Ferite

di _Lightning_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Del corpo ***
Capitolo 2: *** Della mente ***
Capitolo 3: *** Dell'anima ***



Capitolo 1
*** Del corpo ***


Premessa: L’idea e la prima stesura di questa storia, strettamente legata alla mia long Comunicazioni Interrotte, precedono di molto Avengers: Endgame. Vi sono delle piccole coincidenze tra i fatti narrati qui e quelli avvenuti effettivamente nel canon: esse sono puramente casuali, e non manipolate in seguito alla visione del film. Di contro, è presente anche qualche discrepanza, appunto perché la long che funge da base è stata scritta e completata prima di Endgame.
La canzone che accompagna il testo è Misguided Ghosts dei Paramore.
Buona lettura!


 

Ferite
 
 
 
 

1. Del corpo
 
 
 
“I'm going away for a while
But I'll be back
Don't try and follow me
'Cause I'll return as soon as possible
See, I'm trying to find my place
But it might not be here where I feels safe”
 
 
 
Le ultime note gravi del temporale si disperdono in lontananza, inviando una bassa vibrazione attraverso i muri del palazzo. Le goccioline di pioggia sulla vetrata hanno smesso di rincorrersi frenetiche seguendo rivoli imprevedibili, e scivolano ora pigramente sulla superficie liscia, ricamando di riflessi liquidi la lastra buia della savana.
 
Nataša avverte il tuono riverberarle nelle ossa e rimane in ascolto ad occhi chiusi, seduta sulla tromba delle scale con le mani a coppa dietro le orecchie per amplificare le voci di Steve e Tony al piano di sotto. Si è posizionata sulla rampa superiore rispetto alla sala comune, perché se sarà Steve ad andarsene per primo, sa che scenderà in palestra senza vederla; e se invece sarà Tony, sa che salirà verso la propria stanza senza poter evitare di incrociarla.

Sente le loro voci concitate, ne segue l’andamento cogliendo solo poche parole con chiarezza assoluta; ma non importa, perché ciò che conta è il loro tono accusatorio e colmo di bile. Nella sua testa si forma l’immagine di un coltello che viene rigirato nella piaga, accentuata da ogni scossone di quello che ormai è diventato un litigo di parole aspre e abbaiate, di ringhi bassi e difensivi. Distingue Tony che alza insolitamente la voce e capta il nome di Peggy; socchiude gli occhi, trattenendo un sospiro nella speranza che Steve non lo uccida sul posto. Una pausa elettrica si interseca nella discussione, e suona come un punto fermo1.
 
Poco dopo riconosce i passi di Tony che si avvicinano, più leggeri di quelli di Steve e resi diseguali dall’andatura zoppicante. Lascia ricadere in grembo le mani quando lo sente imboccare le scale, per poi trovarselo davanti. Prende nota della cravatta storta e della camicia stropicciata sul davanti, oltre al modo contratto in cui preme un palmo sul fianco. Lui avanza a capo chino e non si accorge subito di lei, ma quando alza gli occhi incrociando i suoi ha un sussulto. Il suo volto s’indurisce, dipinto della stessa, risentita accusa che le ha rivolto a Lipsia; continua a stringersi il fianco con una mano e sale con pesantezza le scale, superandola senza degnarla di una parola né di un ulteriore sguardo, impettito nel suo completo disfatto. Lei non cerca di fermarlo e rimane immobile, finché non sente la porta della sua stanza che sbatte con violenza, riecheggiando nei corridoi deserti.
 
C’è silenzio, ora. O almeno ci sarebbe, se non fosse per l’anomalo brusio di sottofondo che le invade di nuovo la testa. Pensieri, ricordi, forme confuse che è sempre riuscita a tenere a bada e che adesso sembrano aver trovato una falla irreparabile nel suo muro d’autocontrollo, come cenere che si insinua in ogni crepa. Scaccia da davanti agli occhi il velo freddo del Cremlino innevato e il lumicino rossastro di una sigaretta accesa nel buio2, alzandosi elastica sulle gambe irrigidite.
 
Si avvia senza fretta verso la sala comune, quietando i propri pensieri ad ogni respiro, ad ogni passo studiato – come quando camminava elegante seguendo le parallele, sul parquet di legno scuro e lucido di cera. Tiene con mano ferma le redini dei ricordi, ma quelli continuano a mordere il freno, oscillando tra il mattonato ghiacciato della Piazza Rossa, il profilo dolce e ondulato di prati verdeggianti calpestati da piedi infantili, e l’infinita parete a specchio che evitava sempre di guardare per non incrociare i propri occhi.

Continua ad avanzare in punta di piedi, sul ciglio del baratro.


 
*
 
 
“And we just go in circles
And now I'm told that this is life
That pain is just a simple compromise
So we can get what we want out of it”
 
 

Nataša prega che Steve non sia così impulsivo da seguirla, ma pensa di essere stata abbastanza chiara anche senza esprimersi a parole3.

Si ritrova comunque a indugiare a lungo davanti alla porta di Tony. Segue intenta i suoi movimenti nervosi dall’altro lato: i passi strascicati avanti e indietro, lo scroscio ripetuto del rubinetto in bagno, i respiri spezzati e trattenuti per gesti troppo bruschi, finché non sente il rumore delle scarpe scalciate via di malagrazia e il cigolio secco del materasso. Potrebbe bussare, ma si guadagnerebbe solo una risposta aspra, o più probabilmente un silenzio sterile. Così si limita a trafficare per pochi secondi con la serratura, aprendola con uno scatto metallico e scivolando dentro in un sol gesto, chiudendo poi la porta dietro di sé.
 
I suoi occhi si abituano rapidi alla penombra: le tapparelle sono abbassate e l’unica luce proviene dal tavolino nell’angolo sul quale è poggiato il reattore. Una tinta fredda permea la stanza. Avanza in punta di piedi, silenziosa, e Tony non muove un muscolo. Continua a darle ostinato le spalle, sdraiato sulle coperte con la giacca del completo abbandonata per terra e la cravatta che pende dal davanzale, come se le avesse scagliate via con foga. Nataša comprime le labbra: la stanza ha un solo letto singolo, e lui lo occupa completamente, anche rannicchiato su se stesso. Quel dettaglio le punge il cuore con inaspettata veemenza.
 
«Chi è il mandante?» si solleva infine la voce di Tony, bassa e strascicata. «O è un’iniziativa personale?» continua più pungente, sempre senza muoversi.
 
Nataša si lascia sfuggire un sospiro, incrocia le braccia e colma la distanza tra la soglia e il letto con passi svogliati e ben udibili.
 
«Questo mutismo è una tattica d'interrogatorio che hai imparato al KGB o mi stai solo ignorando?» chiede di nuovo Tony, chiuso nel suo loop di insopportabile sarcasmo.
 
«Perché ogni volta che ti vengo incontro me ne fai pentire il secondo dopo?» si decide a rispondere lei, altrettanto sferzante, mentre aggira il letto per guardarlo in faccia.
 
Lui gira con indolenza il capo verso di lei, con il volto ancora sprofondato per metà nel cuscino. Ha gli occhi lucidi e respira in modo leggermente affaticato, con le braccia strette a cingersi il busto.
 
«Funziono così, e ormai dovresti sapere che schierarti dalla mia parte porta guai.» Fa una pausa a effetto, sollevandosi poi a fatica sul gomito per stringersi il mento tra le dita con fare pensoso. «Oh! Forse è per quello che non sei mai davvero dalla mia parte…»
 
«Stark,» lo richiama lei, accigliandosi e serrando la mascella per la sua indisponenza.
 
«… come a Lipsia, per esempio; avrei gradito una lettera di rinuncia, ma immagino che pugnalarmi alla schiena sia un equivalente accett–…»
 
«Posso parlare con Tony o devo continuare a sopportare il suo ego irritante e fuori luogo?» sbotta a quel punto Nataša, puntandosi le mani sui fianchi e squadrandolo dall’alto con severità.
 
Lui sembra pensarci su, e vede distintamente la battutina che gli pende dalle labbra fare marcia indietro, trattenuta da un breve sospiro.
 
«Che ci fai qui?» chiede, appianando il tono di voce ancora scostante.
 
«Quello che volevi: faccio da mediatrice.»
 
«Un tempismo impeccabile, Romanov.»
 
La sua risposta acida segna una pausa nel discorso, se mai ce n’è stato uno. Lo vede affondare di nuovo il volto nel cuscino, trattenendo un lamento indistinto, e Nataša vede come ora tenga un palmo premuto direttamente sul fianco. E la chiazza rossa che si allarga sulla stoffa sotto alle sue dita irrigidite. Nataša rinuncia momentaneamente a continuare la discussione, allarmata. Poggia un ginocchio sul materasso e si china su di lui per scostargli la mano, vincendo la sua debole resistenza e ignorando il suo sguardo risentito.
 
«Lasciami, sto bene,» sibila, cercando di sottrarsi, ma Nataša lo blocca sul posto con una lieve e mirata pressione, riuscendo così a sollevargli la camicia quel tanto che basta per scoprire la ferita.
 
«Non ti sei neanche fatto medicare come si deve,» lo rimprovera seccamente, trattenendo a stento una smorfia preoccupata nel vederne le condizioni.
 
«Ti ho detto che sto bene,» ricalca lui, strattonando il lembo della camicia per coprirsi di nuovo il fianco, lasciandosi però sfuggire uno spasmo.
 
Nataša si rimangia un insulto, fulminandolo con lo sguardo: era ovvio che avrebbe ignorato il suo consiglio di far controllare la ferita a Shuri4, ma non pensava che sarebbe stato davvero così stupido da lasciarla infettare.
 
«Stai perdendo sangue.»
 
«E allora?»
 
«Allora togliti quella camicia e fatti aiutare, prima di svenire o andare in setticemia,» conclude, senza scartare l’eventualità di doverlo davvero mettere KO per curarlo.
 
Lui la fissa con sguardo un po’ appannato, esitando, anche se sul suo volto permane quella sua tipica espressione da bambino capriccioso. Nataša gli pianta rapida una mano sulla fronte, e lui non è abbastanza vigile per ritrarsi; la trova madida e bollente, più di quanto si aspettasse. Tony si lascia sfuggire un moto di sollievo per quella breve frescura e cessa di opporre resistenza, scosso da un tremito.
 
«Hai già la febbre, muoviti,» mormora Nataša, prendendo nota del suo pallore.
 
Si siede sulla sponda del letto e lo incita con un cenno sbrigativo. In un’altra occasione, Tony l’avrebbe bombardata di battutine maliziose e allusioni impertinenti; magari si sarebbe anche spogliato in modo volutamente lascivo per prenderla in giro, come aveva fatto una volta, durante una missione in cui si era ferito alla gamba dopo le sue solite prodezze spericolate. Stavolta si limita ad accettare il suo appoggio per tirarsi su a sedere e prende a sbottonarsi in silenzio la camicia, con movimenti meccanici, lo sguardo perso nella penombra della stanza. Sembra assente, forse intontito dal dolore fisico, forse troppo sopraffatto da quello mentale. Lo aiuta a far scivolare l'indumento dalle spalle, evitandogli una torsione dolorosa, e lui lo posa di fianco a sé a occhi bassi, stringendo appena la stoffa macchiata di sangue tra le dita.
 
Lei lancia un’occhiata clinica alla piaga e si affretta a recuperare l’occorrente dall’armadietto dei medicinali e a lavarsi le mani nel bagno adiacente; si ferma poi ad osservarlo brevemente dalla soglia, vedendo che nel frattempo si è chinato in avanti coi gomiti sulle ginocchia e le dita serrate tra i capelli, traendo respiri profondi.
 
Le torna in mente l’occasione in cui l’ha conosciuto, quando il palladio gli stava divorando il cuore e riusciva comunque a stamparsi in faccia un sorriso sghembo e un’aria da sbruffone; ricorda anche come si fosse stupita nel vederlo di tutt’altro umore poco prima della sua disastrosa festa di compleanno, oppresso dalla certezza della propria morte imminente. Per quanto in seguito si sia abituata alla sua personalità esplosiva e ad averlo come esuberante e saccente compagno di squadra, non è mai riuscita a togliersi dalla testa quell’episodio, né quello sguardo smarrito. Adesso si sovrappone all’immagine attuale di Tony, più spezzato che mai e privo della solita patina di spavalderia.
 
Lo vede bloccato sul posto e una parte di lei lo capisce, perché sa cosa vuol dire scivolare nel gorgo e non avere appigli per risalire, se non quello di una manetta attorno al polso che le nega anche la libertà di affondare5. L’appiglio di Tony è diverso, è una scheggia di ghiaccio arenata in Siberia, e non è molto diversa dall’essere prigioniero. E sa che, se vuole raggiungerlo, dovrà costringerlo a inoltrarsi in quella terra inospitale da cui lei 
 loro 
hanno tentato di fuggire per una vita intera. Abbassa gli occhi, guardandosi le mani e vedendole rosse per un istante. A volte ha l’impressione di non essere mai fuggita davvero.
 
Non dice nulla: si siede di nuovo accanto a lui, prende una garza imbevuta di tintura di iodio e inizia a pulire e disinfettare con accortezza lo squarcio slabbrato sulla schiena. Lo sente sussultare un paio di volte, risucchiando il respiro, ma non emette un solo lamento, non sa dire se per testardo orgoglio o se semplicemente sia troppo scollegato dalla realtà per dare il giusto peso alle sensazioni che gli invia il proprio corpo. Gli preme con delicatezza una mano sul petto per farlo inclinare all’indietro, percependo la cicatrice rotonda che gli solca lo sterno; Tony la asseconda docilmente, coricandosi sul fianco e trattenendo il fiato quando il foro d’uscita si tende assieme alla pelle. Nataša stringe le labbra nel vedere il marchio purpureo appena sotto la sua cassa toracica. Sa leggere le ferite, e quella è decisamente una brutta ferita, violenta e irregolare, come se chi gliel’ha inferta avesse rigirato l’arma nel colpirlo.
 
«È stato Thanos?» gli chiede a bassa voce, rendendosi conto di non sapere ancora nulla di ciò che è accaduto su Titano, e collateralmente per distrarlo dal dolore, anche se forse così facendo acuirà un altro tipo di sofferenza.
 
Tony annuisce in silenzio, a occhi socchiusi, e porta una mano a stropicciarli.
 
«Non potevo sconfiggerlo,» mormora poi sconnessamente, quasi tra sé, schiudendo appena la mascella contratta per parlare.
 
«Neanche Thor e Hulk ci sono riusciti,» gli fa notare lei, con una smorfia amara.
 
Continua a detergere la piaga gonfia e arrossata, bollente al tatto. Non ha un bell’aspetto, e si acciglia preoccupata. Spera solo che le lesioni interne si siano rimarginate del tutto.
 
«Come hai fatto a…»
 
«Nanotecnologia,» la anticipa lui, intuitivo seppur febbricitante. «E l’Avatar robotica mi ha dato una mano. Non la raccomanderei come infermiera: poco comunicativa, empatia di uno scaldabagno, delicatezza e tatto del padre… ma sono vivo,» conclude, col sarcasmo che sfuma in una nota amara, quasi di rammarico.
 
«Lo sei,» conferma lei, con intensità.
 
Tampona più piano la ferita, in una carezza camuffata, cercando di trasmettergli quanto sia contenta di vederlo lì e di non avere altra cenere da compiangere. Lui sospira scuotendo la testa, le labbra contratte, e Nataša nota i suoi occhi che si fanno lucidi mentre un tremito lo attraversa. Evita di commentare e attribuisce il tutto alla febbre.
 
«Stamattina stavi meglio,» cambia argomento, offrendogli una via di fuga da quei pensieri.
 
Tony fa un verso nasale, a metà tra una risata e uno sbuffo.
 
«Già… di solito quando litigo con Rogers va a finire così,» commenta apatico.
 
Nataša alza di scatto gli occhi, e lui scuote appena la testa in risposta.
 
«Me la sono cercata,» spiega in un soffio, senza aggiungere altro.
 
Nataša concorda in silenzio: menzionare Peggy è un ottimo modo per far perdere il lume della ragione a Steve.
 
«L’ultima volta ero ridotto peggio,» riprende poi, assente.
 
«Mi ricordo anch'io,» replica lei, con un sorriso mesto. «Ed eri decisamente in condizioni mi–…»
 
«Non a Lipsia,» la corregge, monocorde.
 
Nataša si blocca con la garza premuta contro la ferita, riflettendo per un istante e intravedendo uno spiraglio, una lama di luce tra i pensieri torbidi dell’amico. Esita per un istante e cerca di valutare la situazione, ma non c’è più tempo per pensare a cosa possa fare male o meno.
 
«Tony, so che è l’ultima cosa di cui vuoi parlare, ma…»
 
«Scegli: Siberia o Titano?» la interrompe di getto lui, intuendo il continuo senza però sottrarsi del tutto alla sua richiesta. «Sei una spia, Romanov, ti sto già aiutando troppo,» aggiunge poi, rivolgendole un’occhiata che non riesce ad essere spavalda.
 
Lei tace, sostenendo il suo sguardo. Cerca di riflettere, anche se il suo cuore ha già scelto d’istinto, seguendo un richiamo intessuto a doppio filo con le sue radici che si dipanano sotto la neve, le stesse che continuano a portarle via le persone che ama.
 
«Siberia,» enuncia infine, con l’accento natìo che si insinua per un istante in quella parola spigolosa. «Mi sento nostalgica,» aggiunge con un’alzata di spalle, suscitando un lieve sbuffo da parte di Tony.
 
«Prevedibile,» commenta soltanto.
 
Per una volta le riesce difficile decifrarlo, e non capisce se sia sollevato o meno dalla sua scelta. Rimane in silenzio e si porta una mano al petto, sopra alla tenue cicatrice del reattore, seguendone distrattamente il rilievo con l’indice mentre fissa la luce azzurrina nell’angolo. Poi rivolge gli occhi al soffitto come se vi fossero appese le parole che vorrebbe pronunciare e schiude le labbra, esitando ancora.
 
«Dammi un minuto.»

 

 



Note:

1 Riferimento diretto a Comunicazioni Interrotte: la discussione che origlia Nat si colloca nel
Capitolo 9.
2 Sono venuta a conoscenza di questi e altri dettagli canonici riguardanti Nataša e i suoi trascorsi in Russia tramite
T612 e le sue storie (in particolare 1956 e la serie Maybe in another life, I promise). Grazie, è anche merito tuo se questa storia ha visto la luce <3
3 Questa è una diretta continuazione dal
Capitolo 10 di Comunicazioni interrotte: Nataša ha appena "parlato" con Steve.
4 Sempre nella long, si accenna al fatto che Nataša abbia cercato di convincere Tony a farsi medicare, venendo ovviamente ignorata.
5 Riferimento all'addestramento di Nataša, mostrato anche in Agent Carter, che prevede l'ammanettamento delle allieve al letto durante la notte.



Note Dell'Autrice:

Cari Lettori,
per chi ha seguito la long Comunicazioni interrotte, spero che questa storia abbia fornito e fornirà qualche risposta alle domande lasciate volutamente in sospeso. Per tutti gli altri, spero che il pezzo sia risultato comunque gradevole da leggere come stand-alone e di avervi messo curiosità per il resto della serie :)

[Da qui in poi, spoiler su Endgame!] Dopo Endgame, immaginate la mia sorpresa nel realizzare di aver dedicato una shot simile proprio a questi due personaggi. Nella mia testa avevo messo in conto una potenziale dipartita di Tony… ma Nataša è stato qualcosa di assolutamente non preventivato, e sono contenta di averle dedicato questo spazio “ante tempora” nel contesto della mia serie. Avrei potuto ricamarci sopra e buttare qua e là omaggi o presagi sul loro destino comune... ma sarebbe stato troppo facile e ho preferito mantenere tutto così com’era. I dialoghi non sono quindi stati alterati rispetto alla versione originale e hanno seguito lo svolgimento che avevo pianificato, in modo da incastrarsi con la long. Alcuni passaggi potrebbero comunque essere letti come riferimenti a Endgame (perlopiù nel prossimo capitolo), ma sono puramente frutto del caso sommato a maniacali rewatch/ragionamenti precedenti. Ho deciso di mantenerli proprio perché coerenti col canon.

A parte ciò, credo che sia evidente quanto io ami il personaggio di Nataša e il modo in cui interagisce con tutti gli altri, in particolare con Steve e Tony. Il rapporto così stretto con quest’ultimo è in effetti un mio headcanon coltivato negli anni (non voglio dilungarmi, ma sarò felice di rispondere a eventuali domande al riguardo), e ho colto quest’occasione per esplicitarlo. Ci tengo comunque a sottolineare che è un rapporto puramente amicale, perché non potrei mai tradire la Pepperony e la WinterWidow <3

Ringrazio infinitamente la mia beta
_Atlas_, che ha messo a tacere le mie turbe ansiose rispetto a questo scritto un po' fuori dai miei schemi, convincendomi a pubblicare <3
E grazie a tutti quelli che leggeranno e/o decideranno di lasciare un commento!

A presto con la seconda parte,

-Light-



© Marvel
 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

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Capitolo 2
*** Della mente ***





2. Della Mente
 
 
 
“Would someone care to classify
Our broken hearts and twisted minds?”


 
Il minuto richiesto si moltiplica, ma Nataša aspetta e continua a pulirgli la ferita, ascoltando il suo respiro che ogni tanto inciampa nelle fitte. Non l’ha mai visto così esausto, neanche dopo New York, e i suoi occhi non sono mai stati così scuri e distanti, oscurati da un vuoto che avverte lei stessa. Le arpiona il petto e le stringe la gola, allargando i propri contorni seghettati nel tentativo di inghiottirla, ma ha imparato molto tempo fa come arginarlo.
 
Si concentra sui propri gesti meccanici cercando di sgombrare la mente, come quando prima di una missione smonta, pulisce e rimonta tutte le sue armi in un automatismo acquisito negli anni che le permette di fare ordine nei propri pensieri.
 
Finisce di applicare con delicatezza l’antibiotico sulla piaga, e, nel momento in cui inizia ad avvolgere la garza attorno al suo busto, Tony si riscuote dalla propria impasse. Alza un poco il capo per guardarla, le sopracciglia aggrottate con durezza a incupirgli il volto, e butta fuori d’un fiato la stringa di parole che ha trattenuto finora:
 
«In Siberia ho scoperto che Barnes ha ucciso i miei genitori.»
 
Nataša si blocca, la garza ancora stretta tra le dita e gli occhi sgranati. Tony conficca le pupille dilatate nelle sue, scrutandola come a stabilire se lo sapesse o meno. Quella frase si pianta dentro di lei, la trapassa, va a riaprire ferite mai del tutto curate e spalanca le porte della Stanza Rossa; al contempo, la sua mente incastra finalmente al posto giusto quel tassello mancante che ha continuato a sfuggirle per giorni – per due anni.
 
Nella frazione di secondo che impiega ad afferrare tutto ciò, il suo istinto ha la meglio e sterza appena in tempo, raddrizzando la sbandata emotiva prima che emerga del tutto. Realizza di non dover mascherare il proprio stupore, e che allo stesso tempo non può lasciarne trasparire la reale entità – deve fingere, ma non del tutto – deve rimanere lucida, ma esternare una dosata punta di confusione. Ricorda il suo addestramento: mente libera, emozioni soppresse, sotto controllo. Le sente vibrare nella nuca come cani incatenati, premendo per espandersi nella sua testa e azzannarla con le loro fauci gelide.
 
«E Steve lo sapeva,» si limita a commentare, studiatamente a bassa voce.
 
Solo Clint riuscirebbe a percepirne l’increspatura, e solo James riuscirebbe a ricondurla all’emozione che l’ha causata. Anche Tony è percettivo, più di quanto lasci trasparire, ma la macchia d’inchiostro che si allarga nei suoi occhi scuri è frutto di una sfiducia innata, non di sospetti fondati.
 
«Sì,» replica solo, lapidario. «Tu no, a quanto pare,» continua poi, lentamente, misurando quelle parole come se temesse che siano troppo aguzze per non ferirlo mentre le pronuncia.
 
Nonostante ciò, Nataša percepisce un picco di vivo sollievo nel modo in cui lo dice, pur sempre intriso di un sospetto non del tutto dissipato. Si sente torcere le viscere, come se qualcuno vi avesse riversato della soda caustica. Scuote in silenzio il capo, temendo che qualunque osservazione di troppo possa metterla a nudo più di quanto già non sia. Il freddo siberiano è infido, morde feroce ogni millimetro di pelle scoperta lasciando bruciature e geloni dietro di sé: lo conosce troppo bene per esporsi.
 
Lo fa rimettere seduto e termina di fasciargli la ferita in silenzio, cercando di non accelerare i movimenti rendendoli indelicati in risposta all’agitazione che si sta facendo strada dentro di lei. Sta tremando e quasi le sfugge la garza dalle mani, o forse è il suo cuore che trema di fronte all’ennesimo deragliamento che mette in subbuglio la sua vita. È un tremito di rabbia, di frustrazione, d’incredulità per tutto ciò che continua a ferirli – lei e Tony e Steve – per il gelo della Russia che non ha mai abbandonato né lei, né James, e che alla fine è riuscito a riportare a casa il fuggiasco, proprio nelle sue viscere più profonde e congelate.
 
Ripensa a quegli occhi amati altrettanto freddi, velati di ghiaccio, e al brillio che li ha illuminati per una frazione di secondo nell’incontrare di nuovo i suoi[1]. Quella scintilla di riconoscimento che forse ha immaginato, forse no – a cui forse vuole credere, ma sarebbe meglio di no.
 
Tony sembra ancora aspettare una sua reazione, e Nataša sa che la sua non è quella che si aspettava. Riesce quasi a vedere e sentire lo sfrigolio agitato delle sue sinapsi attraverso il suo cranio, mentre è intento ad arrovellarsi sulle più disparate ipotesi e congetture.
 
«No,» risponde infine lei mentre assicura la garza, nel tono più neutrale che le riesce.
 
Agisce come in sogno, con le mani appesantite dalla menzogna e la mente che guizza da un pensiero all’altro senza logica apparente – ma dentro di sé sa quale connessione ci sia tra l’odore di disinfettante e il dolore sordo che si risveglia nel suo basso ventre[2], e sa perché la macchiolina rossa che le ha sporcato la maglietta le sembri un abisso vermiglio e indelebile, e sa perché sente una fitta improvvisa alla testa che sembra attraversarla da una tempia all’altra con uno spillo rovente[3].
 
Si accorge di essersi bloccata troppo a lungo con le dita contratte sulla benda solo quando sente su di sé lo sguardo indagatore di Tony, che a questo punto è decisamente sul chi vive e rompe il proprio anomalo mutismo:
 
«Devi dirmi qualcosa, Romanov?» la incita, alzando le sopracciglia in quel modo saputo che sottolinea quanto sia retorica la sua domanda.
 
Lei non risponde e si alza invece rapida. Recupera alla cieca una maglietta dalla cassettiera addossata al muro e lo aiuta a infilarsela, approfittando della momentanea docilità di Tony probabilmente dettata dalla febbre, che sfortunatamente per lei non ha però inibito la sua perspicacia.
 
«Non lo sapevo,» ripete, e nonostante sia una mezza verità[4] sente quel sottile filo riparatorio tendersi tra loro, pronto a spezzarsi.
 
«Vorrei fidarmi, ma temo che finirei per rimanere deluso,» ribatte atono lui, rivolgendole uno sguardo che non ha neanche la forza di essere accusatorio.
 
Uno sguardo stanco, di chi farebbe meglio a lasciar andare tutto e si ritrova invece ad aggrapparsi ad ogni frammento sparso nel tentativo di ripararlo, guidato dall’istinto di chi vorrebbe aggiustare il mondo e se lo vede sfaldare sempre più tra le mani.
 
«Io vorrei dirti la verità, ma credo che proprio per questo non ti fideresti mai più di me,» sentenzia schiettamente lei, guardandolo fisso.
 
Le loro iridi, verdi e nocciola, si incontrano di sfuggita sembrando egualmente nere nella luce fioca.
 
«Di te già non mi fido,» sbuffa con ignaro buonsenso lui, ma Nataša blocca il suo sguardo su di sé, impedendogli di girare la testa con due dita puntate sul suo mento.
 
«Non puoi rimanere da solo. Non vuoi. E neanch’io,» aggiunge, anticipando la sua replica e lasciandosi sfuggire quell’ultima parte.
 
Tony non cerca di forzare la sua presa e la guarda negli occhi, in una tacita conferma delle sue parole. Si acciglia ancora, increspando la fronte in pieghe ormai abituali, e storce un angolo delle labbra verso il basso senza evitare il suo sguardo.
 
«Vorrei fidarmi,» dice all’improvviso, di getto.
 
Sfugge il suo tocco, puntando lo sguardo a terra.
 
«Io vorrei dirti la verità,» replica lei, pacata. «Pensi che sia un compromesso accettabile?»
 
Lui sorride appena, amaramente divertito: ha accettato di certo compromessi peggiori. Annuisce in un invito a continuare, e Nataša sente quasi lo schiocco del martelletto di un giudice in sottofondo, a segnare definitivamente quella che potrebbe essere una condanna, così come un’assoluzione, a seconda di come giocherà le proprie carte false.
 
È stata addestrata a irretire e circuire l’obbiettivo, a filare le parole una ad una per formare una tela inestricabile da usare a proprio vantaggio, ma qualcosa dentro di lei si oppone a farlo adesso con così tanta leggerezza. Tony non è un obbiettivo. E dopo quel poco che le ha rivelato, e tutti i sottintesi che ha tenuto per sé, sa che vorrebbe solo sentirsi dire le cose come stanno – e sa però che questo non le è possibile, non del tutto, non adesso. Forse un giorno, quando la verità non sarà più così affilata e non avrà più un manico per essere brandita. Per ora, deve maneggiarla con cautela per non recidere quel fragile intreccio riparatore che è riuscita a tessere.
 
«Conoscevo Barnes,» pronuncia quindi con fermezza, senza frenarsi.
 
Tony rialza di scatto la testa, sussultando per quel movimento brusco, e un coacervo di emozioni si dibatte sul suo volto. La rabbia è quella preponderante: si affaccia prepotente nel pallore improvviso che gli stinge gli zigomi, nella linea rigida della mandibola, nel fiotto venefico che gli invade gli occhi rendendoli ostili ed estranei per un istante. Ma non trabocca, e si limita a tremolare sotto la superficie in gorghi inquieti, come un mostro marino pronto ad emergere. Si morde le labbra, respirando più volte a fondo dal naso, per poi annuire rigidamente in un gesto meccanico, con un fremito che ancora lo scuote.
 
«Ok. Ok,» ripete, quasi balbettando, passandosi le mani sul volto, tra i capelli, prendendosi infine con forza la radice del naso tra pollice e indice fino a sbiancarsi la pelle. «Come?» stenta a proferire, lottando palesemente per mantenere un volume accettabile.
 
«Mi ha addestrata in Russia,» replica lei, laconica. «Tutto qui,» conclude, cercando di innalzare una barriera di sicurezza.
 
«Non è “tutto qui”,» la accusa lui, perdendo per un istante le redini del proprio autocontrollo.
 
«No, ma è tutto ciò che voglio dirti,» lo rimbecca lei, senza scomporsi. «Ho promesso di dirti la verità, non di dirla tutta
 
Tony la fissa risentito, i pugni contratti fino allo spasmo.
 
«Tu lo sapevi?» chiede di nuovo.
 
C’è una vena di disperazione in quella domanda, nonostante la facciata di fredda durezza che sta cercando di sfoggiare.
 
«Sapevi chi era, quello che aveva fatto?» la incalza ancora, e per la prima volta Nataša esita e forma a vuoto le parole, perché non può mentire, e allo stesso tempo deve farlo.
 
«Tony… non è così semplice,» comincia, con l’intenzione di seguire le tappe prefissate del discorso e allontanare entrambi dalla Siberia, ma nel dirlo sente la propria voce perdere consistenza.
 
Si immobilizza e lui la imita, bloccato nel principio di un’accusa pungente che non trova però sbocco. Nataša cerca di respirare appena e di scacciare la patina liquida che sente di nuovo sugli occhi, consapevole dello sguardo di Tony su di sé, consapevole di aver perso il controllo. Lui respira a fondo, si copre il volto con le mani per qualche istante e quando le ritira ha anche lui gli occhi lucidi, esausti.
 
«Cerca di essere convincente,» dice soltanto, con voce fioca, fissando la luminescenza del reattore nell’angolo come se potesse scacciare tutte le ombre che strisciano più dense attorno a loro.
 

 
 
“We all learn to make mistakes
And run from them, from them
With no direction
We’ll run from them, from them
With no conviction”
 
 
 
È semplice scegliere da dove partire. Ovvero dalla fine, o quasi.
 
Della Stanza Rossa e delle operazioni; del suo registro insanguinato e del Progetto Vedova Nera non vuole parlare. In realtà non vorrebbe parlare neanche di James, perché rievocarne la memoria le dà l’impressione di rivedere il pulviscolo cinereo che si disperde al sole, privandola di quella sagoma amata.
 
«Non sapevo neanche chi fosse James,» esordisce, serrando le mani tra loro per evitare di scivolare in tic nervosi che ha imparato a reprimere decenni fa. «In Russia, quando hanno scoperto… quando hanno scoperto il nostro piano di fuga, ci hanno resettato la memoria,» spiega nel modo più neutrale e conciso che le riesce, saltando le implicazioni e i dettagli e percependo il turbamento di Tony anche senza guardarlo. «Ho dimenticato chi fosse lui, e viceversa… finché non l’ho incontrato di nuovo.»
 
Nataša deglutisce, e costringe i suoi pensieri a procedere in fila indiana su binari diritti, impedendo loro di accapigliarsi confusi in un nugolo ronzante. Focalizza il bersaglio e tiene salda la mira.
 
«Ci siamo scontrati a Odessa, mentre ero in missione per conto dello SHIELD… mi ha quasi uccisa,» a riprova di quel fatto scopre per un istante il fianco sinistro, sul quale spicca una vecchia ferita ironicamente speculare a quella di Tony. «Non mi ha riconosciuta, evidentemente il controllo mentale era ancora troppo forte… io invece ho avuto un flash, dei ricordi che non sapevo neanche fossero miei,» arriccia le labbra, cedendo all’impulso di torcersi le dita, e tace per qualche istante.
 
Avverte in modo vivido la tentazione di esporsi del tutto, di dire, per una volta in vita sua, la verità pura e cristallina; di parlare del bunker a Camp Lehigh e dei segreti insanguinati che custodiva l’essenza di Zola; di ripetere l’eco dolorosa che continua a propagarsi dal 16 dicembre del ’91.
 
Ma anche se Tony è un amico e non un obbiettivo, la squadra e la sua unità lo sono. E anche se dopo molti anni ha imparato ad essere egoista, e che non sempre ciò è un male, non lo è abbastanza per arrogarsi il diritto di essere sincera.
 
«Quando hai ricordato tutto?» la incalza Tony, quando il silenzio si protrae troppo a lungo.
 
«Ho avuto un… presentimento durante l’incidente Insight[5], e un sospetto fondato a Lipsia. E lui non mi ha riconosciuto, era… non era lui,» conclude in fretta, con la propria facciata che cede per un istante rischiando di destabilizzarla del tutto. «Ho messo insieme i pezzi solo dopo, e quando l’ho fatto James era già in criogenia,» alza le spalle infine, con un rimpianto affatto fasullo che le brucia la gola.
 
Tony rimugina su quelle informazioni in un silenzio cupo, con le spalle incurvate e i muscoli in tensione.
 
«Se avessi saputo che quello dei miei non era stato un incidente…»
 
«Non lo sapevo.»
 
«Ma se l’avessi saputo…»
 
«Te l’avrei detto,» completa lei, senza esitare e con un dolore al cuore. «È stato il Soldato d’Inverno a compiere quegli omicidi, non James,» aggiunge poi, d’istinto.
 
Stavolta un’oscillazione sottile scuote le sue corde vocali di fronte allo sguardo interdetto di Tony, perché ha mentito per una vita intera e le bugie le rotolano sulla lingua con molta più scioltezza delle verità.
 
«Sei difficile da decifrare, di solito,» commenta lui, socchiudendo appena gli occhi a renderli più acuti; Nataša manca un battito, sentendosi colta in flagrante.
 
La fissa ancora per lunghi istanti, come se volesse leggerle attraverso, e per un istante Nataša teme che riesca a farlo, a dispetto di tutti gli anni in cui ha imparato a schermarsi dagli occhi altrui e a rendere impenetrabili i propri.
 
«Ma ci tieni, a lui. Lo ami,» dichiara poi Tony, senza sforzarsi di farla suonare come una domanda.
 
Nataša nota l’uso del presente, nonostante James non ci sia più. Sa che è volontario, perché anche Pepper non c’è più[6]. Non risponde, cosciente che quella di Tony è un’affermazione che non può coprire tutti i decenni che lei e James hanno passato a cercarsi, perdersi e ritrovarsi seguendo una promessa adesso diventata cenere.
 
«Pensavo di sapere cosa vuol dire essere annientati,» dice invece, rifugiandosi in quel concetto terribile, ma concreto e familiare. «Lo so adesso,» conclude con una piccola smorfia, senza guardarlo.
 
Vede le sue labbra fremere appena, nel principio di una frase, e lo anticipa:
 
«Non dirlo,» sbotta, seccamente. «Saresti ipocrita. Non ti dispiace davvero e non te ne faccio una colpa,» lo anticipa, rifiutando un’empatia che non si merita a prescindere.
 
«Mi dispiace per te,» continua comunque lui, ampliando l’intento iniziale, per poi bloccarsi come se fosse confuso dalle sue stesse parole. «E comunque la parte dell’ipocrita mi riesce molto bene,» scrolla le spalle, in un tentativo d’indifferenza che non gli riesce. «Quindi è per questo che l’hai lasciato fuggire, a Lipsia,» deduce poi, sviando il discorso.
 
«Anche.»
 
«Anche?» Tony serra la bocca, formando pieghe dure ai suoi angoli.
 
«A quel punto non eravamo più lucidi, e lo sai. Soprattutto voi due,» calca lei, senza battere ciglio, manovrando la discussione nella rotta che aveva prestabilito all’inizio.
 
Tony non trova di che ribattere, o forse, conoscendo la sua risposta pronta, compie un rapido bilancio di quanto poco vantaggioso sarebbe farlo. Nataša ne approfitta, sfruttando la sua incertezza.
 
«Li ho lasciati andare perché mi sentivo in colpa verso Steve, perché noi stavamo gestendo le cose nel modo sbagliato, perché Ross non avrebbe rispettato i patti e…» tentenna per un istante.
 
«E perché non volevi che Barnes fosse catturato,» completa Tony, senza difficoltà.
 
«È stato manipolato e imprigionato per tutta la vita: non volevo che finisse alla RAFT.»
 
«Neanch’io volevo che qualcuno finisse alla RAFT.»
 
«Ma sapevi che era una possibilità.»
 
Tony non lo nega, ma poggia i palmi sul materasso e inclina appena la testa all’indietro, come se stesse riflettendo su quel fatto.
 
«Lipsia è stata un errore. Uno dei tanti,» afferma infine, con cautela, come se si stesse addentrando in un campo minato.
 
Nataša annuisce appena, intravedendo una falla.
 
«Abbiamo tutti perso il controllo,» concorda ad alta voce, muovendosi agile sul filo delle proprie frasi. «Steve ha coinvolto Lang, io ho attaccato Clint, tu…» si interrompe, realizzando in ritardo che quello sarebbe un colpo troppo basso.
 
«… io ho reclutato il ragazzino,» conclude lui annuendo, stringendo la stoffa del lenzuolo tra i pugni. «Non c’è giorno in cui non mi penta di averlo trascinato , credimi,» aggiunge di getto, deglutendo come a ricacciare indietro troppe parole che stanno tentando di uscire.
 
Nataša coglie la doppia valenza di quell’affermazione, pentendosi di aver portato volutamente il discorso fin lì. Gli poggia una mano leggera sulla schiena, trovandola contratta e tremante, oltre che troppo calda.
 
«Vuoi parlarne?» gli chiede, deviando a suo rischio e pericolo dagli schemi e suscitando il suo sguardo confuso e ritroso. «Di Peter,» specifica poi, con più dolcezza.
 
Lui strizza gli occhi con uno spasmo, per poi sollevarli su di lei con un movimento esausto, e sembra che tutte le sue energie siano concentrate nel trattenere le lacrime. Una di esse straborda comunque, rigandogli a tradimento la guancia. Tony finge che non esista, e Nataša finge di non vederla.
 
«Ho detto: o la Siberia, o Titano. Hai già fatto la tua scelta.»

Esita, inghiottendo un groppo rumoroso, e lei gli permette di asciugarsi il volto senza essere visto, preservando così quella scintilla di testardo orgoglio che ancora lo anima, lo stesso che continua a tenere in piedi lei.
 
«L’ho perso, ed è stata colpa mia,» mormora poi, appena udibile. «Non c’è altro da dire.»
 
Nataša si limita ad abbassare lo sguardo nell'udire l’eco delle proprie parole[7].

In fin dei conti, il resto può immaginarlo.



 


Note:

[1] Qui ho lasciato margine d’interpretazione: può essere riferito sia alla missione a Odessa durante la quale è stata ferita dal Soldato d’Inverno, sia allo scontro a Lipsia, quando Nataša dice esplicitamente “potresti almeno riconoscermi”, riferendosi potenzialmente sia alla suddetta missione che ai loro trascorsi in Russia.
[2] Ricordo che la “cerimonia” di passaggio nella Stanza Rossa consiste nella sterilizzazione delle agenti, come mostrato e confermato in Age of Ultron dalla stessa Nataša e dalla sua visione.
[3] Sempre secondo il canon (e ringrazio nuovamente T612 per avermi messa a conoscenza di queste informazioni <3) Nataša ha subito dei drastici reset mentali tramite elettroshock, proprio come James.
[4] In questo contesto, non sapeva che fosse quella la causa dello scontro tra Steve e Tony: finora, pur avendo avuto qualche sospetto fondato espresso in Comunicazioni interrotte, ha sempre pensato che le cause principali della scissione fossero la divergenza d’opinioni sugli Accordi e la volontà di Steve di proteggere Bucky ad ogni costo.
[5] In Captain America: Winter Soldier sia Steve che Nataša scoprono tramite Zola che alcuni incidenti e assassinii nel corso della storia sono stati orchestrati dall’HYDRA, incluso quello degli Stark. Ora, anche dando per buono che all’epoca ignorasse ancora chi fosse il Soldato d’Inverno, Nat sa che la morte dei genitori di Tony non è stata accidentale, tanto più che alla fine del film consegna a Rogers il dossier del Soldato d’Inverno dove è riportata la sua intera attività di sicario. La storia è da leggersi in questa luce che pone Nat in una zona decisamente grigia, come d’altra parte ritengo doveroso per un personaggio come il suo, che non ha mai negato la propria ambiguità.
[6] Questo fatto è coerente con la long: quando iniziai a scriverla non era ancora chiaro chi fosse sopravvissuto o meno allo schiocco e ho sbagliato delle previsioni, appunto Pepper che è sopravvissuta e Shuri, citata in precedenza, che è invece scomparsa.
[7] Riferimento a Comunicazioni Interrotte.

Note Dell'Autrice:

Cari Lettori,
dice il detto: perché fare due capitoli quando puoi farne tre? Come volevasi dimostrare, mi sono lasciata prendere la mano ed è venuta vuori una micro-long... spero non me ne vogliate :')
Ho scritto già abbastanza nelle note al testo, per cui mi limito a dire che titoli e testo della canzone hanno subìto delle lievi modifiche, e a ringraziare T612 e _Atlas_ che hanno commentato lo scorso capitolo e tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste.
Grazie, e ogni commento è gradito <3

Alla prossima, sperando di aggiornare con più prontezza,

-Light-



© Marvel

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Capitolo 3
*** Dell'anima ***




3. Dell'anima


 
“Travelin' endlessly
The ones we trusted the most
Pushed us far away”
 
 
 
Nataša gli lascia i suoi spazi, chiedendosi se abbia senso farlo quando il suo lutto – il loro lutto – è condiviso dall’universo intero, in una sorta di tragica comunione.
 
«Nat?» la chiama infine, con una nota d’incertezza rara, per Tony Stark.
 
Lei inclina la testa verso di lui, gli fa cenno di continuare e lui continua a non guardarla.
 
«So che non è colpa di Barnes,» mormora infine, ed è come se avesse speso quegli ultimi minuti ad elaborare quel singolo fatto. «Lo sapevo anche quando ho tentato di ucciderlo,» confessa ancora.
 
Nataša si scopre a non provare rabbia, per quello. Né delusione. Né nulla, in effetti. Si chiede se il suo addestramento non abbia funzionato fin troppo bene, per poi percepire di nuovo il dolore che le svuota il petto nel punto in cui prima c’era la metà di famiglia che ha perso. E non è stato Tony a portargliela via.
 
«E perché me lo stai dicendo?» si decide a replicare, senza durezza.
 
Lui scrolla le spalle, e sembra confuso per un istante.
 
«Non so, magari speravo che mi piantassi un pugnale nel cuore, o qualcosa del genere.»
 
«Sei piuttosto idiota, per essere un genio.»
 
«Me lo dicono spesso,» sbuffa lui, senza sorridere.
 
Sembra leggermente più rilassato, adesso, e Nataša è quasi sul punto di riprendere il discorso, sempre più vicina all’obbiettivo, quando il trillo del cellulare di Tony la anticipa. Lui allunga a fatica una mano verso il comodino, sforzando il meno possibile il fianco ferito, e afferra il congegno con dita malferme. Le sue sopracciglia si uniscono in un’espressione corrucciata.
 
«Cos’è successo?» non si trattiene dal chiedere lei, e un pensiero fugace corre a Clint, desiderandolo vivo.
 
«Nulla,» dice Tony, ed è chiaro che non sia così. «È arrivata l’armatura da trasporto con la padella di Rogers,» dice poi, con voce falsamente calma e una mano che si sfrega il petto all’altezza dello sterno. «C’è anche un… cercapersone che ha lasciato Fury,» aggiunge, e non sembra capacitarsi di quell’ultima informazione.
 
«Un cercapersone?» s’interessa lei, senza capire perché dovrebbe sentirsi più entusiasta per quello, che per la notizia implicita di una possibile riappacificazione tra Tony e Steve.
 
«Così pare. Gli darò un’occhiata dopo… adesso vorrei sfruttare il paio d’ore di sonno che mi rimane,» conclude, mostrandole il telefono che segna le quattro del mattino in un chiaro invito a lasciarlo solo.
 
Nataša comprime le labbra, e lo trattiene per un polso quando vede che sta per coricarsi senza aspettare risposta. Tony la asseconda, ma sembra tentato dal divincolarsi dalla sua stretta, con una contrazione istintiva dei muscoli che le suggerisce quanto sia sul chi vive.
 
«Steve vuole parlarti,» gli dice a bassa voce.
 
«Lo so,» mormora Tony, anche lui appena udibile, e nella sua voce c’è solo stanchezza.
 
«Non puoi continuare a ignorarlo e non potete rifiutarvi ancora di collaborare,» insiste, sfruttando i cedimenti che ha innescato e sentendosi più vicina all’obbiettivo.
 
«Pensi che non mi renda conto della situazione?» replica lui, serrando ritmicamente la mascella. «Ci provo, a fare finta di niente, e prima di questo disastro ero… stavo bene, pensavo di aver superato la cosa, gli ho pure riparato quella stupida padella [1]. Ma adesso… ogni volta che me lo ritrovo davanti sono di nuovo in quel bunker con lo scudo di mio padre che sta per spaccarmi il cranio,» dice tra i denti. «È come il portale: è sempre lì, non ci dormo, non riesco a levarmelo dalla testa,» mormora in fretta, con lo sguardo ora distante e perso nel buio.
 
Nataša ritrae la mano e fissa per la prima volta l’orrore dipinto nei suoi occhi, non più celato da battute e sbruffonate. Lo riconosce, e intuisce gli incubi che può generare. Intuisce quelli che l’hanno attanagliato per anni, intravede la paura che l’ha consumato fino ad oggi, tenuta  a bada solo da legami adesso recisi.
 
«Tony,» lo chiama, più piano che può, «Steve non ti farebbe mai del male se…»
 
«Mi ha quasi ucciso, Nat. Mi ha quasi ucciso,» ripete, meccanicamente. «Non so se abbia davvero pensato di farlo, ma…»
 
«E perché non glielo chiedi?» lo interrompe Nataša.
 
«Lo sai il perché.» Deglutisce, rumoroso, e ha la bocca così secca da riuscirci a stento. «Lo sai.»
 
Lo sa, perché ha imparato che Tony Stark, uomo di scienza, non sempre vuole delle risposte scientifiche e nette. Più spesso le evita, le devia con ogni mezzo possibile, le spinge lontano da sé.
 
«So che hai paura di chiederglielo, e so che se non lo farai continuerai ad averla,» replica lei senza battere ciglio, e lui emette uno sbuffo stremato.
 
«Pensi che questi giri di parole serviranno a…»
 
«Non devi perdonarlo, Tony,» lo blocca di nuovo, con fermezza.
 
Lui inghiotte di colpo la propria replica, senza incrociare il suo sguardo. Silenzio. Potrebbero sentire i battiti dei loro cuori.
 
«E non c’è nulla di sbagliato in questo,» conclude, permettendogli di riprendere a respirare.
 
Tony nasconde la faccia nel palmo.
 
«Non so neanche se posso fidarmi,» obietta.
 
«Non sei disposto a correre il rischio? Neanche per Pepper e Peter?»
 
«Lo sto correndo anche adesso,» replica lui, con un guizzo che gli anima gli occhi, fugace. «Non sono stupido: so che mi hai mentito sull’assassinio dei miei, e che l’hai fatto per proteggere Barnes, non me,» la gela, con voce priva d’inflessione. «Ma tu non sei mai stata un modello d’onestà, né ti sei mai vantata di esserlo… e francamente, io non ho più la forza per guardarmi sempre le spalle.»
 
Nataša vede i propri sforzi vanificarsi in un effimero sbuffo di fumo, e non ha un piano d’emergenza abbastanza solido per impedirlo. Si limita a tacere, in una muta conferma.
 
«Almeno hai la decenza di non negarlo,» commenta Tony, sardonico, con una punta di durezza in più. «Sei migliorata, rispetto a Lipsia.»
 
«Anche tu,» commenta lei, in precario equilibrio. «Il tuo ego si è drasticamente ridimensionato.»
 
Tony sbuffa, scuote la testa, sfregandosi i capelli sulla nuca e tirandoseli in un gesto frustrato.
 
«Cosa pensavi di risolvere così?» chiede infine. «Lo sarei comunque venuto a sapere, prima o poi. Ed è sempre peggio scoprirlo dopo, o dalla bocca di qualcun altro,» aggiunge, in un’accusa che si propaga oltre lei, attraversandola.
 
Sente di nuovo quel dolore sordo che le blocca il respiro e non riesce a frenare le parole che le sfuggono, le uniche che non abbiano un sapore acido:
 
«È che a volte anch’io spero che le bugie possano diventare una verità,» confessa infine, con una lamina di gelo sovietico a ricoprire quelle parole. «Questione d’abitudine, immagino… forse è vero che non ho mai perso il vizio. Ma ho imparato a vivere da poco, in rapporto all’età che ho.» Fa una pausa, umettandosi le labbra. «Avevo imparato a farlo, prima, grazie a James. Ma l’ho dimenticato. Poi Clint me l’ha insegnato di nuovo. E adesso...»
 
Tace, sapendo di essersi esposta troppo, e non sa se questa sia una tappa suggerita dal suo istinto per arrivare a incrinare la corazza di Tony, o se invece si sia incrinata lei stessa, lasciando uscire troppo di sé.
 
Non sa dirlo, ma sente il sospiro leggero di Tony, vede le nocche escoriate contrarsi sul lembo del lenzuolo e percepisce i suoi occhi nocciola e oscurati dal dolore su di sé. E pensa che, forse, è ormai troppo patetico fingere che entrambi abbiano ancora una corazza addosso.
 
 
 
“So I can find someone to rely on
And run
To them, to them
Full speed ahead”
 
 
«Nat…» comincia Tony, per poi perdere la voce a metà strada. «Ho saputo dei Barton,» mormora infine, dopo un piccolo sospiro.
 
Nataša sostiene quel contatto visivo, ma i suoi occhi sono altrove, vedono altro: percepisce l’assenza di quelle persone che le hanno insegnato cosa significhi avere una casa dove tornare, che le hanno permesso di provare un calore materno per dei figli che non avrà mai, che le hanno offerto l’abbraccio saldo e salvifico di chi sapeva vedere oltre la sua nota rossa o ne ignorava del tutto l’esistenza. Di chi la trattava come un essere umano, e non come una macchina efficiente da sfruttare, o una rotta da riparare.
 
«Mi dispiace,» esala ancora Tony, più piano, e pur nella stringatezza di quelle frasi Nataša percepisce la sua sincerità, dettata dal dolore condiviso.
 
«Anche a me,» replica semplicemente, e spera che capisca che quella frase include anche lui e non solo lui, per mille motivi.
 
Per Pepper e Peter, per Clint e Lila e Cooper e Nathaniel e Laura, per James e Fury e tutti gli altri scomparsi, per la loro sconfitta, per quella squadra disastrata che è l’unica famiglia che è rimasta loro e che continua a ferirsi a vicenda, per tutte le bugie necessarie che si conficcano sottopelle come schegge infette.
 
Lui cerca la sua mano, stringendola appena nella propria, in una vicinanza fisica che concede raramente e che Nataša accetta in silenzio, grata per quel piccolo conforto che tiene a bada parte dei demoni. Sono gli stessi demoni che continuano a tendere i loro artigli verso di lei ricordandole dove e a chi è sempre appartenuta. Guarda brevemente Tony negli occhi e quasi le sembra di scorgerli anche lì, in forme e consistenze diverse, nei portali aperti nel suo inconscio.
 
Non avrebbe mai voluto mentirgli, e ora teme di perdere lui e quelle ultime persone che non l’hanno ancora del tutto abbandonata. Teme di perdere Steve, di doversi schierare. Sente un fremito nelle palpebre e si affretta a poggiare d’istinto la fronte contro la sua spalla; si accosta a lui, attenta a non premergli sulla ferita, e riesce così a nascondere il velo che le ha annacquato a tradimento la vista. Lui non si sottrae, ma percepisce la sua sorpresa nel modo impacciato in cui la accoglie in un mezzo, goffo abbraccio, più di quanto si aspettasse e forse una sorta di perdono per chi non è abituato a concederlo. Lo sente respirare a fondo, per poi deglutire e aumentare la stretta sulle sue dita.
 
«Stai bene?» le chiede a bassa voce.
 
Lei annuisce appena, scostandosi da lui per mostrargli con fierezza gli occhi arrossati, ma di nuovo asciutti.
 
«Tu?»
 
Lui sbuffa piano e tira un sorriso spento, come a Lipsia.
 
«Sempre.»
 
Gli posa di nuovo una mano sul volto, accarezzandogli la guancia escoriata col pollice: vede il suo sorriso affievolirsi in risposta, come se con quel gesto avesse cancellato fisicamente la sua maschera. Sono due bugiardi, e lo sanno entrambi.
 
 
“Oh, you are not useless
We are just
Misguided ghosts”
 
 
 
Tony volta la testa, scivolando via dal suo tocco.
 
«Adesso, magari, potresti accettare quel ruolo di mediatrice e dire a Capitan Ipocrita di aspettare ancora un po’, prima di venire a rompermi di nuovo le scatole,» dice poi, senza sforzarsi di articolare le parole.
 
Nataša rimane con la mano a mezz’aria, gli occhi socchiusi nel tentativo di decifrare quella richiesta inattesa, a cui ha mirato finora. Non sa dire se sia scaturita grazie a lei, o se Tony ci stesse già pensando, timoroso solo di esternarla. Non ha importanza.
 
«Stai facendo la cosa giusta,» lo rassicura. «Avreste dovuto parlare tempo fa,» conclude, con un rammarico che non nasconde.
 
«Sto facendo l’unica cosa che posso fare,» ribatte lui, pragmatico. «Vedremo se sarà anche quella giusta. Di solito i miei buoni propositi mi si ritorcono contro.»
 
Nataša esita. Ha portato a termine la propria missione. Dovrebbe alzarsi, controllare la ferita di Tony un’ultima volta, e raggiungere Steve per dirgli che c’è una possibilità di chiarimento, un’offerta di pace. Eppure, rimane lì, trattenuta da quel commento probabilmente frutto di una temperatura corporea troppo alta e della spossatezza. Quando parla non ha nessun obiettivo in mente, se non quello di parlare.
 
«Ti sei mai pentito dei tuoi buoni propositi?»
 
L’ombra di Ultron si staglia nitida tra loro, e sa che riescono a vederla entrambi.
 
«È una domanda a trabocchetto?»
 
«Non intendo le loro conseguenze e non voglio né posso giudicarti,» chiarisce lei. «Ho troppe note rosse nel mio registro.»
 
Tony la guarda a lungo, assorto. Poi scuote la testa, in un movimento quasi impercettibile.
 
«Chiamalo ego, o complesso divino, o come ti pare: avevo progettato Ultron per un motivo, e quel motivo ha appena dimezzato l’universo perché non c’è stata un’armatura a fermarlo. [2] Non c’eravamo noi. Cambierei molte cose in corso d’opera, ma proverei di nuovo a evitare tutto questo. Evidentemente non sono molto bravo a prevenire disastri.»
 
«Perché sei un meccanico,» replica d’istinto lei. «Sei più bravo ad aggiustarle, le cose.»
 
«E a romperle, a detta di Banner [3],» ribatte caustico.
 
«A detta di qualcuno che distrugge città e ha seri problemi di autocontrollo?» lo rimbecca Nat, con una nota ironica nella voce, e Tony trattiene un sorrisetto spaccato, spontaneo.
 
Scuote la testa, e si china con cautela in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia con una smorfia tirata. Nataša solleva appena un lembo della maglietta per controllare la fasciatura, ma la chiazza rossa sul ventre è contenuta, quella sulla schiena appena accennata. Tony la fissa di sottecchi, sospettoso, ma non si ritrae.
 
«Non so come aggiustare… questo,» dice poi, con improvvisa veemenza, e boccheggia come se volesse continuare, ma non trovasse le parole giuste. «È fuori dalla mia portata. Non sono un mago o uno stregone e non posso alterare… l’essenza stessa della realtà, ma solo modificarla con ciò che costruisco. E quando progetto qualcosa lo metto in pratica… e quando agisco sul campo faccio cose tangibili tipo portare una bomba in un portale o sparare un uniraggio in una città volante, ma adesso come…»
 
«Tony,» lo interrompe lei, arginando quel fiume di parole. «Io sono una spia e un’ex-sicario: so lavorare solo sul campo. Il massimo dell’astrazione che mi è richiesta è elaborare piani sensati e tattiche efficaci, assieme a un po’ di abilità nel leggere e raggirare il prossimo…»
 
«Molta abilità,» puntualizza a mezza voce lui, e non sa se sia una recriminazione o un complimento; probabilmente entrambi.
 
«… ma mi hanno insegnato a focalizzare un bersaglio e a colpirlo con ogni mezzo,» prosegue, posandogli una mano sulla spalla e facendolo trasalire appena. «E adesso miriamo tutti allo stesso bersaglio,» conclude, cercando i suoi occhi senza trovarli. «Dobbiamo riportarli indietro, Tony. A qualunque costo [4],» sottolinea, convincendolo ad alzare finalmente lo sguardo. «Non possiamo farlo, se non siamo uniti. Lo sai,» conclude, e invece di una risposta ottiene un altro silenzio.
 
«Lo so,» gracchia infine, senza aggiungere altro. «Sarebbe tutto molto più semplice, se non ci mentissimo costantemente a vicenda. Mi includo nel conto,» aggiunge, prima che Nataša possa puntualizzarlo.
 
«Tu quando hai capito che ti stavo mentendo?» chiede invece, sinceramente curiosa, con il suo addestramento che prevale sul resto spingendola a trovare la falla e a chiuderla.
 
«Non l’avevo capito… sono solo molto paranoico,» replica lui, prendendola in contropiede. «Ma sono contento che tu non l’abbia negato, perché prima o poi l’avrei scoperto. E avrei perso qualcun altro.»
 
«Mi dispiace,» risponde lei, senza guardarlo. «Non sono mai stata brava a tenermi stretta le persone a cui tengo,» dice poi, quasi precipitosa.
 
«Non ce l’ho con te,» la sorprende lui. «Mi hai mentito, ma capisco il perché. E almeno non mi hai piantato uno scudo nel petto: lo apprezzo molto,» conclude, con amaro sarcasmo, e poi sembra perdersi nei suoi ragionamenti, con lo sguardo fisso a terra e le dita intrecciate. «Cosa si dice a uno che ti ha quasi spaccato la cassa toracica due anni fa? [5]» mormora poi, e sembra affranto.
 
«Cosa vuoi che gli dica?» ribatte lei, vedendolo, vedendo lo spiraglio e la via d’uscita e impedendogli di sigillarsi di nuovo.
 
Lui sembra sorpreso dal fatto che si sia offerta di intercedere, ma si riprende dopo appena un istante di esitazione.
 
«Mezz’ora,» sussurra, e la sua voce trema di nuovo. «Digli di aspettare mezz’ora. Se non esco io, può cercarmi lui,» aggiunge in fretta, e nel dirlo stringe le labbra, come se gli pesasse concedergli quella libertà.
 
Nataša annuisce appena, con una traccia di sollievo a schiarirle i pensieri più intrecciati del solito. Lo vede coricarsi sul fianco sano e stavolta non lo ferma, anzi, lo aiuta a mettersi sotto il lenzuolo per smorzare i brividi della febbre. Va in bagno, perlustra l’armadietto dei medicinali e lo forza a mandar giù un antipiretico e un bicchiere d’acqua, rimanendo seduta sulla sponda del letto per tener d’occhio le sue condizioni prima di vestire i panni della mediatrice. Lui non la incita a uscire, e lei non si sente spronata ad affrettarsi, con quella mezz’ora che si sposta pigramente nel tempo, che ormai ha perso significato.
 
Nataša sorride appena, e gli pettina all’indietro le ciocche scure incollate alla fronte più fresca. Tony rimane in silenzio, più rilassato, col volto reclinato contro il cuscino. Lei lascia passare quasi dieci minuti nel silenzio più assoluto, le mani in grembo, ascoltando solo il suo respiro che si fa man mano più profondo e rallentato nonostante gli occhi semichiusi.
 
«Te l’ho detto che non volevi rimanere solo,» lo rimbrotta infine, con fare saputo.
 
Lui arriccia un angolo delle labbra.
 
«Me la cavo benissimo, da solo, e anche tu,» mente, con quel suo modo di parlare per opposti che Nataša ha imparato a decifrare nel corso degli anni. «Ammettilo: sei qui solo perché ti mancavo, agente Romanov,» continua, ora con un mezzo sogghigno.
 
Lei gli arruffa per ripicca le ciocche che gli ha sistemato, trattenendo un lieve sorriso nel veder riemerge un’ombra sbiadita del suo fare scanzonato.
 
«Neanche un po’, Stark.»
 
 
*
 
 
 
“And there's no one road
We should not be the same”
 
 
Nataša respira l’aria densa e umida del mattino ancora grigio, imbevuto degli strascichi del temporale appena placato. Il grido lugubre di un uccello esotico si leva sopra il frinire sempre più fievole dei grilli e degli insetti notturni, e lei guarda verso la giungla che finalmente ha smesso di fumare, sedata dalla pioggia. Una processione ordinata di gazzelle avanza nella savana, aggirando il campo di battaglia con precisione tanto intenzionale da essere inquietante.
 
Nataša si stringe le braccia, affondando le dita nella pelle d’oca, e punta di nuovo lo sguardo sulle montagne che delineano l’orizzonte. Si sente piuttosto fiera di aver convinto le due persone più cocciute e orgogliose del pianeta a parlare a un tavolo delle trattative e non su un ring.
 
 
Adesso sente una piccola parte del proprio petto che ha smesso di bruciare – non il dolore che potrebbe provocare una fiamma, ma il metallo ghiacciato che si incolla alla pelle, ustionandola a freddo. Adesso è più sopportabile; qualcuno le ha posato un panno tiepido sull’ustione, causandole un formicolio intenso e sgradevole, ma segno che i suoi nervi sono ancora intatti, che sarà ancora in grado di sentire qualcosa. Il calore di un corpo amato, la freschezza di un volto arrossato dal gelo. Ma sa che è inutile, perché non può più toccarli. Sono svaniti, portando con sé un pezzo di ciò che era riuscita a diventare, forse il più importante. E non è sicura di poter riempire quel vuoto.
 
Steve ci ha provato, Tony ci ha provato: non può rinfacciare loro nulla. Le uniche braccia che potrebbero scaldarla sono cenere, e sono anche il motivo per cui due delle persone a cui tiene di più al mondo hanno scavato una trincea a separarli; le uniche che potrebbero sorreggerla sono impegnate a sostenere il proprio dolore, lontano da lì – così vuole sperare.
 
Vuole sperare.
 
Stringe il ciondolo a forma di freccia nascosto sotto la maglietta, ne conficca la punta nel polpastrello del pollice fino a bucare la pelle. Sente il calore vermiglio che le cola lungo la mano.
 
Si concentra su quello, su quella scia rossa che la macchia e continua a segnare i suoi passi, e su quelle salate che finalmente le rigano le guance, viste soltanto da un’alba che sembra finalmente un po’ più vicina.

 
 
 
“But I'm just a ghost
And still they echo me

They echo me in circles”
 
 
► Continua su: Comunicazioni interrotte
► Spin-off: Mentre tutto scorre

 
 
 Note:
 
[1] Riferimento a Siberia, in cui Tony ripara lo scudo di Steve dai danni causati da T‘Challa.
[2] Questo passaggio è stato elaborato prima che uscisse Endgame, per quanto paradossale possa sembrare, e sono contenta di aver predetto una delle scene clou del film :’)
[3] Riferimento a Comunicazioni Interrotte, in cui Bruce rivolge un’accusa a Tony.
[4] Contrariamente al resto della storia, questo passaggio è stato scritto post-Endgame, volendolo citare esplicitamente.
[5] Citazione diretta a Speaking Terms, dove è Steve ad avere un pensiero speculare.

Note Dell'Autrice:

Cari Lettori (se ne è rimasto qualcuno, s'intende),
Ho abbandonato questa storia a se stessa per un periodo lunghissimo, causa calo d'ispirazione, mancanza di voglia e... sì, dimenticanza, perché avevo rimosso la sua esistenza. Però ci tenevo troppo per lasciarla incompleta, così eccomi qui, con la speranza che questo "finale" sia di vostro gradimento. E il riferimento all'anima è assolutamente intenzionale. Vi invito a leggere anche la serie, in quanto copre molti interrogativi qui dati per scontati o esplicitati nelle note :)
Ringrazio tantissimo T612, _Atlas_ e shilyss per aver recensito gli scorsi cpaitoli, e tutti coloro che l'hanno aggiunta alle ricordate/preferite/seguite. Grazie di cuore <3
Alla prossima,

-Light-

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