Also, per chi non conoscesse Selene, l’ho citata una volta in una storia di questa raccolta. Comunque, è la migliore amica di Haruka e la figlia adottiva di HinataKageyama (come li chiama mia sorella *la menano*).
Oh, ora che ci penso, alcune domande ci sono!
Come mai Selene sogna i Ricercatori? Uno, lei non sogna solo i Ricercatori, ma anche altri tizi strani e tutti diversi (chissà chi sono); due, lei è una terrestre, fondamentalmente. Ha solo origini Sibuiane. Quindi, in teoria, è come se i Ricercatori facessero parte di un’altra razza.
(sì, ditelo, sto trovando giustificazioni a caso…)
Che intende Oikawa quando dice che Haruka è rimasta vittima di una tempesta? Cito lievemente una storia che avrei dovuto scrivere prima di questa ma, purtroppo, non ci sono arrivata con i tempi. Vi dico qualcosa sulla trama molto velocemente: su Sibun si abbatte una tempesta ogni cento anni, chiamata Jack, per cui gli abitanti sono costretti a ripararsi nell’unico luogo sicuro, il Palazzo Zima. Per una serie di problemi, Haruka rimane vittima della tormenta. Saranno Oikawa e Iwaizumi a salvarla.
Come mai questo prompt? I problemi di comunicazione non sono solo quelli tra la navicella di Hoshi, che sta precipitando e loro non riescono a contattarla, ma anche tra Oikawa e il modo circostante. Come se nessuno capisse veramente come si sente... (altre scuse inutili...)
AVVISO IMPORTANTISSIMO: non sono sicura di riuscire ad aggiornare con regolarità, causa impegni universitari e un romanzo da scrivere :’)
State tranquilli che comunque, anche se il contest dovesse finire, la storia verrà aggiornata lo stesso <3 
Voglio inoltre mandare un bacione fortissimo alla mia kohai, che oggi compie gli anni. Spero che la sorpresa ti sia piaciuta! ♥
Ci si vede, pirati spaziali!
_Lady di inchiostro_ 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Iniziativa: Questa storia partecipa allo “Sci-Fi Fest” a cura di Torre di Carta e Fanwriter.it!
Numero Parole: 5812
Prompt/Traccia: Balene spaziali (usato al singolare)




 
CAPITOLO SECONDO



~




ATTO PRIMO







Era appoggiato alla parete verde pistacchio da… Quanto tempo? Probabilmente da tre ore e trentasei minuti.
Aveva visto le prime luci del mattino filtrare attraverso le piccole finestre, ma non ci aveva prestato molta attenzione, in fondo. Il suo sguardo era concentrato sulle mattonelle bianche che aveva sotto le scarpe. Ogni tanto ne toccava una con la punta della scarpa sinistra, sperando che qualche strambo innesco si azionasse e lo facesse ripiombare nel suo letto, stretto tra le braccia di Iwa-chan. Ma, come aveva potuto costatare da tre ore e trentasette minuti, non sarebbe servito a niente, poiché quella era la realtà. La dannatissima e bruttissima realtà.
«Tooru?» La voce di Iwaizumi che lo chiamava era simile a un sussurro. I suoi occhi verdi erano stanchi, mentre quelli di Oikawa erano rimasti spalancati per tre ore e trentotto minuti, a fissare le mattonelle bianche. «Ti ho preso il tè. Lo volevi con il limone, giusto?»
Il castano annuì quasi per inerzia, afferrando il bicchierone di plastica. Aveva una fascetta verde scuro che lo ricopriva e sopra c’era stampato il logo del bar di fronte all’ospedale. Da quello che ricordava, quello spazio era sempre rimasto vuoto, finché un terrestre non aveva deciso di comprarlo per farci, appunto, un bar. Fissò quel logo come se non l’avesse mai visto in vita sua, sorseggiando poi un po’ del suo tè e tornando a scrutarlo poco dopo.
Iwaizumi non gli aveva mai tolto gli occhi di dosso. «Non ero in questo stesso reparto, vero?» disse, riferendosi a quando era stato ricoverato tanti anni prima per via di un tumore ai polmoni.
Oikawa mugugnò qualcosa che, in teoria, doveva essere un’affermazione, i denti che mordicchiavano il bordo del bicchiere. Hajime poteva percepire il profumo di limone anche da lì.
Abbassò lo sguardo. Non si erano scambiati una parola da quando Oikawa, con voce un po’ rotta, aveva chiamato Matsukawa da dentro la navicella, dicendogli che c’erano dei feriti. E che nessuno di questi era sua sorella. Si trattava di due individui il cui aspetto pareva umanoide, se non fosse che la pelle di uno dei due era grigio chiaro, come le acque di Sibun. Si erano recati in ospedale, in attesa che i due si riprendessero, mentre Matsukawa era rimasto al Centro di Comando, poiché doveva fare rapporto. E in quel lasso di tempo, in quelle tre ore e quarantadue… no, anzi, quarantatre minuti, Oikawa non aveva più spiccicato parola. Iwaizumi sapeva benissimo che cosa gli stesse passando per la testa in quel momento: si stava di certo chiedendo perché ci fossero due individui sconosciuti a pilotare la navicella di sua sorella, dove si trovasse, se stesse bene e fosse ancora viva. Ma soprattutto, si stava sicuramente chiedendo chi diavolo fossero quei due e da dove venissero. Come tutti sul pianeta, da quando la notizia si era diffusa.
Un rumore di passi li riscosse entrambi, voltandosi verso le figure che, piano piano, si stavano avvicinando verso di loro. Riconobbero immediatamente Haruka, in testa al gruppo; di fianco a lei c’era Selene, i capelli biondi completamente sciolti e scompigliati, e dietro c’erano Hinata e Kageyama.
«È vero?» disse subito Haruka, dopo essersi fermata e aver ripreso fiato. «È vero che non c’è alcuna traccia della zia Hoshi?»
Oikawa non rispose. Non aveva neanche il coraggio di guardare negli occhi sua figlia. Fu Iwaizumi a parlare. «Sì…»
«Ed è vero che sono arrivate qui due persone sconosciute?»
«Sì.» Gli occhi verdi di Iwazumi si posarono su quelli celesti di Selene, che sobbalzò. «Pensiamo provengano da un altro pianeta.»
La ragazza abbassò il capo e arricciò le labbra, pensierosa. «Pensate – esitò – pensate che abbiano a che fare con i miei sogni?»
«È quello che mi auguro…»
Tutti spostarono la loro attenzione sulla figura di Oikawa, ancora con il bicchiere di tè quasi pieno. Puntò gli occhi su Selene, che fece un passo indietro mentre lui si avvicinava a lei. A frapporsi fu Kageyama, che fissava con astio il suo ex-senpai.
Tooru si morse l’interno della guancia prima di parlare. «Ti devo delle scuse, Selene…» Fece un pausa. «Le devo a tutti, in realtà.» E il suo sguardo si rivolse alla figlia, cui dedicò un piccolo sorriso. Gli angoli della sua bocca tremavano. Haruka si sentì in colpa per essersi arrabbiata, anche solo per un attimo, con suo padre.
«No-non si deve scusare, Oikawa-san!» disse la ragazza, uscendo dal suo nascondiglio.
Avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro, ma non ne ebbe l’occasione. Un’infermiera – anzi, per essere più precisi, la madre di Shouyou – si avvicinò a loro, un’espressione preoccupata a dipingerle il viso.
«I due pazienti si sono svegliati» disse, pacatamente, quasi come se stesse cercando le parole giuste per dire la successiva frase. «E chiedono di poter vedere il fratello di Hoshi-san.»





Quei due conoscevano sua sorella. Non sapeva né come né perché, ma la madre di Hinata aveva riportato le loro esatte parole. L’avevano chiamata Hoshi-san.
Oikawa attraversò il corridoio, diretto verso la stanza dei due pazienti, a grandi passi, seguito da tutti gli altri. Sembrava che quella stanza non dovesse arrivare mai, come se il corridoio si fosse allungato improvvisamente, seguendo un principio fisico di cui non era a conoscenza. Alla fine, però, arrivarono davanti la porta della stanza, l’infermiera che gli disse qualcosa che in verità non riuscì a sentire. La donna si limitò a salutare suo figlio e la sua famiglia e poi tornò alle sue faccende.
Passarono diversi minuti prima che Oikawa avesse il coraggio di aprire la porta. Gli tremavano le mani. Aveva un’espressione simile a un individuo sotto l’effetto di qualche strano farmaco. Fu la voce di Iwaizumi che lo chiamava, come sempre, a dargli la forza di premere il pulsante di apertura.
La stanza era verde pistacchio, esattamente come il corridoio di prima, e quelle quattro mura infondevano una sensazione di pace e tranquillità. Non c’erano troppi macchinari, solo due flebo attaccate al braccio dei due visitatori.
Il tizio con la pelle grigia mugugnò qualcosa. «Tu devi essere il fratello di Hoshi-san, vero? Tooru-san, giusto?»
Aveva una voce profonda, i capelli bianchi che gli ricadevano davanti al viso, gli occhi color ambra. Si era rivolto proprio a Oikawa, le cui labbra erano diventate una linea sottile.
«Sì» affermò, anche se la sua voce aveva assunto una sfumatura diversa. Sembrava come se qualche corda vocale si fosse rotta e, adesso, gli facesse produrre un verso strano. «Posso sapere i vostri nomi, invece?»
L’uomo strinse le palpebre e cercò di mettersi seduto, seppur con fatica. Fu Selene a intervenire e a dargli una mano. «Non dovrebbe sforzarsi…»
Le fece un piccolo sorriso e la ragazza arrossì, ma non si ritrasse.
Poi, finalmente, l’uomo parlò, a nome suo e del ragazzo disteso di fianco a lui, che aveva assistito all’intera scena in completo silenzio. «I nostri nomi sono Griseo – indicò la sua persona – e Horus. Siamo venuti qui usando la navicella di sua sorella.»
«Questo lo so… Voglio sapere come ve la siete procurata e come diamine fate a conoscere mia sorella!»
«Perché si trova su Cosmos.» Tutti si voltarono verso il ragazzo disteso sul lettino. Aveva un braccio fasciato, probabilmente per via di una ferita che si era procurato durante l’atterraggio, e gli occhi di una forma strana. A Iwaizumi ricordavano gli occhi di un falco che, quando era bambino, aveva visto dietro il vetro di uno zoo. «Il posto da cui noi proveniamo.»
«Cosmos…?» Haruka inclinò appena la testa di lato. «Si tratta di un pianeta?»
«Lo era» disse Griseo. «Hoshi-san si trova sulla navicella che riporta il nome del nostro pianeta natio, dopo che l’abbiamo abbandonato.»
Un’immagine, un flash. Qualcosa che Selene credeva di aver cancellato, ma che invece era ancora ben nitida nella sua mente. Doveva solo cacciarla fuori dal suo subconscio. Una marea di persone, tutte diverse tra di loro, salivano su una navicella enorme, mentre il terreno attorno e sotto i loro piedi era arido come il deserto. Una voce lontana, che prima non era riuscita a registrare, le rimbombava dentro le orecchie. E si accorse, con enorme stupore, che quella era la voce di Griseo.
«Questa è la nostra storia, Hoshi-san.»
Tornò a respirare, come se fosse stata in apnea per troppo tempo, e Kageyama la tenne ben salda in piedi, prima che crollasse a terra. «Selene, che ti succede?»
La testa le vorticava, le immagini di prima che adesso le passavano veloci davanti agli occhi. Dovette deglutire un paio di volte prima di parlare. «Avete abbandonato il vostro pianeta perché… Non c’era più acqua, esatto?»
I due abitanti di Cosmos spalancarono gli occhi, scambiandosi poi una lunga occhiata. «Esatto» rispose Griseo. «Secoli fa, una forte ondata di siccità si è abbattuta sul nostro pianeta, costringendoci ad abbandonarlo…»
«È questo quello che avete raccontato a Hoshi-san, giusto?» Non aspettò alcuna risposta, semplicemente spostò lo sguardo sugli occhi colmi di stupore di Oikawa. Anche lui la stava guardando, il fiato corto e il respiro accelerato. «Mi dispiace tanto, Oikawa-san… L’ho ricordato soltanto adesso…»
Ci fu un attimo in cui nessuno fiatò all’interno della stanza. L’unico rumore percepibile era il respiro pesante di Tooru, che concentrò il suo sguardo su quei due individui che gli stavano davanti. Sentiva la mano di Iwaizumi che gli stringeva il polso, una presa salda che l’abbandonò non appena si avvicinò ancora di più ai lettini dei due pazienti. Le mani erano sulla ringhiera del letto.
«Dov’è mia sorella?» disse, i denti che strisciavano l’uno contro l’altro.
«Le abbiamo già risposto, Tooru-san» disse Griseo, non lasciandosi intimorire da quello sguardo.
«Vedete quella ragazza? – indicò Selene – È una terrestre, ma probabilmente ha delle origini Sibuiane. E se avete veramente parlato con mia sorella, allora dovreste sapere-»
«Che siete in grado di percepire se un’intera popolazione soffre e ha bisogno di aiuto.» Griseo fece un piccolo sorriso, spostando lo sguardo sugli individui dietro le spalle di Oikawa. «Hoshi-san ci ha anche detto che alcuni di voi stabiliscono un legame speciale e che il dolore dell’altro si ripercuote sulle vostre condizioni fisiche.»
«È per questo che siamo qui!» esclamò Horus. «Volevamo liberarla, ma lei ci ha detto di venire qui, su Sibun! Ha detto che sicuramente qualcuno aveva recepito il loro messaggio!»
«Liberarla…?» Oikawa si sentì mancare il respiro. «Liberarla da chi?»
I due si guardarono nuovamente negli occhi, poi Griseo tornò a parlare. «Se volete avere delle risposte, allora è meglio se prima vi spieghiamo come stanno le cose.» Si prese un attimo di pausa, giusto il tempo di osservare gli occhi lucidi di Oikawa, che annuì appena. «Si dice che il nostro pianeta fosse il più antico tra tutti quelli dove adesso c’è vita, compresa la Terra. La leggenda narra che l’Universo, non riuscendo a decidere quale razza intelligente dovesse dominare sulle altre, ne creò di diverse, tutte in stretta correlazione tra di loro. Ci facciamo chiamare Cosmonauti e raramente un individuo è simile all’altro.»
«Questo spiega perché tu, nei tuoi sogni, vedessi delle persone diverse l’una dall’altra, Selene» disse Hajime, le braccia incrociate e lo sguardo serio.
Griseo annuì, per poi continuare il suo racconto. «Su Cosmos l’acqua contava più di qualsiasi cosa. Eravamo tanti, abitavamo in un territorio forse troppo piccolo per contenerci tutti, ma ci sentivamo benedetti dall’enorme quantità di acqua che possedevamo. Finché non cominciò a mancare…» Abbassò il capo e lo stesso fece Horus. «Fummo costretti ad abbandonare il pianeta e a stabilirci su una navicella che prese lo stesso nome. La popolazione si era già dimezzata, ma si ridusse ancora di più dopo una sanguinosissima guerra…»
«Una guerra?» chiese Haruka.
«Una guerra per decidere come doveva essere razionata la poca acqua che c’era rimasta.» Gli occhi di Horus si posarono sulla figura snella della giovane. «Alla fine fu Lucas, l’attuale regnante, ad avere la meglio.»
Sembrava che la storia fosse finita lì, ma la mente di Oikawa fu attraversata da un’idea agghiacciante, da un sospetto che avrebbe voluto cancellare con tutto se stesso. Sentiva degli spilli roventi lungo la gola ogni volta che deglutiva. «Vi prego, ditemi che mia sorella non è sua prigioniera…»
Bastarono le loro espressioni di profondo rammarico per avere la conferma che, sì, Hoshi era la prigioniera di questo presunto Lucas, regnante di un luogo fino ad allora sconosciuto.
Si sentiva morire. Si sentiva come se l’avessero sventrato e gli avessero strappato via gli organi pezzo per pezzo. Avrebbe voluto rigettare quel poco che aveva immesso in corpo, ma si impose di rimanere lucido e composto.
«Siamo mortificati, Tooru-san» disse Griseo. «I vostri Ricercatori sono arrivati uno dopo l’altro su Cosmos e noi non siamo riusciti a placare il desiderio di dominio di Lucas.»
«Sta forse dicendo che anche gli altri Ricercatori sono suoi prigionieri?» domandò Hinata.
«Perché…?» esalò Oikawa, senza dare il tempo di rispondere alla precedente domanda. Aveva gli angoli degli occhi bagnati.
«Lucas è uno scienziato e ha un inventato una sostanza bluastra, simile al colore del nostro oceano su Cosmos, che gli è stata utile per prendere il potere…»
«Questa sostanza annulla completamente la persona, facendole credere di vivere in assoluta felicità, senza più alcuna preoccupazione. Non sanno più chi sono i loro cari, non sanno più nulla del loro passato, sono solo asserviti a Lucas.» proseguì Horus. «Da quando è riuscito a diffondere questa sostanza tra la gente e a ricevere il consenso di tutti, ogni mese la popolazione si sottopone a un’immersione generale nella Vasca della Vita, ricolma di questa sostanza.»
«A meno che tu non sia un prigioniero, perché in quel caso vengono sottoposti all’immersione ogni giorno.» Griseo spostò gli occhi color ambra su quelli color cioccolato di Oikawa. «Ed è questo quello che stanno facendo ai vostri Ricercatori… Compresa Hoshi-san.»
Oikawa cominciò a percepire il freddo della morte fin dentro le ossa. Dovette sedersi sull’unica poltrona disponibile, la testa tenuta dalle mani, il volto coperto da quei ciuffi castani. Iwaizumi si era seduto sui talloni, accanto a lui, carezzandogli appena la cute.
«Io avrei una domanda – intervenne Kageyama – se è vero che questa sostanza controlla le menti delle persone, come mai voi non ne siete succubi? Perché dovremmo fidarci di voi?»
«Prendi un ricordo e tienitelo stretto» disse Horus, dopo aver preso un bel respiro. «Me l’ha detto Hoshi-san…»
Tooru alzò il capo, incontrando l’espressione seria del ragazzo, che continuò a parlare. «Lei è riuscita a resistere a questa sostanza. Ha continuato a parlarci, in modo che qualche nostro ricordo riaffiorasse e ci facesse tornare lucidi. E ce l’ha fatta. Per questo siamo qui.»
«Tua sorella ci ha raccontato quello che hai fatto per salvare più terresti possibili» disse Griseo. «Ci ha detto che tu eri l’unico che potevi aiutarci.»
«Aiutarvi…?» La voce di Oikawa era strozzata da un pianto imminente. «Aiutarvi a fare che cosa?»
«A fermare Lucas.»




*






«In poche parole, puoi dirci che cosa ti hanno raccontato esattamente questi stranieri, Oikawa-kun?»
Il ragazzo si mise in piedi, la divisa tipica dei membri del Consiglio che svolazzò lievemente. Dopo aver parlato con Griseo e Horus, aveva fatto convocare una riunione speciale dove sarebbe stata presente l’intera popolazione di Sibun, in modo da informarli su quanto gli era stato riferito. Sospirò, facendo vagare lo sguardo dalla forma semicircolare della Sala Rossa, ai membri del Consiglio seduti al tavolo. Il nuovo Presidente era stato un Ricercatore molto amato e stimato. Aveva un sorriso rassicurante.
«Lucas ha catturato i nostri uomini e ora gli sta facendo il lavaggio del cervello, in modo che siano sottomessi a lui.» disse. «Non è ancora riuscito a farsi dire le coordinate del nostro pianeta, ma se ci riuscisse allora sarebbe la fine.»
Alcuni membri del Consiglio si lanciarono lunghe occhiate, mentre i mormorii si fecero sempre più insistenti.
«Vuole conquistarci. Vuole sottometterci al suo volere. Ecco perché sta manipolando i nostri Ricercatori.» Cercò di essere convincente con le parole, cercò di crederci lui stesso in quello che diceva. Non sapeva se fidarsi. Tuttavia, l’idea che sua sorella, in quel momento, stesse subendo delle torture indicibili lo faceva rabbrividire.
Era stata lei stessa a dire a quei due di scappare con la sua navicella. Era stata lei stessa a dirgli di lasciarla lì, di cercare suo fratello. Era stata lei stessa a raccontargli di come si fosse imposto per salvare i terrestri. Eppure, non ci sarebbe mai riuscito senza il suo aiuto.
«Silenzio!» Il Presidente sbatté un martelletto di legno sul marmo, lì dove il tempo aveva lasciato qualche solco, placando così le crescenti voci. «Sappiamo quello che Oikawa-kun ha fatto per la nostra comunità. Se lui si fida di loro, non vedo perché noi non dovremmo fidarci. Inoltre, i nostri avi sarebbero di certo intervenuti dinanzi a un popolo che chiede aiuto.»
Alcuni disapprovarono quanto detto dal Presidente, ma a bassa voce, per non farsi sentire. Molti di quelli provavano ancora rancore per quello che Tooru aveva fatto diversi anni prima, incastrando i vecchi membri del Consiglio.
«Non si tratta solo di un altro popolo. Si tratta anche dei nostri concittadini» intervenne il membro che gestiva il Dipartimento della Difesa. «E tra di questi c’è anche Hoshi, il capo del Dipartimento dei Ricercatori.»
«Vorremo evitare di mandare un intero manipolo di soldati» continuò il Presidente. «Altrimenti, sarebbe come dichiarare guerra a questi Cosmonauti. Per cui, come vuole la tradizione di Sibun, sorteggeremo gli uomini che accompagneranno Oikawa-kun in questo viaggio.»
I mormorii divennero ben presto urla, voci diverse che si innalzarono contro il castano. “Possibile che ci sia sempre tu di mezzo?”, “Porti solo guai!”, “Spero di non vederti tornare vivo!”.
«Lo so che molti di voi mi odiano!» La voce di Oikawa sovrastò quella del Presidente – che tentava di calmare la folla –, facendo zittire tutti. «So che molti di voi non hanno ancora accettato il cambiamento, ma vi chiedo… vi chiedo di darmi la possibilità di salvare mia sorella.»
Nessuno emise un fiato, alcuni individui delle prime file che abbassarono il capo e infossarono il collo, come se fossero dispiaciuti dalla faccenda. Tooru individuò anche le famiglie degli altri Ricercatori scomparsi. Lo stavano ringraziando con lo sguardo. Avevano tutti gli occhi lucidi. Loro non avevano avuto il suo stesso coraggio di offrirsi volontari per la partenza.
Il Presidente si mise in piedi. «Se nessuno ha nient’altro da obiettare, allora procediamo con l’estrazione!»
Fu portata al centro della sala, dove di solito si trovavano gli imputati durante un processo, un’enorme coppa di un materiale che sembrava ferro. Conteneva tutti i nomi degli abitanti di Sibun in grado di poter aiutare Oikawa con la sua missione. Quest’ultimo si sedette, mentre il Presidente procedeva ad estrarre il primo nome. Uscì Sugawara Koushi. Fece un piccolo cenno col capo e un sorriso all’indirizzo di Oikawa, che ricambiò. Era capitato che Haruka, quando era molto piccola, si fosse ritrovata a giocare con lui, ma il castano ci aveva scambiato giusto due parole.
In seguito furono selezionati Hinata, Kuroo e Bokuto; anche il nome di Kageyama fu pescato, sotto lo stupore di Selene, gli occhi sgranati.
Mancava solo l’ultimo nome. Il Presidente tenne il bigliettino stretto tra l’indice e il pollice, lo lesse con gli occhi e lanciò un’occhiata a Tooru. Gli mancò subito l’aria.
No... Non può essere...
«Iwaizumi Hajime.»



Oikawa sperava che Hajime non partisse. Lui doveva stare con Haruka, doveva tenerla al sicuro. Se non ce l’avesse fatta, almeno sapeva che loro se la sarebbero cavata.
Ma adesso Haruka era sola. Il nome di Iwaizumi era stato estratto, poco importava se in realtà era un terrestre. L’integrazione di questa gente prevedeva che facessero parte anche di questi rituali.
Oikawa aveva chiesto al Presidente di poter partecipare alla missione, anche se questo andava contro il regolamento di Sibun. I volontari, su questo pianeta, non esistevano.
Finita la riunione, lo pregò di non fare partire Iwaizumi, ma non poteva farlo, aveva già trasgredito una regola.
Non si poteva tornare più indietro.
Sarebbero partiti entrambi o non sarebbe partito nessuno dei due. In ogni caso, qualsiasi scelta fosse stata presa, avrebbe fatto sempre male.




 
ATTO SECONDO







«Avete... avete preso tutto?»
Ad Iwaizumi, la voce della figlia arrivò ovattata, lontana, mentre chiudeva la cerniera del piccolo zainetto che si stava portando dietro.
«Tutto il necessario, grazie» disse, voltandosi. Sorrise debolmente alla figlia, la cui testa era piegata verso il basso. Il mento sbatteva contro lo sterno. Lo faceva anche quando era piccola, per trattenere le lacrime.
Le si avvicinò, arruffandole appena i capelli e dandole un bacio sulla cute. Aveva gli occhi lucidi.
«Io e Oikawa faremo di tutto per tornare sani e salvi. Non ti lasceremo sola» le sussurrò dolcemente.
Haruka l’abbracciò, la tempia premuta contro il suo petto. Strinse tra le dita il tessuto della tuta da Ricercatore, tirando su col naso. Nessuno dei due disse niente, neanche quando arrivò Oikawa a spezzare quell’ultimo saluto. Deglutì. Era come se il senso di colpa si fosse concretizzato e fosse diventato un pugnale che gli bloccava la gola.
«Iwa-chan...» mormorò a fatica, deglutendo ancora. «Dobbiamo andare...»
Haruka guardò entrambi i propri genitori, prima di gettarsi tra le braccia di Tooru. La strinse forte, i suoi lunghi capelli che gli solleticavano il viso.
«Io e Hajime ti vogliamo bene, non dimenticarlo questo, capito?» le disse, la voce rotta dal pianto. Lei annuì, mugugnò qualcosa e si allontanò da entrambi, diretta verso la sua camera da letto. Probabilmente, non se la sentiva di andare alla cerimonia di partenza.
Quanto faceva male dover abbandonare un figlio con la consapevolezza che questo rimarrà da solo contro le avversità del mondo?
Troppo. E Oikawa non poteva fare a meno di sentirsi un autentico egoista in quel momento.
Avrebbe voluto il bene di tutti, ma non stava facendo il bene di nessuno.
Si diressero verso la Base Aerea, dove era già stata allestita una OIKS, pronta per il decollo. Furono gli ultimi ad arrivare e non poterono fare a meno di accorgersi dell’espressioni cupe di Hinata e Kageyama. Neanche Selene era venuta.
Oikawa intravide sua madre, la famiglia di Hoshi, il padre di Iwazumi e la famiglia Murakami. Persino Jun era venuto: lo salutò con debole sorriso e un cenno della mano. Oikawa non poté fare a meno di posargli una mano sulla spalla, stringendola con forza. Era cresciuto parecchio in quegli anni. Tooru gli aveva dato quello che Rokuro non aveva mai dato a lui.
Abbracciò sua madre, le sue deboli mani che passavano sul tessuto squamoso della tuta. Chiuse le palpebre. «Ti prometto-»
«Non promettere» disse la donna, seria. «Preferisco che tu non lo faccia.»
Si guardarono negli occhi, le sue dita che gli carezzarono il viso. Tooru sorrise debolmente. «Sei sempre stato il mio orgoglio» disse la donna e Oikawa le diede un bacio sulla fronte.
«Ti voglio bene.» Represse un singhiozzo. «Ti prego, fa che ad Haruka non manchi mai nulla.»
«Lo farò!»
Fu Kuroo ad uscire dalla navicella e ad avvertire tutti dell’imminente partenza. E quando il portellone si richiuse alle sue spalle, Tooru poté finalmente piangere in silenzio, una mano posata sul viso e i denti che battevano frenetici. La mano di Iwaizumi si posò sulla sua spalla, non solo per riscuoterlo e avvertirlo che dovevano sedersi, ma anche per dirgli che non era solo. Anche lui stava piangendo. Anche lui aveva pianto tra le braccia di suo padre, della famiglia di Murakami Haruka, quelle persone che l’avevano visto crescere e l’avevano assistito nel suo periodo di malattia.
Gli diede un bacio sull’angolo della bocca, gli zigomi arrossati, prima di prenderlo per mano e trascinarlo verso i sedili. La navicella si alzò in aria proprio mentre Tooru stava cercando di fermare le sue lacrime.







A guidare la navicella erano Bokuto e Kuroo. Il decollo fu un po’ turbolento, tanto che Kuroo insultò diverse volte l’ex pilota della Fukurodani, che gli rispose a tono. In un’altra occasione, avrebbero tutti quanti riso di fronte a quella scena, ma non in quel caso.
Nessuno aveva voglia di ridere o di scherzare. Sembrava che li avessero privati della loro gioia, della loro stessa essenza vitale.
Fortunatamente, non ci fu alcun problema collaterale e, nel giro di qualche minuto, la OIKS si stagliava contro il cielo stellato.
«Bene, e adesso?» disse Kageyama, togliendosi di dosso la leva di protezione che veniva usata solo durante l’atterraggio e il decollo.
«Adesso dovremmo incontrare Bastet, colei che dirige la ribellione. Sarà lei a trovarci» spiegò Griseo. «Hoshi-san è riuscita a liberare diverse persone, ma non sono ancora abbastanza.»
I suoi occhi color ambra si posarono sulla figura di Oikawa. Non aveva ancora tolto la leva e il capo era chino, rivolto al pavimento. Proprio come in ospedale, continuava a fissare la punta delle sue scarpe.
«Horus, mi stavi spiegando la tua abilità!» sbottò poi Sugawara, interrompendo quel silenzio opprimente.
Il ragazzo avvampò, gli occhi spalancati. «Non è niente di che…» Congiunse gli indici.
«È un’abilità straordinaria, invece, per questo Lucas lo teneva sotto le sue dipendenze» disse Griseo, arruffando i capelli del ragazzo, che strinse gli occhi. «Horus riesce a vedere oltre ogni vostra immaginazione. Lucas lo usava per visionare il perimetro di Cosmos e vedere cosa facesse la gente, in modo da eliminare eventuali ribelli o “impuri”.»
«Ma essendosi liberato dal suo controllo…»
«Tecnicamente, questo lui non lo sa.» Koushi spalancò gli occhi. «Gli abbiamo fatto credere che Horus fosse ancora sotto il controllo della sostanza e che l’avessimo fatto nostro prigioniero.»
«A quale scopo?» chiese Iwaizumi, le braccia incrociate al petto.
«Lucas tiene molto a me» ammise Horus. «Di conseguenza, chiunque mi riporterà vivo a lui, sarà trattato con tutti gli onori possibili.»
«Ma questo ve lo spiegherà meglio il Grande Capo – Griseo indicò il vetro – Siamo arrivati!»
Tutti si alzarono in piedi, persino Oikawa si era tolto la leva e osservava lo spettacolo per cui tutti erano rimasti senza fiato. Un essere enorme e bianco apparve davanti ai loro occhi, come se fino ad allora fosse stato invisibile e adesso si stesse materializzando piano piano. Mosse la lunga coda e le pinne, mentre la bocca si spalancava, mostrando i suoi denti.
«Dovete entrare lì dentro» disse Griseo, indicando proprio la bocca.
«Sei matto? Io non entro lì dentro!» protestò Bokuto.
«Sembra una balena…» disse Iwaizumi, facendo voltare tutti verso la sua direzione. Aveva la bocca appena aperta, gli occhi che brillavano. Le aveva sempre viste sulle riviste scientifiche o nei documentari che trasmettevano in televisione. Le aveva viste nei telegiornali, distese sulle spiagge, morte e punzecchiate dai gabbiani. Quello era stato l’inizio dell’apocalisse, l’avvertimento che la Terra voleva dare ai suoi abitanti. “Sto morendo, salvatemi!”. Ma nessuno le prestò abbastanza attenzione.
Iwaizumi non ne aveva mia vista una così da vicino. E soprattutto, non credeva che una balena potesse muoversi nello spazio sconfinato.
Griseo fece un debole sorriso. «Anche voi avevate animali del genere sulla Terra, uh?» Non attese una risposta. «Non è un animale in carne ed ossa, anche se la navicella è stata costruita in modo tale che ci assomigliasse. Dentro vi spiegheremo tutto.»
Griseo guardò sia Bokuto sia Kuroo, che si lanciarono una lunga occhiata. Alla fine, con un sospiro, mossero la navicella verso le fauci dell’animale.
«Più infondo» suggerì il Cosmonauta, la bocca dell’animale che si richiudeva dietro di loro, lasciandoli al buio.
«Più infondo dove? Non si vede un tubo!» esclamò Bokuto.
«Fidatevi di me! Tra poco scorgerete una luce!»
La navicella continuò a proseguire per quelli che parvero chilometri, mentre in realtà si trattava solo di qualche metro. La luce di cui parlava Griseo arrivò poco dopo.
Era gialla e confortevole, si sposava bene con le pareti rosate di quello che – se fosse stato un vero animale – sarebbe stato lo stomaco. Ma non era un vero animale, Griseo non stava mentendo. Il pavimento era rosso sangue e lucido, ci si poteva quasi specchiare.
L’uomo suggerì ai due piloti di atterrare in uno spiazzo lasciato libero e in un attimo furono fuori dalla navicella, a sgranchirsi.
Nessuno venne ad accoglierli. Tranne una bestiolina piccola e nera, che li osservava con la coda che spazzolava per terra e facendo le fusa. Kuroo osservò il gatto che aveva davanti con il braccio ancora stirato verso l’alto, sbattendo le palpebre. I gatti erano animali rari su Sibun, era difficile che si facessero vedere. Una volta aveva raccontato a tutti di averne visto una nella Zona Verde, ma nessuno gli aveva creduto. Aveva solo sei anni, del resto, a quell’età i bambini raccontano tante sciocchezze, eppure Kuroo non si era sbagliato. Aveva sentito veramente il pelo di quel gatto insinuarsi tra le sue dita, non era stata solo una sua fantasia. Come avvertì lo strofinio di quel gatto contro la pelle della sua tuta. Sorrise debolmente, prendendolo in braccio.
«Kuroo, ti sembra questo il momento di metterti a giocare con un gatto?» disse Sugawara, guardandolo con un’espressione sconcertata in viso.
«Oh, andiamo, ho guidato per miglia e miglia! Lasciami divertire!» protestò, continuando a fare i grattini sullo stomaco del gatto. Quella palla di pelo, intanto, non la smetteva di fare le fusa.
Oikawa, che era stato l’unico a rimanere in silenzio per tutto il tragitto, si guardò attorno, rendendosi conto che non c’era nessuna finestra in giro. Avevano costruito quella navicella in modo che sembrasse in tutto e per tutto un animale che sorvola il cielo stellato.
Com’è che l’aveva chiamato Iwa-chan?
Ecco, sì, balena. Ad una balena spaziale.
«Benvenuti!» Una figura si avvicinò verso di loro e i giovani abitanti di Sibun sobbalzarono all’istante. Quell’individuo aveva un aspetto umanoide, non c’era alcun dubbio su questo. L’unico problema era che aveva il muso di un cane, la punta del naso allungata verso l’esterno. Griseo e Horus si avvicinarono a lui, abbracciandolo, l’omone che passò ad entrambi una mano sulla schiena. «Spero che il viaggio sia andato bene! Siete approdati su Moby, la nostra perla che ci permette di sfuggire dalle grinfie di Lucas!»
L’uomo/cane parlò come se fosse un oratore che stava spiegando le leggi che regolavano il mondo, le braccia allargate e il muso rivolto verso l’alto. «Mi chiamo Anubi. É un piacere conoscervi. Ed è un piacere conoscere il fratello della nostra benefattrice!» disse, facendo un inchino verso Oikawa, che ricambiò appena.
«Pensavo che ad accoglierci sarebbe stata Bastet...» disse Iwaizumi, provocando un moto di risa da parte di Anubi. Rideva in un modo strano, sembrava quasi l’abbaiare di un cane.
All’improvviso, il gatto che Kuroo teneva ancora in braccio decise che era arrivato il momento di scendere, leccandosi poi una zampina non appena toccò il terreno. Mai avrebbero immaginato che, in un battibaleno, quel gatto si trasformasse in un essere umano; o meglio, in una donna dai lunghi capelli neri e il fisico slanciato.
Si mordicchiò un’unghia, lunga e bianca come un artiglio, prima di voltarsi verso Kuroo. «Grazie per le coccole!» disse, facendogli l’occhiolino. L’ex pilota della Nekoma avvampò.
«Sei sempre la solita, Bastet!» disse Griseo, alzando gli occhi al cielo.
Da come parlavano tra di loro e da come quei due avevano abbracciato Anubi era quasi logico pensare che si conoscessero da molto tempo. Forse lavoravano tutti alle dipendenze di Lucas, come Griseo e Horus. O forse avevano ricordato il tempo che avevano trascorso assieme e che Lucas gli aveva portato via.
«Ma è così divertente trasformarsi in un gatto e farsi fare le coccole!» esclamò, facendo un ennesimo occhiolino a Kuroo, che rabbrividì. Sia Bokuto che Sugawara stavano cercando di non scoppiare a ridere.
L’uomo alzò nuovamente gli occhi al cielo, ma sorrise. La giovane donna – che probabilmente aveva anche lei una trentina d’anni – si girò verso il gruppo, battendo le mani. «Ben atterrati sulla navicella dei Cosmonauti Ribelli! Io sono Bastet. Ero uno dei tenenti alle dipendenze di Lucas, mentre adesso dirigo la ribellione.» I suoi occhi sottili come quelli di un gatto si posarono su Oikawa. Poi, sotto lo sguardo sorpreso del ragazzo, inclinò il busto davanti. «Mi era stato affidato il compito di sorvegliare la cella di Hoshi-san. Lei... volevo salvarla. Mi dispiace...»
Tooru non seppe che cosa rispondere, lo sguardo totalmente assente. Aveva lasciato la mente e il cuore su Sibun. Era diviso tra il voler salvare sua sorella e il voler tornare a casa da sua figlia. Era quasi stanco di sentir parlare di Hoshi in quel modo. Sapeva già da sé che sua sorella era eccezionale.
Fece comunque un debole sorriso. «Mia sorella... ti considera sua amica, vero?»
La ragazza annuì, ancora piegata in avanti.
«Fa sempre così.» La risata successiva fu amara, Iwaizumi la sentì vibrare sotto la pelle e provò una sensazione di freddo. «Ti prego, alzati!»
La ragazza ubbidì, prendendo un profondo respiro, prima di tornare a parlare. Aveva ancora gli occhi lucidi. «Disponiamo di un esercito di cinquanta uomini. Sono pochi, ma non avremmo mai immaginato che esistessero altri impuri, oltre a noi. Sono tutte persone che sono riuscite a prendere un ricordo e a tenerselo stretto. Si sono riuniti sotto un’unica navicella, costruita dal padre di Horus.»
Accarezzò la testa del ragazzo, che aveva abbassato gli occhi. Probabilmente quell’uomo aveva dato la sua stessa vita pur di permettere a quelle persone di fuggire su quella bizzarra creazione.
«Siamo disposti a tutto per salvare Hoshi-san e fermare quel figlio di una cagna di Lucas!» ringhiò Anubi.
«Griseo ci ha detto che avevate in mente un piano… » disse Kageyama.
«Essendo che Horus veniva usato per effettuare i controlli cittadini, è fondamentale per Lucas. Di conseguenza, chiunque glielo riporterà, sarà trattato con estrema gentilezza. Ed è qui che entrate in gioco voi.» Fece un sorriso un po’ sghembo. Aveva i canini appuntiti. «Gli farete credere che Horus è riuscito a scappare e che si è rifugiato sul vostro pianta. Nel frattempo, qualcuno di noi preleverà Hoshi-san dalla zona in cui la tengono prigioniera. Altri guideranno i Volatili, in modo da avere una via di fuga sicura a missione compiuta.»
«Dei volatili...?» chiese Bokuto, non ottenendo risposta.
«C’è solo un problema...»
«Quale?» chiese Hinata.
«Lucas ha un debole per le belle ragazze. Ha dei sensi molto sviluppati e quando è particolarmente concentrato riesce persino a percepire il pericolo a distanza. Se aveste portato con voi una ragazza sarebbe stato tutto più facile...» spiegò Bastet. «Non posso farlo io, perché sono una ricerca-»
Si fermò di botto, fissando con insistenza la OIKS. Tutti si lanciarono una rapida occhiata, prima che la ragazza tirasse fuori un oggetto cilindrico dalla tasca della sua tuta. Premette un pulsante al centro dell’oggetto e in un attimo questo divenne un bastone. Si mise a correre verso l’entrata, il bastone tenuto dietro di sè, mentre un’ombra veniva fuori dal suo nascondiglio. Bastet tentò di colpirla con la punta del bastone, da cui uscì una lama appuntita, ma la figura si abbassò, spiccando nella direzione opposta e rotolando per terra. Non fu difficile per Bastet stenderla del tutto, la lama che premeva contro la nuca della ragazza.
«Chi sei?» soffiò la donna, proprio come se fosse un gatto.
Furono le voci di Oikawa e Iwaizumi a illuminare Bastet sull’identità della ragazza. «Haruka?»
«Ciao papà...»



 
____

 
Domande?
Okay, vi giuro che non sono morta (lo sono un po’ dentro per via di tutte le schifezze che ho mangiato), ma purtroppo è stato un periodo un po’ brutto per la mia beta e non volevo assillarla con la storia che doveva betarmi per forza il capitolo. Vi prego, è una santa, già sgobba un sacco per me.
Also, non sono riuscita a finire la storia per il contest, ma questo già ve l’avevo accennato nello scorso capitolo, tuttavia continuerò a utilizzare i prompt. Insomma, ho fatto in modo che tutto coincidesse, tanto vale utilizzarli :’’)
Detto questo: BUON 2018 A TUTTI!
Spero che l’anno sia iniziato bene per voi, perché io sono indietro con lo studio, yay!
(maledetto libro)
(maledetti Aoi e Isamu)
(non è vero, voglio bene ai miei bimbi gay)
(sto pensando alla mia kohai Gaia in questo momento, love u <3)

Bando alle ciance, passiamo alle domande serie:
Potresti rispiegare la storia di Cosmos? Nella mia mente, Cosmos era un pianeta con una grossa percentuale di acqua, forse più di quella della Terra, che però si è prosciugata a causa di un'enorme ondata di siccità. Ve la faccio breve, come la Terra in Like an Astronaut stava morendo, così anche Cosmos stava morendo. Per cui, la gente è stata costretta ad andarsene su un enorme navicella in grado di contenerli tutti. La caratteristica di tutti questi abitanti è che sono diversi tra di loro e hanno tutti un’abilità diversa.
Quali sono gli effetti della sostanza di Lucas? In poche parole, essendo che l’acqua potabile rimasta era davvero poca, alcuni individui hanno cominciato a discutere tra di loro per scegliere come doveva essere razionata. Finirono per farsi la guerra, ovviamente. Ad avere la meglio fu Lucas, che ovviamente utilizzò la sua mirabolante sostanza per sottomettere tutti. Funziona un po’ come i fiori di loto nella mitologia greca: ne sei talmente assuefatto, che dimentichi persino chi sei. Tenete a mente che, però, l’immersione viene fatta una volta al mese, ci servirà per dopo.
Perché bisogna mantenere vivo un ricordo? La caratteristica di questa sostanza è, appunto, quella di cancellare tutti i ricordi. Per sconfiggerla, basta focalizzarsi su un ricordo, non importa quale sia, in modo da rimanere lucidi.
Come funziona la scelta dei volontari su Sibun? In pratica, non esistono volontari. Vengono estratti i nomi in quest’enorme coppa e chi viene scelto deve partire. Ora, essendo che Tooru ha esplicitamente chiesto di partire, ha trasgredito una regola, di conseguenza non può chiedere di non fare partire Iwaizumi. Il Presidente poteva passare sopra una trasgressione, ma su Sibun sono molto rispettosi della legge, quindi… (sorry)
Come mai Bastet e gli altri si conoscono? Qual è la loro storia? Allora, erano tutti uomini alle dipendenze di Lucas. Horus, appunto, ha una vista talmente potente da permettergli di scansionare il territorio, un po’ come Violet in One Piece (qui per chi non ne fosse a conoscenza), mentre gli altri lavoravano come soldati a guardia delle segrete. Per questa ragione sono venuti in contatto con Hoshi, che è riuscita a parlargli e a farli ritornare lucidi. Sono riusciti a non farsi scoprire solo perché manomettevano le telecamere, mandando un’immagine diversa da quella reale. Also, la balena spaziale già esisteva, ma è stata utilizzata per far scappare alcuni impuri.
Oh, vi dico come mai ho scelto questi nomi così bizzarri: Lucas prende il nome da un personaggio di Resident Evil VII, a cui non ho giocato, ma ho visto diversi gameplay (qui), e niente è psicopatico come il nostro Lucas; Bastet è il nome della dea gatto egiziana, Horus il nome del dio falco e Anubi del dio sciacallo; Griseo è la traduzione latina di grigio.
Che dire, la smetto qua con queste note che sono diventate un’epopea. Sappiate che il terzo capitolo è già pronto, deve solo essere betato :’D
Vi aspetta l’angst,
_Lady di inchiostro_

L’uccellino cinguetta

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