Per quanto il nome sia /la/ tematica cardine per il personaggio di Finn, raccontarla in questi termini, come affrancatura da una semplice sigla, ti è riuscito in maniera efficace. L'arrivo di Poe rappresenta una nascita, una rottura con la tradizione e l'abitudine che avevano privato il protagonista della sua speranza per il domani.
Non sei stata funzionale al testo: hai caricato il personaggio di riflessioni dettate da una vita trascorsa nell'anonimato, nella definizione perpetrata da altri ai suoi danni; un'esteriorità che lo stormtropper metabolizza e rende tristemente sua nella rassegnazione tipica di chi conosce l'abuso e deve adattarvisi.
Finn trova se stesso nel momento in cui gli viene attribuito un nome e riesce a creare una propria "coscienza sociale", un'identità modellata su chi intende essere fra gli altri suoi pari, non su cosa ha incarnato nel corso degli anni sotto la tirannia. Si sente per la prima volta parte di qualcosa – una sensazione che stordisce, quasi inopportuna in mezzo a un conflitto che avanza – eppure totalizzante, impossibile da spingere via, proprio per l'eccezionalità del momento, del risveglio. È una rivelazione che gli piomba addosso, quasi fosse stata destinata esclusivamente a lui.
Il nome acquisisce perciò la gravità e l'individuazione di una forma di riconoscimento: si qualifica quale caratteristica per essere distinti e tributati come persone con dei diritti, con un proprio io pensante e agente, accettato e condiviso in una collettività. Ne scaturisce una profonda e curiosa spaccatura con il passato, una breccia avvertita con stupore da Finn stesso, che lo spinge a (ri)pensare il suo sé in altri termini, con quello smarrimento che verrà fuori nel corso della pellicola.
È il primo passo verso l'autoconsapevolezza, un cammino di riscoperta psicologica e di edificazione del proprio ritratto mentale.
La narrazione è pulita, scarna e non lascia spazio ai dubbi. I periodi sono quasi incastrati tra loro, riempiono la bocca, si attaccano ai denti e fluiscono con un grande controllo sulla scorrevolezza. Il messaggio è autentico, veicolato “di getto”, senza il filtro della forma o della retorica e questo tratto riesce ad adattarsi al soggetto del narrato, dandogli verosimiglianza.
È curioso notare come tu abbia – non so se inavvertitamente o con intenzionalità – racchiuso all'interno della drabble l'eredità della sigla 2187, un rimando alla condizione di prigionia subita dalla Principessa Leia nella cella numero 2187. Questa sigla ha in fondo ingabbiato anche Finn per tutta un'esistenza, impedendogli di guardare oltre, di vivere altro tipo di aspirazioni, anestetizzate con le esercitazioni e la violenza quotidiana. È una condizione che calza al prototipo del soldato, a chi non si è arruolato volontariamente e che subisce la “causa” dei superiori e dei potenti, senza riflettersi in essa.
2187 è anche il simbolo dell'incomunicabilità umana, del rapportarsi all'altro come oggetto inanimato, a cui fa fronte la necessità d'interiorizzare e riversare i propri pensieri sul Sé segreto, contemplando l'ambiente circostante e l'alterità degli esseri viventi (un po' ciò che Lucas ha voluto condensare nel concetto di “Forza”, quel guizzo superiore indescrivibile e indefinito, paragonabile alla sensazione di trovarsi dinanzi al divino).
È stata una buona prova: mi ha ricordato un po' l'assetto narrativo ironico e sfacciato di Tsutomu Nihei, quel suo aprire in modo “desolante” la scena con frasi lineari e immagini limpide, prive d'ambiguità. |