In tutta onestà, posso dire con grande fierezza di aver letto questa storia tre volte: la prima, partendo da marzo 2019, come lettrice silenziosa; la seconda intorno a settembre 2020 commentando il tutto e la terza sul finale e la post-revisione fino ad arrivare a oggi. Non penso di fare un pippone infinito come capitato per Lied, ma sono consapevole del fatto che il mio amore per Herz non mi consentirà di parlare poco. Per cui, eccomi arrivata con la recensione di questa storia, che cercherà di unire la mia parte emotiva e le emozioni suscitate con quella tecnica. Sorvolerò grammatica e sintassi, poiché sono perfette in qualunque tua opera, e partirò col dirti che l’ho amata: ho amato ogni capitolo di questa storia, perché è stato scritto col sudore, col cuore – un cuore d’acciaio –, con l’impegno e con la forza. Partendo dall’originalità della trama, questa storia mi è entrata dentro. È molto più facile scrivere di Seconda guerra mondiale parlando degli alleati: d’altra parte, i buoni sono loro, e avere il punto di vista di un “liberatore” è assolutamente più semplice da rendere su carta. E invece, così come mi aspettavo dall’autrice, lei ha portato la situazione dal punto di vista dei tedeschi, introducendo come argomento principale l’invasione della Polonia, allontanandosi anche dalle ideologie politiche e mostrandoci come umanamente si viveva sul campo, usufruendo dei personaggi come simboli a sé stanti che si distaccano dall’uomo-macchina stereotipato nazista e ci mostrano soldati che spiccano per la loro diversità.
Abbiamo l’eroe romantico e senza tempo, il soldato classicista che vede la vita militare come un successo collettivo e non singolo – pur non disprezzando l’eroismo –, il principe che conta d’esser visto per i suoi successi sulla carta più che per la sua provenienza, l’eroe classico, spavaldo e indomito, il padre di famiglia che crede nella socialità di quegli ideali, il timido ragazzo proveniente da una famiglia operaia, un ravanello paternalistico… tutti che svolgono i loro ruoli, come tessere di un mosaico, che si fondono con la trama e rendono Herz unica in tutti i suoi aspetti. I personaggi, in primis Friedrich, il vero protagonista, e Hans, la figura che lo completa, sono gli archetipi degli ideali che questa storia vuole trasmettere: la ripresa dei valori dimenticati, lo spirito eroico e cavalleresco, anch’esso buttato da Acate e Mnesteo, il bund, che è l’intero fondamento della loro relazione, introdotta pian piano tra le righe di quest’opera… difatti, è difficile capire immediatamente il rapporto che c’è tra i personaggi principali: sin da subito, quando i loro pensieri sono rivolti l’uno verso l’altro, si capisce che è un qualcosa di profondo. Difficile è, tuttavia, la distinzione tra un forte rapporto cameratesco e amore. Forse è entrambi, forse non è nessuno dei due, o forse è un qualcosa di così ineffabile per Hans e Friedrich che si può esprimere solo con la forza degli sguardi, e nient’altro.
La loro relazione un po’ gioco di sguardi lo è: mai una volta mi pare che all’interno del romanzo si siano detti “ti amo”, e mi sa che è così per tanti motivi: perché, per prima cosa, non se ne sente il bisogno… è come una certezza nata con il loro sodalizio di sguardi; e, in secondo luogo, le parole perdono d’importanza, diventano evanescenti laddove il sentimento assume una ben più vasta concretezza. È quello che predomina, assieme al conflitto interiore che divide vita militare ed emozioni personali, che vanno ben oltre il legame di amicizia e riescono a rendere tanto più solida la loro alleanza quanto sgretolabile, poiché la bellezza di questa storia sta nell’andare oltre gli schemi in tutti sensi, questo soprattutto grazie al personaggio di Friedrich von Kleist. Fritz, infatti, è caratterizzato da questo suo “voler fare la cosa giusta” che spesso, guidato da ciò che prova per Hans, lo mette in difficoltà. Qui l’autrice è molto brava, devo dire, a fargli provare sulla propria pelle angst, patemi e sofferenze inaudite (che ormai, si sa, è il suo marchio di fabbrica). Friedrich è un eroe romantico, senza tempo, che s’impone sulla degradazione del ventesimo secolo riportando in auge ideali che affondano le proprie radici nelle epoche più remote, hanno una focalizzazione sui cavalieri teutonici – ergo, c’è anche l’aspetto medievale che non poteva mancare – e si avvicinano al più recente Ottocento. Mi piace di lui il suo legame con le origini, con la Prussia da cui proviene (e lo si dimostra proprio quando parla dei cavalieri teutonici, che divennero intorno al 1230 suoi fondatori) e questa è in generale una cosa che si sente da ogni parte del romanzo, proveniente da ogni personaggio.
Per citare le parole di Manfred von Kleist dal capitolo XXI: “Forse è ancora presto per dirlo… ma io spero davvero in una fratellanza europea, finalmente unita contro chi mira a spazzare via la nostra storia e la nostra identità”. Ecco, non so se si può interpretare in chiave moderna, ma questa frase è una frecciata diretta contro la cancel culture: ormai sempre più persone mirano a spazzare via parti intere di storia solo perché a loro non piace. Sempre più persone vogliono che la storia sia riscritta come fosse tutta rose e fiori, quando non lo è mai stata. Herz ha il coraggio e la fierezza di opporsi a queste regole: poco importa il moralismo politico, l’impersonalità c’è e si vede, e ognuno esprime le proprie idee contestualizzato a quel periodo storico, senza anacronismi o false notizie. Ognuno di loro dice ciò che meglio crede, e la genialità della storia sta proprio nel distaccarsi e nel rendersi imparziale, nel far parlare i personaggi e non il narratore, che si limita a manovrare il tutto, a far sì che siano gli stessi personaggi a creare i loro archetipi, a rendere simbolico tutto il flusso della storia, che non è più un semplice storico ma un’opera che comunica di più, che entra nell’introspezione delle figure maschili – che hanno uno strepitoso fascino – e nei loro pensieri, senza però mai intervenire personalmente.
Dietro la maschera da soldato devoto al Reich e da gerarca nazista, dall’uomo che “obbedisce” e nulla più, si nascondono così tante sfaccettature che Herz esamina andando oltre quel banale stereotipo che renderebbe gli ufficiali tutti “regole ed esecuzioni”. Anzi, di regole ne vengono rispettate ben poche: tutta la trama gira intorno alla questione della divisione del servizio e dei sentimenti personali, che porta poi all’infrazione di alcune regole e al toccare (quasi) con mano la realtà della corte marziale, una realtà non lontana dai protagonisti, e in particolare da Friedrich, che più vogliono fare del bene e più sbagliano. Friedrich von Kleist rappresenta un soldato eroico, che ti regala colpi di scena inaspettati, che sbaglia facendo la cosa giusta, che fa la cosa sbagliata quando invece sta al suo posto, tormentato da demoni interiori e consapevole della catastrofe che gli si prospetta davanti. È una figura insolente, testarda, ma che fondamentalmente racchiude in sé una grande bontà, un pensiero rivolto verso Hans che, anche se superficialmente potrebbe sembrare personale e concentrato sulla sua realtà interna, in realtà è focalizzato sulla personalità del maggiore, e come militare, perché è il suo superiore, e come individuo.
Quando si è incerti sulla sua morte, ciò che si prospetta dinnanzi a Friedrich altro non è che la catastrofe, pensando alle implicazioni che l’hanno portato sino a quel momento, a tutto ciò che lo ha condotto a prendere le sue decisioni. In greco c’è una vox media che potrebbe racchiudere questo concetto, ed è testimoniata dalla parola τελευτή, che ha due significati. Il primo, quello positivo, è adempimento, scopo; e il secondo, quello con la sfumatura negativa, è l’ineluttabile fine di tutto, a volte accompagnata da motivazioni e andamenti catastrofici. Mi piace pensare a come la prima volta, Friedrich abbia voluto adempiere al suo scopo – salvare Hans – causando la morte di molti soldati, e a come, la seconda volta, non adempiendo a quello scopo e lasciandolo lì ha condizionato quella che avrebbe potuto essere la fine di sé stesso, vedendosi davanti solo la vergogna dinnanzi la corte marziale. Finché la situazione non cambia, Friedrich salva i documenti e viene addirittura premiato, dimostrando come il tempo può essere imprevedibile e il suo un flusso continuo, quasi di anaciclosi, che non è sempre nella linearità tra passato, presente e futuro.
Il legame tra Friedrich e Hans è saldo come quello delle querce tedesche, e non riuscirei a vedere questa storia con loro due divisi, con Hans che non appartiene a Friedrich e Friedrich che non appartiene ad Hans. La loro relazione è alla base di tutto, è romantica… credo che l’amore si veda proprio dal non essere troppo sdolcinata e nemmeno troppo rude: la loro coppia, legata da cameratismo e ideali condivisi, racchiude un amore sincero e puro, che si cela dietro una questione di sguardi, nei pensieri che si rivolgono l’uno verso l’altro e nella premura che, in servizio, devono far passare per “cortesia” e “rispetto verso l’altro”, specie in quanto ufficiali. Sono contraddittori e lo sanno, se lo ripetono con ironia, poiché per quanto il loro desiderio sia quello di separare vita militare da sentimenti, l’effetto è l’esatto contrario, rivelandosi un’arma a doppio taglio. I loro sentimenti condizionano le missioni, fanno sì che vengano commessi errori anche fatali, ma il loro sodalizio è basato soprattutto su quelle. Senza di esse è impossibile per loro operare bene, perché sono uniti, e sanno che gli scrupoli non faranno altro che renderli ancora più sofferenti. La loro è una relazione tormentata prima dall’interno, quando, a partire dal capitolo VII, s’interrogano sul da farsi; poi, quando quest’ostacolo viene superato, ecco che è l’esterno, la guerra – ciò che effettivamente li ha uniti, sin dagli addestramenti – che viene a tormentarli. Ed ecco che la relazione, che le loro stesse vite sono messe alla prova.
Questo lo si ritrova anche nell’atteggiamento che Hans ha verso Friedrich: non può far eccezioni solo perché è lui, tuttavia, conoscendolo, sa anche che le sue intenzioni sono buone, che mira a fare del bene, la cosa giusta. Hans è il mio personaggio preferito, lo è sempre stato: ne apprezzo i patemi interiori (ed esteriori, perché l’autrice non si è risparmiata), le legittime paturnie e anche la sua ansia, continuamente presente nel corso del romanzo e che raggiunge il culmine nell’ultimo capitolo, quando s’interroga su che fine ha fatto Friedrich, sperando che sia vivo. E adoro anche il sarcasmo con cui si relaziona con lui, perché è genuino, perché gli dimostra che gli vuole bene, perché in quel sarcasmo si rivede la sua presenza nella sua vita e la sua irremovibilità ad andarsene. Non potrebbe starvi diviso nemmeno se lo volesse, perché gli appartiene, ed è l’unica persona entrata nella sua sfera emotiva, con cui ha avuto il coraggio di condividerne il passato e di volerlo fare anche col futuro. Per citare le sue parole, dal capitolo XXI: “Non so dove saremo tra qualche anno, ma spero di essere ancora insieme a te: sei tu il mio futuro”, e la risposta irremovibile di Friedrich: “E tu sei il mio”. Perché è vero, non potrebbe essere altrimenti: queste brevi frasi ma di forte impatto uniscono il concetto d’amore universale, d’agape, a quello che è lo streben di Goethe.
È una tendenza verso l’infinito, che lascia ineffabili, che non si può spiegare; è un ideale che perseguono a costo di tutto, che non sanno esprimere a parole, ma che di certo inseguono insieme. Sì, perché sono l’uno il futuro dell’altro e non potrebbe essere altrimenti. Nella vita militare e nella vita privata, loro due sono sempre uniti, intrecciati, come due corpi che condividono la stessa anima e lo stesso concetto di idealismo. La parte finale del romanzo racchiude proprio tutto: c’è il paragone delle loro figure con quelle di due cavalieri medievali, in un sole che li illumina spiccando in un cielo nuvoloso e due querce sullo sfondo. L’universalità di questo amore si vede proprio dall’unione di questi elementi: storia, natura, forza, bund… è come una metafora, una personificazione a ciò che è Herz nella consistenza. Loro che si ergono come figure quasi mitologiche e che sono pronti a combattere, stavolta insieme; il sole che si dissipa tra le nuvole è come l’interruzione del loro idillio: la guerra sta per ricominciare e loro sono pronti ad affrontarla, insieme. Probabilmente avranno una fine catastrofica, non possiamo saperlo, ma sono sicura che, qualora dovessero rinascere, sarebbero come le due querce dietro di loro. Dalle fiamme che ne hanno bruciato foglie e radici, le loro cellule si sono ripristinate, consentendo ai rispettivi rami di intrecciarsi e di germogliare – come l’anima condivisa in due esseri distinti – e di rimanere uniti, perché non può separarli nemmeno la tempesta che sta arrivando, quella preannunciata dalle nuvole che hanno oscurato il sole.
Ovviamente, Herz mi piace per la sua filosofia, espressa in diversi modi che convergono poi in uno soltanto. L’ambientazione – per altro originalissima – i personaggi, la trama… tutto che si unisce in un solo e unico pensiero, come se lo componesse, fosse un corpo immortale e tutti gli elementi fossero indispensabili. Oltre a Hans e Friedrich abbiamo Konrad e Reinhardt, sicuramente meno di rilievo ma di uguale impatto. Konrad è un personaggio difficile da non apprezzare, ma che, devo dire, non ho fatto che amare maggiormente man mano che la storia andava avanti. A differenza dell’amore romantico di Hans e Friedrich, quello di Konrad e Reinhardt si fonda su un’amicizia durevole, più che decennale, nata tra i banchi di scuola. Adoro i loro aneddoti, il rimembrare i vecchi tempi e tutto ciò si vede quando insieme collaborano sul campo. Nemmeno il loro è amore, ma sicuramente qualcosa di ugualmente o più forte: φιλία, forse, oppure ἑταιρία, per usare parole greche. Forse più la seconda: la loro collaborazione, la loro sintonia sul campo è simbolo di un’unione rafforzatasi necessariamente col tempo, come quella di Achille e Patroclo.
A proposito di eroi epici, Reinhardt si erge su tutti per possederne questo aspetto: non saprei a chi paragonarlo, forse a un Merione che parla meno a vanvera, forse a un Patroclo più estroverso o a un Enea più sorridente, oppure è così diverso ma affine alla categoria che diventa un eroe spavaldo a sé stante. A mitigare i suoi impulsi c’è proprio Konrad: composto, impersonale, legato distaccatamente ma in maniera sana alla sua realtà emotiva. Quando il suo Reinhardt muore lui s’impone delle maschere, ma la bellezza della storia è il suo lasciar trapelare, almeno agli occhi del lettore, la sua sofferenza. È commovente quando lo pensa, quando ne tesse le lodi, quando lo eleva a uno dei migliori soldati, quando lo immagina sulla moto e quando rimembra avvenimenti di loro due. Soffre moltissimo, si vede da dietro, e in tutto questo riesce a rimanere equilibrato, accettando la realtà così com’è e beandosi d’esser stato vicino a lui sino a che, quel giorno in una pozza di sangue, non gli è morto sorridente tra le braccia, così come doveva essere. Scena di un’unica e struggente bellezza, che si ritrova nel finale attraverso Stefan Greifenberg, che ci ricorda che Reinhardt è ancora qui, nelle nostre menti, e che un personaggio come lui non si dimentica, come un eroe leggendario.
Tutti gli individui che compongono questa storia non sono che straordinari: Fromm e il suo modo obiettivo di esprimere i fatti, Wessel e la sua logica, Hartmann e Schreiber con la loro innocenza, Krause e Hanke e la loro “ACATEMNESTEAGGINE”, Walkenhorst e la sua collaborazione con gli altri capitani. Per non parlare del giovane Erich, che ho amato da subito per il suo modo di vedere il mondo, di Günther, che è il fratello maggiore che chiunque vorrebbe, buono come il pane, di Manfred e Franz, che ci regalano uno sguardo verso il cielo, spesso dalla sfumatura sognante… menzionerei anche Paul e Werner per i loro “dialoghi costruttivi” e, ovviamente, il riferimento a Schwerin che ho amato da impazzire. Concludo con il trio delle meraviglie, composto da Cassandro (Eichmann), lo spacciatore (Holger, che è uno dei miei preferiti nonché il coniatore de “l’uomo di ferro”), e, ovviamente, il migliore, il tenente colonnello von Rauheneck, ormai diventato il mio meme preferito.
Conclusione comica a parte, finisco col dirti che, cavolo, questa storia mi è entrata dentro e mi ha fatto commuovere dalla prima all’ultima frase, meritandosi i miei scleri in dialetto e le mie dovute parodie (oltre che gli sticker su Whatsapp XD). Spero di rivedere l’uomo di ferro e cuore d’acciaio per ripercorrere le loro avventure e rivivere con loro tutti gli ideali che mi hanno trasmesso. Spero di esserci in futuro, e se ci sarò, stai sicura, cara autrice, che ci voglio loro nel mio futuro. |