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Autore: Twitch    25/03/2012    1 recensioni
Non so davvero che scrivere qua, anche perchè non so nemmeno se questa fanfic avrà una fine. Comunque preparatevi a qualcosa di triste, in ogni caso. Sono stata ispirata da 16.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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I due si incamminarono a passo veloce verso la sala d’aspetto, dove raggiunsero gli altri. Sospiri accorati e mezze preghiere appena accennate riempivano la stanza, barelle piene e vuote sfilavano davanti a molte paia di occhi contornati di occhiaie. Adrienne, Mike e Frank erano più tranquilli al momento, ma dentro di loro sapevano di non poter giustificare per nulla quella serenità.  

Joey e Jackob raggiunsero il resto della famiglia. Anche loro erano più sereni in viso, ma le preoccupazioni continuavano a svolazzare nello stomaco, ad insinuarsi in ogni cellula, in ogni alveolo.

-“Dovevate vedere gli occhi di papà quando aveva Blue tra le mani” esordì Jackob.

-“E’ stato qualcosa di fantastico, assurdo. Beh, se quella merda che gli iniettano nelle vene fa star meglio il suo corpo, quella chitarra gli ha ridato tutto il resto.” Pronunciando quelle parole Joey si commosse e venne accolto tra le braccia di Adrienne. Mike sorrise, con le labbra, con gli occhi, col cuore. E come al solito si impose di non piangere, sbarrò la strada alle lacrime. Trè si asciugava gli occhi con la manica della giacca poi disse:

-“L’abbiamo sempre detto noi tre, la musica salva la vita. La musica è vita più di ogni altra dannata cosa”

 

«Lucy dove sei? Perché non rispondi alle mie chiamate?»

«Dove cazzo sei?»

La tasca dei pantaloni della dottoressa aveva vibrato per tutto il viaggio in macchina dall’ospedale al suo appartamento. La tasca dei pantaloni della dottoressa era rimasta illuminata, supplichevole di una risposta, anche quando Lucy aprì con rabbia la porta di quell’appartamento troppo grande per lei e scaraventò il cellulare sul divano.

«Rispondimi, ti prego»

«Sei ancora in ospedale? Amore..»

‘Figlio di puttana’ sussurrava tra sé e sé ‘come ha potuto’ si tolse una scarpa ‘come ho potuto fidarmi ancora!’e tolse l’altra lanciandole contro il muro. Voleva piangere, ma come al solito non c’era riuscita. Voleva liberarsi da quelle lacrime acide che le corrodevano le guancie, voleva lasciarsi andare.

Eppure, anche se era completamente sola, si vergognava. Si vergognava ad ammettere a se stessa di non essere mai riuscita a combinare niente di buono nella sua vita che non fosse una schifosa operazione al cuore. Chiuse gli occhi e strinse i denti. ‘non sono capace di farmi amare, evidentemente.. non sono capace di amare’.

 

Andò in bagno, si spogliò ed entrò nella doccia. La doccia è quel luogo sacro in cui le riflessioni vengono enfatizzate, in cui vengono amplificate e viene loro aggiunto l’effetto eco. La doccia ha un’acustica favolosa anche da quel punto di vista.

Le gocce d’acqua le accarezzavano le guance, come la mano di un padre, e il corpo, come quelle di un uomo che non aveva mai amato.

‘Andrew.. mi sembrava che quel nome suonasse bene accanto al mio..’

Il suo cervello proiettò un sacco di immagini dolorose, che sembravano cucirsi sull’interno delle sue palpebre. Ogni volta che chiudeva gli occhi erano lì, la fissavano. E sembrava che persino le sue belle parole, le promesse di Andrew le rimbombassero nelle orecchie, come il rumore del mare in una conchiglia. ‘Ti amo, sei tutto per me e blablabla’.

A Lucy non erano mai piaciute troppe parole. Lei non ne sprecava mai nemmeno una; non sporcava il silenzio per niente.

Il silenzio è sacro, è bello, è chiaro. Le parole non fanno altro che offendere, mentire, ferire. Almeno, questo era quello che pensava. Uscì dalla doccia, si avvolse in un asciugamano e si sedette sul bordo della vasca. Osservava il suo viso riflesso nello specchio, si guardava con distacco, come se quel corpo non le appartenesse. Si giudicava con sguardo severo, non era mai stata orgogliosa di se stessa.

‘sono un disastro’ pensò mentre si infilava qualcosa addosso.

 

Tornò in salotto e, continuando ad ignorare il cellulare accese la televisione. Stavano trasmettendo il telegiornale di mezzanotte, le notizie scorrevano incolori di fronte agli occhi di Lucy, fino a quando il giornalista non pronunciò questa frase:

“L’ex frontman della rock band californiana Green Day, Billie Joe Armstrong, è stato coinvolto in un grave incidente stradale nelle strade di Oakland, in California. La sua prognosi è per ora riservata. Le prime fonti ci dicono che il signor Armstrong guidasse in stato di ebbrezza..”

-“Perché i giornalisti continuano a sparare tutte queste puttanate solo per fare audience?! Non era affatto in stato di ebbrezza, cazzo!” urlò Lucy contro la televisione, come se il giornalista potesse sentirla.

Partì quindi un breve servizio di un inviato, che aveva fatto qualche domanda ad alcuni testimoni sul luogo dell’incidente.

Rimase a bocca aperta, impietrita totalmente. Non per quelle poche parole dei testimoni, ma per il sottofondo del servizio.

«Ring out the bells, again. Like we did when spring began, wake me up when September ends»

La voce di quel 'signor Armstrong' le tornò alla mente. Riemerse, riaffiorò; le risbocciò dentro.

La prima volta che aveva sentito quella canzone aveva 21 anni, era all’università. E una sua compagna di corso le aveva prestato ‘American Idiot’.

Aveva amato quell’album, aveva amato ogni singola canzone. Poi l’aveva perso di vista, l'aveva ridato indietro con un 'grazie'.

Aveva smesso di amare i Green Day come smetteva di amare ogni cosa, prima o poi.

–“Here comes the rain again, falling from the stars. Drenched in my pain again, becoming who we are.” cantò lei, e pianse.

  
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