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Autore: xNewYorker__    25/03/2012    1 recensioni
Varsavia, 1943.
Una pagina del diario di Yvonne, quindicenne, polacca, ebrea.
Racconta la sua vita nascosta in uno scantinato, del suo fratellino, della notte in cui li portano via.
Osserva l'ingresso del campo di concentramento di Auschwitz, la scritta, di cui capisce solo la parola "frei", "liberi".
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Varsavia, 8 Ottobre 1943

Caro diario,
ogni giorno che passa credo di avere sempre meno speranze di diventare quello che volevo io.
Penso che resterò nascosta ancora per un po’. Mi sa che dovrei sperarlo.
Mia madre dice che siamo fortunati a trovarci qui, e che non dovrei discutere, ma fa freddo e di notte l’aria inizia sempre a mancare.
Certe volte devo calmare il mio fratellino, che inizia a piangere e sembra non volere smettere più. Ha solo sei anni, e mio padre teme che, se qualcuno non prova a rassicurarlo, potrebbe finire per soffocare.
Lui è troppo emotivo e troppo piccolo per capire. Nella mia mente ha già capito anche  più di me.
In fondo, sono io quella che lo vede singhiozzare fino allo stremo, in silenzio, perché qua si rischia la pelle anche a piangere.
Stamattina chiedeva di mia sorella Elke. Lei si è trasferita in centro prima della guerra, così non sappiamo neanche che fine abbia fatto: non possiamo telefonarle, o chiedere di lei a qualcuno.
È di nuovo notte e sento di nuovo di soffocare.
Giorno dopo giorno mi vedo quasi più morta che viva. Mamma dice che, a quindici anni, queste cose non le dovrei neanche pensare.
Sento un fruscio dietro la finestra chiusa dalle assi. Penso che non dovrei preoccuparmene, tanta gente passa di qua anche la notte.
Marc riprende a piangere, ma questa volta come non aveva mai fatto.
Se sono davvero loro, spero di non diventare una schiava, e di morire senza rendermene conto, possibilmente prima di Marc.
La grande botola, quasi sulla nostra testa, si spalanca.
Non filtra neanche un po’ di luce, ma poi una torcia mi si punta in faccia. Allora so che è finita.
È inutile che mi rifugi nella mia fantasia, tanto lo so come andrà.
Spero che almeno Marc non soffra, e che Elke sia al sicuro, da qualche parte. Da lassù so che potrei guardarla crescere i suoi figli lontano da qui.
Un soldato strattona i miei genitori per farli svegliare, mentre Marc fa di tutto per non farsi separare da me. Dà un calcio a uno dei due tedeschi, e quello gli molla una sberla di cui sento l’eco nelle orecchie per tre minuti. Se lo caricano in spalla mentre lui continua a scalciare, e urla, e mio padre mi raccomanda di stargli vicino mentre ci portano via.
Non possiamo neanche reagire: loro sono più forti.
In men che non si dica siamo su un carro.
Mi pare uno di quelli per il bestiame, ma non ne sono sicura. Per loro noi siamo bestie, giusto? Allora non dovrei neanche chiedermelo.
Non riesco più a piangere da giorni, così evito, ma in segreto guardo gli altri farlo e confortarsi senza conoscersi.
Sono immobile in un angolo con tanti altri ragazzi, dai tredici ai vent’anni circa. Loro singhiozzano e tremano. Parlano tutti lingue diverse, ma credo che nel terrore ci si capisca un po’ tutti.
Mi chiedo perché la gente si mostri per com’è solo quando ha paura.
Nella paura non si fanno più distinzioni di sesso o età, si sta insieme, si cerca aiuto e basta. Vorrei che fosse così anche quando non sto per morire.
Parlavo di terrore, ma c’è qualche inglese e io non lo capisco lo stesso. Vedo solo che piangono più di tutti gli altri, e i loro occhi cercano gli adulti anche se sanno che, questa volta, neanche loro hanno una parola buona o una coperta per consolarli.
In tutto questo mi sento fuori posto.
Non so spiegarlo, è come se guardassi dall’esterno senza essere qui.
Non so dove andremo e cosa vedrò o fino a quando le mie gambe e il mio cuore reggeranno.
Forse, se sarò forte abbastanza, andrò a lavorare e non mi uccideranno. Preferisco che mi uccida la fatica.
E Marc? Marc è piccolo per lavorare.
Con le mani spingo a terra e mi alzo, e vado a bussare con insistenza alla porta del vagone urlando per farmi sentire. Voglio solo vedere Marc, non penso ci sia nulla di male.
Gli altri mi dicono di tornare a sedere. Una ragazza più grande, disperata, mi ci porta a forza.
Non le dico niente. Sta soffrendo, non vuole prendersela con me.
Vedo già una luce in lontananza. Il freddo riempie il vagone.
I ragazzi restano ammassati lì, senza neanche l’intenzione minima di muoversi.
Io mi alzo e seguo un soldato. Non mi afferra perché vede che, semplicemente, non ce n’è bisogno. Mi sono rassegnata.
Di fronte ai miei occhi campeggia una scritta che capisco solo a metà.
In fondo si vede una specie di torre che fuma.
Mi chiedo cosa c’entri questo posto con la libertà.
Yva.

Angolo autrice:
Questa storia è nata come un tema. 
E' uno dei temi che ho fatto in classe, e...spero che vi piaccia.
-xNewYorker__/Chris
   
 
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