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Autore: _Lightning_    27/03/2019    6 recensioni
L’unica reazione di Tony è un respiro leggermente più sonoro del normale, ma i suoi occhi sembrano solidificarsi in due lastre scure e opache.
Contemporaneamente Thor si avvicina ancora, passando da osservatore esterno a potenziale partecipante, e Rhodey scatta a sua volta in piedi con fare allarmato. Nataša scruta i presenti con sguardo attento, come un felino in agguato, e Bruce non abbandona il suo atteggiamento ostile e incupito.
Steve sente la situazione precipitare.
La percepisce quasi sfuggirgli tra le dita come sabbia mentre cerca freneticamente un modo, una frase, un’azione che possa arrestarne la caduta inesorabile.

Dopo lo schiocco, Steve si trova alle prese con una squadra distrutta dalle perdite, spezzata dall'interno e incapace di far fronte unito. Toccherà a lui radunare i pezzi, suoi e degli altri, per prepararsi allo scontro finale. E molti di quei pezzi sono rimasti in Siberia, in un bunker gelido.
[post-Infinity War // Introspettivo // PoV Steve // Civil War fix-it // scritto prima di Endgame]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bruce Banner/Hulk, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Thor, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Schegge'
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9. Caduta libera
 
 
 
Don't cover yourself with
Thistle and weeds
Rain down, rain down on me

 
 
 
I pesanti scarponi da combattimento incrinano la superficie intatta del manto di neve con uno scricchiolio acuto. Il bosco in letargo attutisce i loro passi, inghiottendoli a poco a poco nelle sue viscere gelate. L’alba è vicina, ma la luce muore nel grigio uniforme del cielo, privandoli della striatura lattea e delle fioche candele turchine che li guidano in notti più chiare. I pini attorno a loro sono incolori e sembrano disegnati a carboncino e grafite su una delle pagine del suo quaderno.

Si accovaccia dietro un abete sradicato dal vento, col respiro denso che gli appanna gli occhialoni da aviatore e le ciglia orlate di brina che gli graffiano le guance; alza il pugno sinistro e lo scricchiolio di scarponi che lo segue s’interrompe all’unisono. Scruta il quadrante mobile e traballante della bussola, e prima del Nord trova gli occhi scuri e dolci che ricambiano sempre il suo sguardo. Vi indugia per un solo istante, per poi richiudere il coperchio con uno scatto e riprendere l’avanzata, una linea diritta, secca, che taglia arbusti e radici e torrenti ghiacciati e basse collinette.

Si accorge in ritardo dell’assenza di suoni dietro di lui. Scocca un’occhiata dietro di sé e incontra il fitto muro d’ombra del bosco; a seguirlo c’è solo la scia profonda delle sue stesse orme. Slaccia rapido lo scudo dal sostegno sulla schiena e lo imbraccia con una mossa sicura calcandosi l’elmetto blu in testa, l’adrenalina che gli scorre bollente nelle vene. S’inerpica sulla scarpata appena discesa, sfaldando i contorni nitidi delle proprie suole impresse nel bianco, fino ad affacciarsi sul basso crinale addolcito dalla neve. Un lumicino in lontananza attira il suo sguardo – forse una lanterna cieca. Un rumore estraneo gli punge i timpani: uno stridere indistinto di ferro contro ferro, di pistoni e pulegge che si incastrano meccanicamente spostando un peso immenso – forse un panzer tedesco. Stringe i legacci dello scudo, sbiancandosi le nocche escoriate, pronto allo scontro man mano che il puntino luminoso s’ingrandisce e lo sferragliare diventa assordante, in rotta di collisione con lui. Lo aspetta a scudo alzato, piantato al suo posto.

Il treno balza fuori dagli alberi su rotaie invisibili, urlando come una bestia ferita mentre perfora il bosco, trascinandolo sospeso su una gola a strapiombo che si spalanca sotto i suoi piedi. La vertigine gli fa girare la testa mentre scalcia nel vuoto e manca l’appiglio di una mano, di nuovo, e stavolta è lui a cadere nell’aria fredda che sembra tagliarlo a metà, ed è lui a urlare contro il vento che lo trascina in basso, sempre più in basso, oltre lo strato di neve e roccia e poi sott’acqua, nella morsa del ghiaccio che lo stritola e gli mozza il respiro, riempiendolo di cenere…

«Steve!»
 
***
 
Riapre gli occhi con uno spasmo, l’urlo di Bucky ancora nelle orecchie e la sensazione di avere i polmoni congelati e compressi nel torace. Ha la pelle d’oca, nonostante la temperatura wakandiana sia dolce, appena rinfrescata dal recente temporale. Si sfrega con vigore le braccia, cercando di scacciare quella sensazione sgradita e inspirando a fondo, espandendo al massimo il petto ampio e formicolante. Viene assalito da un conato quando guarda in basso e scorge il vuoto sotto la grata di ferro su cui è seduto – per un attimo è sospeso tra il treno sulle Alpi e l’ottovolante a Coney Island, e non sa quale ricordo faccia più male. Serra i pugni, cercando un ritmo al proprio respiro sobbalzante.

È per questo che odia dormire, soprattutto dopo le battaglie, soprattutto quando le ha perse: la sua mente diventa un diorama infernale e ossessivo al quale non può sottrarsi, e stavolta neanche la realtà può essergli di consolazione.
Si alza di scatto, le membra di piombo e la testa che pulsa e sembra cigolare, arrugginita; si sente la gola riarsa e dolorante, e si chiede se non abbia urlato davvero nel sonno. Lancia un ultimo sguardo alla savana ormai invisibile nel buio notturno, sopprime un brivido e rientra, chiudendo di scatto la porta-finestra dietro di sé.

Fa troppo freddo, là fuori.
 
***
 
La sua idea di passare in sala comune e bere almeno due litri d’acqua per poi andare a coricarsi – non a dormire: finirà a sfogliare il quaderno o guardare la foto nella bussola rimpiangendo di non potersi ubriacare – s’infrange non appena mette piede nella stanza: scorge i capelli scuri di Tony fare capolino dallo schienale del divano.

Per un istante, è convinto che lo stia aspettando, ma gli basta cambiare un poco angolazione e scorgere il suo volto per rendersi conto che ha gli occhi chiusi. Dalla postura, è evidente che non abbia avuto alcuna intenzione di addormentarsi: è semisdraiato, col cellulare in grembo trattenuto mollemente dalle dita appena contratte e la testa reclinata tra schienale e bracciolo in un’angolazione rigida. Anche nel sonno la sua espressione è corrucciata, con le sopracciglia a formare un solco afflitto sulla fronte. Una notifica lampeggia insistente sullo schermo del telefono, ignorata.

Sarebbe più saggio ritirarsi nella propria stanza e rimandare qualunque discussione al mattino, ma la vista di una bottiglia d’acqua sul piano della cucina è troppo invitante, e si trova a dirigersi lì in punta di piedi. Forse, in fondo, vorrebbe che Tony si svegliasse per parlarci adesso, come poco prima ha desiderato di essere colto sul fatto ad origliare. Si impegna comunque a non fare rumore, perché, a prescindere da tutto, non crede che l’ingegnere abbia avuto molte occasioni per dormire nell’ultima settimana. Svita il tappo della bottiglia e fa scomparire quasi tutto il litro d’acqua in una manciata di secondi, assetato; sta per gettarla nel cestino, quando fa scoppiettare per sbaglio la plastica, con un pop che risuona secco nella sala comune.

Si immobilizza, teso, ma Tony si limita a emettere un respiro un po’ più profondo e rumoroso, prendendo poi a russare flebilmente. Steve getta via piano la bottiglia ed esita ancora a lasciare la sala comune, anche se immagina che Tony non sarebbe felice di saperlo nei suoi paraggi in un momento in cui è completamente vulnerabile. D’altronde, la discussione origliata gli impedisce di comportarsi come vorrebbe, e gli sembra che le parole che gli ha indirizzato continuino a scavare dentro di lui, riaprendo voragini mai del tutto riempite.

Sta meditando sul da farsi, poggiato a braccia conserte sulla penisola della cucina, quando sente Tony lamentarsi debolmente nel sonno, per poi muoversi inquieto. Steve si inclina appena per scorgerlo oltre lo schienale, e nota come adesso la sua mano sia contratta attorno al cellulare, la mascella digrignata, gli occhi serrati con forza a scavare quella piega in mezzo alla fronte. Attende qualche istante e lo vede rilassarsi appena, per poi essere scosso da un altro spasmo che gli spezza il respiro, adesso accelerato come se fosse nel mezzo di una corsa. Steve si avvicina d’istinto, consapevole che svegliare qualcuno da un incubo non è mai una mossa saggia, ma allo stesso tempo incapace di stare semplicemente a guardarlo mentre si dibatte nel sonno. Avrebbe voluto anche lui che qualcuno lo svegliasse prima di precipitare.

«Tony?» tenta a voce piuttosto bassa, ma lui non reagisce, ancora preda delle sue inquietudini. «Tony, svegliati,» prova di nuovo, alzando leggermente il volume, ma tutto ciò che ottiene è mandarlo in una preoccupante apnea.

La mossa successiva gli viene spontanea e non riesce a frenarla per tempo: si china leggermente verso di lui e allunga una mano per riscuoterlo. Se ne pente nell’istante stesso in cui gli sfiora la spalla.
Tony si sveglia con un brusco sussulto, voltando subito la testa verso di lui. Nel giro di una frazione di secondo i suoi occhi annebbiati si sbarrano nel metterlo a fuoco, illuminandosi di un vivo terrore, e le sue mani scattano frenetiche in alto, a riparare il volto. Come in Siberia.

Steve si ritrae immediatamente come se si fosse scottato, col fantasma dello scudo a pesargli tra le mani. Tony mantiene quella posizione difensiva ancora per qualche secondo, quasi paralizzato, prima di rialzarsi a sedere di scatto col respiro ansante, confusione e rabbia che si alternano concitate sul suo volto.

«Che diavolo fai?» annaspa irato, portandosi una mano a stringere convulsamente la camicia all’altezza del cuore.

«Stavi avendo un incubo,» esordisce subito Steve, parando a sua volta le mani avanti a placarlo e proteggersi allo stesso tempo, rendendosi conto di essere in una posizione delicata.

«E secondo te cosa cazzo stavo sognando?» lo aggredisce di rimando lui, per poi alzarsi nonostante l’affanno.

Si piega sul fianco ferito per quel movimento brusco e la sua gamba quasi cede, ma mantiene l’equilibrio. Continua a fissarlo, il volto madido di sudore e lo sguardo furibondo piantato su di lui, senza più alcuna barriera a filtrarlo. Steve vorrebbe sostenerlo, e fino a qualche ora prima ne sarebbe stato in grado – come aveva fatto anche in Siberia – ma adesso riesce a leggere tutte le accuse nascoste in quelle iridi scure e torbide, e si trova a sfuggirle. Rimane comunque saldo al proprio posto e sa che deve rimanerci, se vuole trovare una breccia nel dolore e nel risentimento di Tony, anche adesso che hanno preso il sopravvento su di lui.

«Posso immaginarlo,» risponde a voce bassa, e vede un lampo di confusione stemperare per un istante le linee distorte del suo volto.

Annuisce secco, ricomponendosi nonostante stia tremando, non sa se per la rabbia o per gli strascichi dell’incubo; forse entrambe le cose.

«Bene. Allora sai anche che faresti meglio a sparire,» proferisce, la voce talmente piatta da risultare innaturale e in contrasto con le emozioni aguzze che si agitano nei suoi occhi.

Steve tentenna sostenendo il suo sguardo in modo incostante, di un mirino che sobbalza senza riuscire a fissarsi sul suo bersaglio.

«Non dovresti stare solo, adesso,» replica, in un modo troppo debole che non gli appartiene e accentuato dalla gola irritata.

Tony soffia aria dalla bocca in un verso seccato.

«Cos’è, ti sei messo d’accordo con Rhodey?» un sorrisino di scherno gli attraversa gelidamente le labbra. «Ti ho detto di andartene, soldato. Non farmelo ripetere,» la voce quasi gli stride tra i denti e Steve nota il fremito istintivo delle sue dita, quasi si preparasse a richiamare l’armatura.

«Non è questo il momento per lasciarsi andare,» insiste, vedendo la potenziale breccia restringersi e imponendosi di ignorare quell’atteggiamento scostante. «Adesso dovremmo…»

«Due ore, Rogers!» esplode senza preavviso Tony, e Steve ammutolisce, spiazzato, quasi avesse udito un colpo di pistola. «Ho rinunciato al funerale di Peggy per non intromettermi col tuo dolore, e adesso tu sei incapace di non starmi tra i piedi per più di due ore?!» gli grida ancora addosso, puntandogli contro un dito accusatore che sembra trapassarlo.

Steve quasi boccheggia, mentre tutte le mezze strategie che aveva elaborato in precedenza si sfaldano davanti a quell’anomalia imprevista.
Tony non alza mai la voce. Si irrita e indispettisce, fa uso di un sarcasmo sprezzante, lancia occhiate gelide e frecciatine velenose o si chiude in un silenzio risentito, ma non tenta mai di sovrastare l’interlocutore in modo puramente fisico. C’è stata un’unica occasione in cui si è alterato con lui al punto da ricorrere a quell’espediente dettato dall’esasperazione, e punge ancora nella sua memoria con le fronde di quel primo, maledetto ramoscello d’ulivo rifiutato.

Per un istante, non riesce a collegare ciò che ha appena sentito con pensieri compiuti, ma solo col peso della bara di Peggy sulla spalla e con l’asfissiante odore dei ceri nella cattedrale. Poi ripiomba di schianto nel presente, nell’aria altrettanto soffocante della sala comune, a fissare negli occhi una sofferenza che lui stesso ha provato sulla sua pelle, due volte. Sotto la rabbia per quell’affondo a tradimento, si ritrova a capire Tony, perché anche lui ha perso il conto dei sacchi da boxe distrutti per la scomparsa di tutti i suoi compagni dopo settant’anni nel ghiaccio, e anche lui si è trovato a voler gridare fino a lacerarsi le corde vocali quando è morta Peggy.
Sa che non è la stessa cosa e che agli occhi di Tony non potrà mai esserlo per principio, ma sa anche che il senso di colpa per non essere stati, per Peggy, per Pepper, corrode entrambi allo stesso modo. Spera in quello, adesso, in quel dolore comune che può fare da terra di nessuno, concedendo loro una tregua.

«Tony, so come ti senti,» esordisce con una frattura nella voce che non ha più alcun interesse a camuffare.

«Ah, lo sai?» lo provoca Tony, di nuovo sferzante, ancora a voce troppo alta.

Avanza di un passo verso di lui e indietreggia al contempo, al riparo delle sue stesse parole.

«Sei davvero così ipocrita da giocarti la carta della compassione?» continua sempre più alterato, riducendo ancora le distanze tra loro.

Steve rimane piantato al suo posto, irremovibile, ad arginare la sua avanzata.

«Non sono ipocrita: ho perso anch’io qualcuno,» ripete, trattenendosi dal pronunciare quel “tutti” che gli preme in gola da una settimana, perché non può ancora trasportare quel concetto nel mondo reale.

Le sue parole, per un istante, sembrano far breccia in Tony, perché si arresta a mezzo metro da lui col respiro costretto di chi ha appena ricevuto un pugno nello stomaco; fanno breccia e poi rompono gli argini che si è costruito intorno, liberando tutto il rancore e la sofferenza sotto pressione che ha tenuto sotto controllo finora:

«Chi, il tuo amichetto omicida? Che peccato,» sputa fuori, in uno sbocco di fiele.

Steve incassa il colpo solo perché sa che quella è una facciata e ricorda le sue vere parole sulla morte di Bucky, altrimenti non risponderebbe di sé. Sta per ribattere e rievocare Peggy, l’averla persa prima per uno scherzo del tempo e poi per sempre, ma Tony lo anticipa, impietoso:

«E non venirmi a parlare dei tuoi insulsi appuntamenti mancati, Rogers, perché io sto per mancare le mie nozze!» sbotta, e nel parlare gli rifila un inatteso, violento spintone in pieno petto, come a scansare da sé anche tutto ciò che lo assilla.

Steve reagisce d’istinto, coi riflessi da soldato che agiscono prima del suo ordine: lo respinge indietro nonostante abbia percepito a malapena la colluttazione, facendolo urtare di schiena contro la penisola della cucina. Lo vede barcollare e stringersi il fianco con un sibilo, accecato da una fitta; prima che si possa raddrizzare Steve lo afferra per il colletto, inchiodandolo sul posto e strattonandolo per obbligarlo a guardarlo negli occhi, cercando comunque di non pesargli troppo addosso. A fissarlo di rimando trova solo risentimento e sfiducia, ad annegare le sue iridi un tempo calde e brillanti.

«Lascia fuori Peggy,» gli ringhia in faccia, livido, gettando al vento ogni pacatezza e rispondendo all’indignazione che gli torce le viscere. «E se hai qualcosa da dirmi, dillo adesso. Oppure mettiti l’armatura,» lo sfida poi, come sei anni fa sull’Helicarrier.

Aumenta senza volerlo la presa sulla stoffa e suscita un lampo di panico sul suo volto, lo stesso che l’ha attraversato in Siberia; allenta le dita di riflesso e si sente afferrare il polso in una morsa, mentre Tony cerca di divincolarsi; gli impedisce di sottrarsi.

«Ti ho già detto tutto in Siberia,» replica quindi in un sibilo strozzato. «E lo penso ancora: non ti meriti il mio perdono, come non ti meriti lo scudo di mio padre,» conclude senza alcuna esitazione, freddo come e più di allora.

«Perché mi hai mentito, allora?» lo incalza a voce più alta, senza mollare la presa, impedendogli di ritirarsi ed evitare il confronto come altrimenti cercherebbe di fare.

«Non ti ho mentito!» ribatte lui, alterandosi a sua volta, e Steve non può che digrignare i denti in silenzio a quella sfacciata bugia. «E poi da che pulpito parli, tu?» lo attacca poi, aumentando la stretta sul suo polso fino a conficcargli le unghie nella pelle. «O sei l’unico a poter raccontare stronzate?» lo incalza ancora, serratamente.

«L’ho fatto a fin di bene.»

«Anch’io.»

«L’unico bene che conosci è il tuo,» lo rimbecca Steve, furioso. «Pensavo di essermi sbagliato, ma hai sempre combattuto solo per te stesso,» lo accusa poi, e frena senza difficoltà lo scatto di Tony, che a quelle parole tenta d’istinto di assestargli una testata in pieno viso.

«E tu, invece? Tu non combatti per te stesso, Rogers?» lo rimbecca, la voce che gronda veleno. «Dove li hai bruciati, i rifiuti degli uffici di arruolamento? Dov'era il tuo orgoglio quando hai implorato mio padre ed Erskine per renderti migliore di quanto non fossi? O quando hai messo il bene di una singola persona al di sopra di quello della squadra?»

Steve frena sul nascere il pugno diretto al suo volto, nonostante il sangue gli stia rombando nelle orecchie, invitandolo a riprendere quella lotta mai davvero conclusa in Siberia.

«Quello l’hai fatto tu con Ultron e con gli Accordi, perché non riesci mai a lasciarti alle spalle i tuoi sensi di colpa,» sillaba, aumentando la pressione su di lui. «E se non sei in grado di andare avanti neanche adesso che abbiamo perso tutto, forse è il momento che tu ti faccia indietro,» scandisce, vedendo l’ira accavallarsi sempre più nei suoi occhi.

«Se pensi che io debba farmi indietro solo perché non sono un soldato perfetto avresti dovuto farlo anche tu, quando altri hanno creduto lo stesso di te,» risponde lui, adesso glaciale.

Per un singolo istante, Steve pensa che potrebbe anche lasciarsi sfuggire quel pugno, caricato da quell’ultima accusa, ma forse gli farebbe un favore. Molla di colpo la presa, lasciando Tony ad accasciarsi contro il mobile a riprendere fiato, scosso da brividi. Vorrebbe trovare una replica egualmente meschina e tagliente, ferirlo e vederlo cedere ammettendo i propri suoi errori, ma la stoccata di Tony è stata più rapida. E non ha colpito lui, né Capitan America, ma il ragazzino asmatico e rachitico che faceva a botte nei vicoli di Brooklyn, trovandosi sempre a ingoiare polvere e il suo stesso sangue finché non arrivava una mano fidata a farlo rialzare. Infine, le parole gli salgono spontanee alle labbra in tutta la loro crudezza:

«È tutto qui, quello che sei senza armatura?»

Tony incassa fisicamente il colpo e gli scocca un’occhiata cupa e carica di bile, che però sembra spegnersi quasi subito, mutando in un’espressione addolorata. Fa per dire qualcosa, per poi girare di scatto la testa, premersi una mano sul fianco e zoppicare fuori dalla sala comune senza più degnarlo di uno sguardo.

Steve non tenta di fermarlo, con la rabbia appena emersa che evapora in uno sbuffo effimero. Si lascia scivolare seduto sul divano, sulla parte opposta a quella dove era sdraiato Tony, e si sente le gambe di gelatina. Si passa le dita tra i capelli troppo lunghi, tirandoli indietro per poi afferrarli in un moto di frustrazione, trattenendosi dal gridare quando l’ennesima fitta minaccia di spaccargli il cranio.

L’eco di una porta sbattuta arriva fin laggiù, definitivo.


 


Note Dell'Autrice:

Cari Lettori,
mi sono accorta con immenso ritardo del fatto che, durante una revisione, ho accidentalmente sovrascritto questo capitolo con quello successivo, creando un "doppione" e cancellando di conseguenza note, contronote e svariate correzioni che purtroppo non sono in grado di recuperare, perché da brava cretina non l'avevo salvate su PC. Ringrazio chi ha recensito in precedenza citando delle frasi della storia, fornendomi inconsapevolmente un back-up parziale <3
Mi limito quindi a dire a chi arriva qui per la prima volta che spero abbiate apprezzato questo primo, turbolento confronto tra le nostre due teste calde preferite :')

Grazie a tutti coloro che hanno recensito e inserito la storia nelle loro liste :)

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