Recensioni per
J’écris ton nom
di Ryo13
Ciao Rita! Che storia splendida. L'intera narrazione rivela una sensibilità infinita, che tu hai magistralmente riversato nella voce e nei gesti della bella Aurélie. Ho apprezzato che tu abbia dato una spiegazione al motivo per cui questa donna fosse così avversa al matrimonio e agli uomini, ed è triste pensare che artefice di una tale insicurezza sia stato proprio suo padre, capace di convincerla che tutti l'avrebbero trattata allo stesso modo, arrogante e autoritario. Non è difficile credere quanto Aurélie preferisca isolarsi nella natura, ascoltare la voce del vento o la linfa che scorre nelle venature degli alberi, poiché solo in questo trova accettazione. |
Ciao carissima^^ |
Ri-ciao. Una storia basata sul tema più prezioso, la libertà. A un certo punto, oltre a Éluard, entra in scena anche Charles Baudelaire, con “L’albatros”. Ho apprezzato in particolare i dialoghi che si instaurano tra i due personaggi, Etienne e Aurélie, che invece di smarrirsi in romanticherie e banalità varie veicolano un messaggio importante. “È al pericolo della vita che lo lasciate,” dice Etienne parlando del gabbiano Liberté. “Ogni creatura prima o poi lo deve affrontare e misurarsi con ciò che gli è ignoto.” La libertà vera, infatti, è sempre un correre il rischio, senza rischio non c’è scoperta, non c’è il brivido della brezza, non può esprimersi la vera natura dell’uomo e del gabbiano. Spesso la paura blocca, e forse una delle paure più grandi è quella di rimanere imprigionati, con le ali tarpate: nel gabbiano ferito che non riesce a volare Aurelié indubbiamente vede se stessa, intrappolata in una situazione senza apparente via di uscita. L’amore per la natura della protagonista, il senso di vicinanza e l’empatia che prova nei confronti delle creature del regno vegetale e animale parlano chiaro: lei è un’anima libera che non può essere imprigionata, costretta in un ruolo che non ha scelto liberamente. Per secoli il matrimonio ha rappresentato, per le donne, la gabbia di un destino inevitabile: un marito da subire, la trafila dei figli da allevare, lo spegnimento di ogni ambizione, talento e idea di autonomia. Molte vi si sono adeguate, moltissime – per educazione e cultura – vi hanno visto lo sbocco naturale della loro vita di donne: poi ci sono state quelle che possedevano un talento, un anelito, un desiderio che le conduceva altrove e che non poteva tollerare di restare imprigionato, pena lo spegnimento della loro stessa esistenza. Quasi sempre, come nella tua storia, erano proprio le donne a voler costringere in quel recinto altre donne: della giovinezza di Caterina da Siena si conoscono soprattutto le lotte senza esclusione di colpi che la futura santa instaurò con sua madre per sottrarsi alle nozze e seguire liberamente la propria vocazione. Liberamente, vedi come spesso ricorre questa parola! La tua storia invita a non volersi precludere una strada soltanto per paura. Giustissimo ma difficile: per Aurelié il matrimonio è visto come la gabbia per eccellenza, la prigionia definitiva: consegnarsi a un estraneo e buttar via le chiavi. Finire in pasto a un uomo che fa e disfa senza discussioni né remore, un perfetto ritratto del padre. Per una figlia femmina il padre è visto un po’ come il prototipo del genere maschile: visto uno, visti tutti. Se Etienne è diverso, lo dovrà dimostrare. In parte ci riesce nel corso della storia, ma il cammino per conquistare la fiducia di Aurelié è ancora lungo, e mi è piaciuto il fatto che tu abbia escluso il lieto fine canonico, privilegiando un epilogo più realistico e denso di significati. |