Ciao! |
Questa storia è una meraviglia. Credo di non aver mai letto nulla sui fratelli Lestrange e, sospetto, dopo questa mi risulterà difficile trovarne di altre altrettanto belle. Che io abbia adorato la caratterizzazione dei fratelli, credo sia una premessa inevitabile. Il "tenersi per mano" non è solo un'immagine che ricorre nella storia, ma è anche la delicatezza con cui hai condotto il lettore nella stanza di Rodolphus, quasi sollevando un sipario e lasciandoci dinanzi a quanto vi si svolge all'interno. Ci sono troppi dettagli che mi sono piaciuti, troppi da elencare: dalla curiosità di Rabastan verso il fratello, che s'introduce di soppiatto nel suo mondo quando l'altro non c'è, con "perversa soddisfazione", e i suoi piccoli scatti d'ira e d'insofferenza davanti ad un fratello che imita l'autorità paterna - tutte precise, piccole sfaccettature che balenano in lui a scatti, sprazzi diabolici che si alternano a stati di vulnerabilità e calma. Rabastan passa dall'essere, a tratti, "un piccolo demone, plasmato dalle fiamme dell’inferno", come per un attimo appare agli occhi dello stesso Rodolphus, a diventare una presa ferrea sulla mano del fratello maggiore, bisognosa di conforto ( "Le dita di Rabastan erano tentacoli viscidi di sudore, e la loro stretta scivolosa non accennava a lasciarlo andare). Mi sono soffermata su Rabastan, ma - in realtà - questa sorta di dualismo sei riuscita a tirarla fuori, efficacemente, per ciascuno dei Lestrange (Rodolphus, ritratto a metà tra la necessità di mostrarsi "all'altezza" e il tentativo di tenere a bada l'inquietudine e il timore). Per non parlare del padre! Credo che, grazie anche all'introspezione di Rodolphus, il dualismo che hai delineato con maggior incisività sia proprio quello paterno. Hai descritto mirabilmente lo stupore e, poi, lo sconforto e l'orrore di Rodolphus davanti all'immagine di Roland Lestrange che, letteralmente, si sgretola sotto il suo sguardo impietrito:dell'uomo che ha sempre la risposta pronta e che non si fa mai trovare impreparato, alla fine del colloquio, non resta che un guscio vuoto, addolorato, sconfitto. Ho adorato i pensieri di Rodolphus, al riguardo: "E se suo padre poteva piangere, allora non c’era più nessuno per cui valesse la pena mostrarsi forti. Più nessuno a difenderlo. Se suo padre poteva essere spezzato, era la fine del mondo e di tutte le cose" – si sente, davvero, in queste parole, il rumore di un mondo di certezze che franano, il sibilante e gelido vento della paura che s'insinua nella mente di un bambino la cui infanzia è appena giunta al capolinea. Ma, come se non bastasse, oltre a restituire la complessità del tutto umana dei tre Lestrange, sei riuscita a gestire la crudeltà disumana di questa creatura inafferrabile, impalpabile, che è l'Ospite. Sono veramente impressionata dal modo delizioso di cui ti sei servita per gestire questo "Ospite inquietante" – un "non visto" che risulta persino più paralizzante di ciò che è definito e visibile. Infatti, Riddle non esce mai dal suo nascondiglio di tenebre, se non per qualche tremendo guizzo intravisto dai suoi interlocutori (una mano morta e pallida, una risata spaventosa). Quest'Ospite terribile non esce mai allo scoperto e non ne ha neanche bisogno: basta la sua presenza a rendere l'oscurità più densa, maligna; senza sforzo, riesce a occupare il buio, a strisciare nei pensieri dei presenti - li invade, li spulcia, li viola a suo piacimento. Ecco, a questo proposito, la scena della Legilimantia applicata su Rodolphus è una vera chicca, con il ragazzino che resta in lacrime e con un senso bruciante di umiliazione che gli scorre nelle vene. Insomma, hai gestito la figura di Riddle in maniera sublime, a mio parere: dagli effetti totalizzanti e destabilizzanti che ha sui presenti, dalle parole che pronuncia, ognuna delle quali lascia intravedere la sua freddezza e assenza di compassione, l'abilità nel manipolare le menti, il gusto che ha nel farlo e la spietatezza con cui piega le volontà altrui, estorcendone quello che desidera ... e tutto ciò, ripeto, l'hai ottenuto lasciando il personaggio rintanato in un angolo della stanza (stanza di cui è indiscutibilmente padrone). In ultimo - non per importanza -, ho amato come hai saputo incapsulare l'elemento del Tempo: quel tempo di cui, in modo quasi inquietante (e, potremmo dire, profetico), Rabastan tiene costantemente traccia, con precisione e naturalezza, quasi come se sapesse già quanto sia prezioso; quel tempo che segna un confine invisibile, ma netto, tra Voldemort (ossessivamente impegnato nella ricerca dell'immortalità) e i suoi sottoposti (creature deboli, mortali, che non potrebbero permettersi di "perdere tempo" ma che, nonostante le loro esistenze siano segnate e irrisoriamente brevi, si perdono, dissipando quel tempo contato che hanno a disposizione). Ho amato come, forse anche per via di quella clessidra che si lascia dietro, a scandire minacciosamente le ore restanti, il tuo Voldemort sia la perfetta rappresentazione della Morte, che alita sul collo degli uomini. Non credo di essere stata chiara ed esaustiva come vorrei, ma sappi che il tuo modo di scrivere mi incanta ogni volta! Le tue storie hanno un che di ammaliante. Alla prossima, un bacio. |