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Autore: Yoko Hogawa    26/03/2012    12 recensioni
Subito dopo la violenta frenata, John si sentì staccare dal sedile. Non vedeva nulla a causa delle oscillazioni e delle scosse, tutto tremava compreso lui stesso, nelle orecchie aveva solo il terribile suono stridente e le urla dei passeggeri che viaggiavano con lui; le luci elettriche del vagone tremolarono insieme al convoglio, spegnendosi del tutto quando, con un rumore simile ad un risucchio nel vuoto, gli venne a mancare la terra sotto i piedi e si trovò per aria, la mano fermamente attaccata al palo di ferro accanto al sedile su cui si era inizialmente accomodato.
Si sentì sbalzare contro il soffitto, sentì un dolore sordo al fianco e chiuse gli occhi per istinto, aspettando la fine di tutto, o l’inizio del “dopo”.
[Johnlock][Potrebbe esserci del linguaggio un po' colorito]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Note: Queste sono 20 pagine di puro parto fan-letterario. Siete avvertiti. A quanto pare la mania di essere incredibilmente prolissa non mi ha abbandonato nonostante i buoni propositi.

Beh, penultimo capitolo, conclusivo dell’incidente ferroviario. E... e non ho resistito, ho dovuto metterci una puntina di Mystrade. Piccola piccola. Alla fine. Quasi invisibile.

Come al solito, tutto quello che dico riguardante la medicina ed il primo soccorso mi deriva da fonti puramente ludiche, dunque non è assolutamente oro colato. Non prendetelo come tale e, per chi ne sa di più, se ci sono errori perdonatemi ^^’’’

Come al solito, eventuali altre note sono a fondo pagina.

 

A chi desidera, buona lettura

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Venerdì 3 MarzoMidnight

 

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 16:00 pm

 

Donna, trent’anni circa, completo di Armani e scarpe di Gucci, tacchi a spillo, valigetta ventiquattrore in pelle lavorata; tutto urlava “impiegata d’ufficio”, vestita con abiti troppo firmati e costosi per essere una semplice segretaria, dunque doveva essere una consociata di una ditta importante. Non avvocato. Non sarebbe stata in metropolitana – e comunque molti se lo erano chiesto, come mai una persona che poteva permettersi Gucci e Valentino mettesse piede sulla Bakerloo Line.

Nessuna ferita riscontrata esternamente, nessun ematoma, nessuna lacerazione. La testa voltata con un angolo innaturale verso l’alto, un bozzo era ben visibile sulla gola. Morta sul colpo. Anche se avesse ricevuto traumi da impatto, probabilmente l’organismo non era rimasto in vita per un tempo sufficiente a consentire la formazione di qualche livido di sorta.

Accanto: persona anziana, tra i sessanta  e i settant’anni, ben rasato, capelli tagliati da poco, vestiti del decennio scorso, scarpe sporche di fango. Pensionato proveniente dalla campagna in viaggio a Londra, probabilmente per andare a trovare i figli dato che non sembrava portare altro con sé se non il portafoglio ed il fazzoletto, entrambi ritrovati nelle tasche dei pantaloni.

Polso rotto, trauma cranico, caviglia slogata e ferita da taglio alla spalla destra. La causa della morte, molto probabilmente, era stata il trauma cranico, a giudicare dall’ematoma presente su tutto il volto.

Di nuovo: ragazzo, diciassette anni a giudicare dal libretto scolastico, appartenente alla subcultura Punk. Non avevano ancora ritrovato la testa, ma a giudicare dai calzini spaiati e di due colori diversi e dalla punta delle dita della mano destra era dedito al consumo smodato di marijuana.

Poi, per un momento, qualcosa gli aveva impedito di respirare.

Da sotto un cappotto, un ciuffo di capelli biondo cenere. Corti. Un po’ ispidi. Un accenno di carnagione pallida e sporca di sangue.

Associazione mentale: John + sangue + pallore cadaverico = morte.

Blocco momentaneo delle facoltà, il corpo che si muove da solo e sposta il giubbotto incriminato con un movimento sin troppo agitato della mano.

L’uomo non è John ma è sicuramente morto a causa di una ferita alla tempia causata dal forte impatto contro il vetro del finestrino, che infatti risulta rotto e sporco di sangue in un punto unico.

Ma non era John. Non era John.

Sherlock sospirò silenziosamente, lasciando che la sua mente scivolasse di nuovo in quella situazione di stallo psicologico che gli permetteva di usare le proprie facoltà intuitive e deduttive ad un livello più o meno normale di operatività. Lo fece lentamente, socchiudendo gli occhi mentre veniva circondato da paramedici che controllavano inutilmente lo stato dei cadaveri a terra, prendendosi il tempo di zittire di nuovo il suo cuore fin troppo rumoroso.

Un cuore che non aveva mai usato ma che ora urlava continuamente, riempiendogli le orecchie con i suoi battiti martellanti, nell’unico momento in cui avrebbe preferito non sentirli, non distrarsi nel tentativo di zittirli.

« Non c’è nemmeno qui? » sentì una voce pronunciare dal suo fianco, che riconobbe come quella di Nicholas Ryder.

Scosse il capo in senso negativo.

Quella frase aveva due interpretazioni possibili, purtroppo, e dipendevano dal punto di vista di chi se la sentiva porre: una positiva per cui no, non avevano ancora trovato il cadavere di John in mezzo a tutti quelli che avevano dovuto controllare ed estrarre dalle macerie nel giro di due ore appena – solamente otto persone su cinque vagoni erano sopravvissute all’impatto, e di vittime ve ne erano almeno il doppio – e l’altra negativa, intesa nel senso che non avevano ancora trovato John vivo nonostante avessero penetrato già cinque vagoni.

E purtroppo, nonostante Sherlock cercasse con tutto de stesso di tenersi distaccato da qualsiasi influenza emotiva di qualsivoglia specie, purtroppo analizzava quelle parole ogni volta nel significato peggiore.

Ryder sospirò. « Lo troveremo » pronunciò poi, forse per fargli forza.

Holmes non poté far altro se non sorridere amaramente.

Ancora quell’ottimismo smodato. Lo stesso di Lestrade, lo stesso di John. Anche Ryder era una di quelle persone che non si perdono mai d’animo, e probabilmente era per questo che si era meritato il compito di guidare la squadra di ricerca.

Ma rimaneva comunque un ottimista e, in certe situazioni, dell’ottimismo non te ne fai nulla.

In momenti come quello, per esempio, in cui Holmes non poteva fare a meno di chiedersi – anche se a bassa voce, sussurrando mentalmente a se stesso e con se stesso, come se le parole che il cuore pronunciava non volessero disturbare troppo la sua razionalità; come se il loro scopo fosse semplicemente quello di rimanere lì, ferme immobili, a fare presenza e non permettergli di cancellarle o di ignorarle – se era una cosa normale  non avere ancora trovato l’amico, e quanto in là poteva effettivamente andare la sua speranza di ritrovarlo.

Non voleva arrivare al punto di pensare qualcosa come “vivo o morto non ha importanza”. Voleva riportarlo a casa, alle cose che gli appartenevano, alla quotidianità imprevedibile che avevano assimilato come qualcosa di loro, qualcosa che li legava alla realtà tangibile.

Quel qualcosa che teneva lontani gli incubi di John, e lontano Sherlock dalla dose di cocaina che avrebbe sempre trovato modo di reperire in ogni momento.

Distaccò infine gli occhi dai capelli dell’uomo morto ai suoi piedi, girando il capo ed incamminandosi verso l’uscita della carrozza. Ryder lo seguì.

« Holmes! » lo chiamò, afferrandolo per un braccio e fermandolo non appena mise piede fuori dalla porta che avevano forzato per entrare.

Sherlock si fermò, osservandolo in silenzio. Non aveva parlato praticamente da quando avevano cominciato le ricerche insieme, se non per dare qualche consiglio di carattere tecnico. Aveva persino cominciato a descrivere le cause della morte e ad elencare tutto ciò che poteva evincere dai cadaveri – e poteva trarne veramente molto, avevano notato tutti – ma ad un certo punto aveva smesso di fare anche quello.

« Senta... non è una domanda che io abbia veramente voglia di porle, ma mi sembra importante fargliela... » disse Nicholas, guardando ovunque tranne che direttamente nei suoi occhi: « ecco... lei è sicuro che questo John sia qui sotto? » domandò.

Se Nicholas Ryder avesse conosciuto Sherlock Holmes così come lo conosceva l’ispettore Lestrade, o lo stesso dottor Watson che tanto si prodigavano a cercare, probabilmente non gli sarebbe mai venuto in mente di formulare quella domanda, ne tantomeno di darle voce. Ma Nick Ryder non aveva mai avuto a che fare con l’unico consulting detective del mondo, in effetti.

Sherlock lo trapassò da parte a parte con uno sguardo che dire minaccioso non esprimeva appieno il concetto.

Solamente una volta in vita sua aveva avuto la terrificante esperienza del dubbio, rimanendone del tutto provato.(1) E quella volta non riguardava John – John era al suo fianco, aveva cercato di parlargli, di farlo tornare alla ragione anche se con scarsi risultati – e anche solo la prospettiva del pensiero che qualcuno, anche se non lui direttamente, potesse avere il dubbio che stesse sbagliando, lasciava nella mente del detective la traccia fastidiosa di un intoppo insormontabile in quello che era il suo imperativo categorico di trovare Watson ad ogni costo.

Sherlock Holmes non avrebbe dubitato, perché dubbi non ve ne erano. John era lì sotto. Doveva essere lì sotto.

Vivo. Intrappolato. Aveva bisogno di lui. Doveva andare. Non poteva perdere tempo con persone che non credevano alle sue parole o cercavano anche solo di prendere in considerazione la possibilità che l’amico non si trovasse da qualche parte in mezzo al metallo di quel disastro.

« È qui » tagliò corto Sherlock, deciso, lapidario.

Se Ryder si sentì a disagio, sotto l’improvvisa profondità di quegli occhi, non lo diede a vedere. Si limitò a schiarirsi la voce, togliendosi per un secondo il casco e tirandosi indietro i capelli con le mani, ormai sporchi di polvere come i loro abiti ed il viso. Poi, incontrando di nuovo i suoi occhi, annuì.

« La avverto solo di una cosa però, signor Holmes » cominciò poi Nicholas: « io ho l’obbligo di portare in salvo tutte le persone ancora in vita presenti qui sotto, e per poterlo fare devo applicare una scala di priorità che varia da individuo ad individuo a seconda delle loro condizioni di salute. Se per caso troviamo il suo amico, e ci dovessero essere persone in condizioni peggiori di lui, io devo aiutare prima i più gravi. Tutto chiaro? » domandò seriamente, osservandolo.

Sherlock lo guardò a sua volta, lo sguardo non meno deciso di quello del caposquadra: « lei non si preoccupi, in quel caso ci penserò io a John » disse.

Nicholas non aggiunse niente. O probabilmente stava per farlo, ma Dennis comparve alle sue spalle reclamando la sua attenzione: « Nick, abbiamo finito di estrarre i corpi dal vagone, possiamo passare al successivo » disse.

Ryder annuì, puntando lo sguardo oltre Sherlock.

I due vagoni successivi erano il nodo più difficile del disastro e, tecnicamente parlando, l’ultimo su cui potevano effettivamente intervenire. Oltre a quelli, solo un cumulo informe di metallo piegato e ripiegato un pezzo sopra l’altro; le carrozze erano penetrate con forza l’une dentro l’altra, tanto che la probabilità di trovare sopravvissuti era talmente ridotta da non permettere l’intervento delle squadre di ricerca, ma solo quelle dei tecnici che avrebbero segato e rimosso i pannelli uno ad uno, svitando bulloni e cerniere.

Rimanevano due vagoni.

Due vagoni per decidere chi era vivo e chi era morto.

Due vagoni, uno sopra l’altro, schiacciati e malmessi, addossati alla parete tanto che in quello sottostante era impossibile che penetrasse la luce del tunnel.

Due vagoni per sapere se John era ancora vivo o no. Due vagoni pieni del loro tempo, dei loro ricordi, delle loro parole e di tutto ciò che avevano affrontato insieme da quando si erano conosciuti.

Due vagoni di speranza, e poi il nulla della solitudine.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Train’s Coach), h. 16:30 pm

 

Un forte rumore metallico gli fece aprire gli occhi, chiusi da qualche minuto in un’inutile ricerca di un po’ di riposo.

Inizialmente, gli sembrò di aver sentito male. Una sorta di allucinazione uditiva, causata dalla voglia smodata di uscire da quel posto, oppure semplicemente dalla suggestione.

Poi, un altro colpo. Rimbombò nella carrozza facendo vibrare l’aria.

John ed Edward, anche lui fermo in ascolto, si guardarono per un lungo, fondamentale istante. Trattennero il respiro, in attesa, poi ne sentirono un altro.

Non era naturale, così come non era casuale. Era ripetuto, fottutamente ripetuto, maledettamente ripetuto ed era rumore di attrezzatura umana, usata da mano umana, umana.

Qualcuno era venuto a salvarli.

John sorrise, stirando le labbra in un fiotto di contentezza; Edward, replicando il medesimo sorriso, scoppiò in una risata. « Sì, cazzo! Sì! » esclamò, ed un attimo dopo era già in piedi, il volto rivolto verso il soffitto del treno.

« Ehi, EHI! Siamo qui! Siamo qui, ci sentite! » urlò con tutta la voce che aveva in corpo, posandosi la mano sana a coppa sulle labbra, cercando di amplificare la propria voce.

Watson, che fece gentilmente ad Alice segno di scendere dalle sue ginocchia, si unì al coro: « Ehi, qui, qui! Ci sono dei feriti, abbiamo bisogno di aiuto medico! » urlò a sua volta, avvicinandosi alla porta su cui era appoggiato e battendo i pugni nel tentativo di provocare ancora più rumore.

Alice, incuriosita ed allo stesso tempo spaventata da tutto quel frastuono, si attaccò al polsino della camicia di John e tirò, chiedendo attenzione. « Cos’è successo? » gli chiese quando l’uomo la guardò, interrompendo le urla.

Il medico sorrise gentile, mettendole una mano sulla testa e carezzandole i capelli. « Quasi sicuramente fuori ci sono delle persone che sono venute ad aiutarci. Dobbiamo fare sapere loro che ci siamo, così ci tireranno fuori e potremo tornare tutti a casa... » le spiegò, cercando di non usare parole che la bambina avrebbe faticato a capire.

Alice, osservandolo con quegli occhi grandi e luminosi, sorrise felice. « Posso tornare dal mio papà! » esclamò contenta, trovando l’approvazione di John, che annuì.

Avrebbe potuto rivedere Sherlock. Era questione di minuti, forse di un’ora, e poi finalmente li avrebbero tirati fuori da quell’inferno e lui avrebbe potuto prendere il cellulare e chiamarlo. Avrebbe continuato a farlo squillare finché, probabilmente seccato perché interrotto nel mezzo di un esperimento o di un ragionamento, l’altro non avrebbe risposto.

E allora gli avrebbe chiesto scusa, a prescindere da chi avrebbe dovuto davvero scusarsi dei due. Gli avrebbe detto che stava tornando a casa e che voleva passare il resto della giornata con lui. Anche sul divano, a guardare uno di quei talk-show da televisione spazzatura tanto amati dalla cara mrs. Hudson, oppure una qualche serie investigativa americana su cui Sherlock avrebbe irrimediabilmente detto la sua, facendolo ridere come un matto per tutta la durata dell’episodio. Avrebbero ordinato cinese, quella sera, come al solito, e voleva farsi raccontare tutto, tutto quello che l’altro aveva pensato in quella giornata, i suoi casi migliori e quello più spaventoso, dov’era andato a scuola e cosa aveva fatto prima di incontrare lui, quella mattina al Bart’s di più di un anno prima.

Ma non era importante fare esattamente quelle cose. In quel momento, si sentiva anche in grado di stare seduto tutta sera sulla propria poltrona, in silenzio, con una tazza di tè in mano, ad osservare Sherlock suonare il violino, osservare chissà cosa seduto al tavolo della cucina o intento ad usare il suo notebook dopo aver di nuovo scoperto la password. Lo avrebbe guardato con un lieve sorriso sulle labbra e non avrebbe fatto nient’altro.

Sarebbe rimasto così, immobile in un istante infinito cercando semplicemente di assimilare la presenza dell’altro e a memorizzarla sotto la pelle, in modo da poterla portare sempre con sé e non poterla più dimenticare.

Neanche nella morte.

Alice però tirò nuovamente la manica della camicia di John, richiamando la sua attenzione una seconda volta.

John non gliela negò. « Cosa c’è? » domandò, osservandola con ancora un residuo di sorriso sulle labbra.

« Joy deve essere molto stanca, perché non si sveglia... » disse la bambina, indicando con il dito la ragazza dall’altra parte del vagone.

Non gli ci volle molto, al dottore, per capire che qualcosa non andava. Il viso della ragazza era pallido e sudato, i capelli erano attaccati alla fronte e al collo e la mano che aveva appoggiato al corrimano di metallo aveva preso la stretta, rimanendo abbandonata sul grembo. La gamba ferita era ancora piegata e ferma, ma solo perché poggiava contro il metallo.

A John sembrò che il cuore gli fosse stato strappato. Si dimenticò in un istante sia della felicità che della fiacchezza che si sentiva addosso da un po’.

« Joy! » esclamò il medico, spostando la piccola Alice con tutta la grazia di cui potesse disporre – effettivamente non molta – avvicinandosi in fretta alla ragazza a terra ed inginocchiandosi al suo fianco. Posò subito le mani sulla guance dell’altra, sentendola fradicia di sudore e fin troppo calda. Doveva avere per lo meno trentanove gradi: la pelle era bollente.

Allo scatto del medico verso la giovane anche il soldato aveva smesso di urlare, portando subito lo sguardo poco avanti a sé; notando poi che Joy non rispondeva a nessun richiamo di John, a sua volta si era avvicinato ai due: « cosa succede? » aveva chiesto, improvvisamente in ansia.

Watson, ignorando la domanda, le appoggiò due dita sulla carotide, poi le prese il polso e si concentrò per sentirne le pulsazioni: c’erano, ed erano forti e veloci unite ad un respiro debole ma annaspante.

« Ha il battito molto accelerato... c’è qualcosa che non va » esclamò con un filo di voce, distaccandola lentamente dalla parete a cui era appoggiata per cercare di distenderla; Edward, tenendola per il busto con l’unico braccio di cui disponeva, diede una mano al dottore.

Quando la ragazza fu distesa, John le controllò di nuovo il polso carotideo, aggrottando le sopracciglia con fare a metà fra il disperato e l’indeciso.

Si spostò sulla gamba e cominciò a disfare la fasciatura. « Ed, tieni due dita premute sulla sua carotide e dimmi se il cuore smette di battere » disse pragmatico, senza nemmeno guardarlo, impegnato com’era a liberare la ferita dalla benda senza provocare altri danni.

Il giovane soldato annuì, appoggiando due dita sulla gola della ragazza e sorridendo nel frattempo ad Alice, in piedi poco distante con gli occhi lucidi di paura prima repressa ed ora riaffiorata.

Joy, nel frattempo, non si svegliava. Nonostante fosse scontato che John le stesse facendo male nel disfare la fasciatura, lei non aveva nessuna reazione, né si muoveva. Uno stato completamente incosciente aveva avvolto la sua mente, tanto che nemmeno il dolore era sufficiente a farle riaprire gli occhi.

Watson, d’altro canto, poteva immaginare cosa stesse succedendo. E sperava di sbagliarsi.

Era stato uno stupido a non accorgersene prima, a non capire che quelle smorfie iniziali erano dovute ad un dolore di un tipo diverso da quello provocato dalla ferita in sé e per sé. Era stato un idiota a non capire che lei stava male, che stava per perdere i sensi con la possibilità di non risvegliarsi mai più... e lui cos’aveva fatto? Aveva chiuso gli occhi, richiamando a sé un sonno leggero che non poteva concedersi. Lui era il medico, lui era stato eletto silenziosamente a colonna portante proprio grazie alla sua laurea in medicina e alla sua capacità di prendere il controllo del piccolo gruppetto, non poteva perdere il controllo!

Non avrebbe dovuto dormire, non avrebbe dovuto chiudere gli occhi, non avrebbe dovuto cedere alla stanchezza! Nemmeno un istante, nemmeno un secondo! Era stato un idiota!

E per la sua idiozia, Joy rischiava di morire. Solo per la sua idiozia.

Strinse i denti talmente forte, nel riportare nuovamente alla luce la ferita di Joy, che cominciarono a fargli male le gengive. Avrebbe quasi ringhiato, probabilmente, se non avesse dovuto ritrovare un minimo di controllo per fare effettivamente il suo lavoro: controllare la ferita.

Il sangue si era fermato ed aveva cominciato già a coagulare, formando piccole croste scure di sangue raffermo su di una superficie rosso vivo, lo stesso colore del sangue fresco che macchiava la pelle tutt’intorno. I margini della ferita invece, sia da una parte che dall’altra a contatto con la sbarra di ferro che trapassava il muscolo della coscia, risultavano frastagliate e rosse, con vescicole di colore giallo, alcune delle quali rotte. John estrasse il proprio fazzoletto dalla tasca e, pulendo la pelle intorno dal sangue che l’aveva sporcata, poté notare che era butterata da piccole macchioline rosse in prossimità della ferita.

Aveva già visto molte volte quelle macchie, in Afghanistan. Sapeva cos’erano. Sapeva che nella maggior parte dei casi colpiva la pelle, ma che se penetrava all’interno dell’organismo il danno poteva essere anche peggiore. Molto peggiore.

Sei uno stupido, John Watson. Questa ragazza morirà e sarà tutta colpa tua.

Sospirò, trattenendo un gemito di rassegnazione, posandosi il dorso della mano sugli occhi e facendo molta attenzione a non toccarsi direttamente il viso con la mano sporca di sangue.

Non c’era molto da fare. No... non c’era più niente da fare.

« Cos’ha? » domandò Edward, agitandosi nel vedere il medico immobile. « Cosa c’è, dottor Watson?! » esclamò, senza spostare la mano dal collo di Joy ma prestando palesemente tutta la sua attenzione al dottore.

Lui, deglutendo, cercò dentro di sé la forza di pronunciare le parole del proprio fallimento. « Stafilococco... » disse in un soffio, continuando con lo sguardo basso: « ha un’infezione... probabilmente è già nel sangue. Setticemia. Mi serve della penicillina, o degli antibiotici a largo spettro... o meglio, mi servirebbe un dannato ospedale! » disse, gridando l’ultima frase in un moto di rabbia, facendo sobbalzare sia Edward che Alice, la quale prese a piangere silenziosamente.(2)

Il soldato deglutì, prendendo fiato due volte prima di riuscire ad articolare la domanda che voleva fare: « come... cos... cosa facciamo ora? » gli chiese, in attesa di qualche sua parola.

John non si sentiva più in grado di guidare nessuno, in quel momento. Era dolorosamente consapevole che l’aggravarsi delle condizioni della ragazza poteva essere colpa sua, che si era distratto, ma sapeva anche che avrebbe preso quell’infezione comunque, e senza medicinali non avrebbe potuto far niente per lei né prima né dopo.

Ma era comunque la magra consolazione del macabro colpo di “fortuna” che non faceva per niente sparire il senso di colpa, anzi, ne aumentava la morsa opprimente.

Edward probabilmente notò lo sguardo perso di John, perché lasciò il collo di Joy per mettere la mano sulla spalla del medico, cominciando a scuoterlo per portarlo alla realtà: « Capitano, non mi vada in confusione adesso! Ho bisogno di lei, io non sono un medico e non so cosa fare! » disse, in quello che doveva essere un gesto per destarlo ma che finì per essere una sorta di contenitore per il suo panico.

John, tuttavia, annuì. Sorvolò persino sul fatto che lo avesse chiamato con i suoi gradi... ma erano veramente poche le cose che poteva dire, in quel momento, e non ve ne era nessuna che potesse effettivamente fare.

« Non... non possiamo fare niente, Edward... » mormorò, lasciando che l’altro lo guardasse a bocca aperta, ricambiando lo sguardo: « non abbiamo medicinali, e non abbiamo nemmeno la possibilità di trovarne. Ormai è completamente incosciente... se è davvero setticemia, presto i suoi organi interni cominceranno a cedere uno ad uno e quando toccherà al cuore... » lasciò cadere.

Ad Edward non servì il seguito della frase per capire cosa stesse per dire e cosa significasse quell’improvviso silenzio.

« Maledizione... » sussurrò a sua volta, abbassando il volto e serrando gli occhi.

Alice, in piedi immobile a qualche passo da loro, li guardava con occhi sgranati pieni di lacrime. I forti rumori in lontananza continuavano a sentirsi, ma lei sembrava l’unica a dargli ancora peso. Spostando il capo lentamente, osservò l’involucro di abiti che copriva quella che doveva essere sua madre.

Tirò su con il naso e, lasciandosi finalmente andare, scoppiò di nuovo in un pianto convulso.

Fu accolta dall’abbraccio impacciato di Edward, che la strinse forte a sé.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 17:00 pm

 

La dinamica effettiva con cui un vagone simile, di quel peso e con quella massa, potesse essersi effettivamente posizionato sopra un altro vagone del tutto uguale, per lui rimaneva un mistero.

Era ingegnere navale, e ne aveva viste tante durante il tirocinio formativo dell’ultimo anno di università... ma mai, mai gli era capitata, anche solo in simulazione, una situazione del genere.

La trovava una cosa semplicemente impossibile. Eppure, dato che aveva l’accaduto proprio davanti agli occhi nella sua forma reale e tangibile, avrebbe dovuto smettere di ritenerlo tale e cominciare a pensare a come districarsi da quella situazione complicata.

Perché, tanto per cambiare, aveva dei problemi.

Tanto per cominciare, avevano impiegato mezz’ora per capire come entrare all’interno del vagone soprastante. Non si vedeva nessuna luce né si sentiva nessun rumore all’interno, ma il suo lavoro era vedere con gli occhi, non supporre con l’istinto.

I finestrini erano tutti schiacciati e quelli ancora, in parte, interi erano completamente impraticabili. Avevano dovuto prima martellare la fiancata, cercando di rendere il metallo un po’ più cedevole, poi aprirsi un varco abbastanza largo con la sega circolare, che non aveva fatto altro che riempire l’aria di altra polvere, facendo rimbombare ed echeggiare il rumore acuto dei dentelli lungo la galleria.

Alla fine, dopo tutti gli sforzi, erano riusciti ad entrare. Tutti cadaveri. Un’altra mezz’ora per tirarli fuori tutti e trasportarli all’esterno in barelle all’interno di sacchi neri di plastica.

Probabilmente, se avesse avuto tempo di fermarsi un attimo, gli avrebbero fatto anche pena. Vero era che faceva il vigile del fuoco, quindi era piuttosto naturale che si trovasse in situazioni simili... ma rimaneva comunque un essere umano con una famiglia, e quando succedevano cose come l’incidente ferroviario di quel giorno, si diceva sempre che era qualcosa di talmente casuale che era stupido pensare che non potesse succedere anche ai suoi cari – sua moglie, lui stesso, suo figlio in arrivo...

Ci pensava, e facendolo provava irrimediabilmente un fastidio seccante.

Lo fece anche quella volta, ma scacciò il pensiero con una scrollata di capo e tornò ad occuparsi del proprio lavoro.

Si avvicinò a Dennis a passo svelto, che stava raccogliendo e spostando altrove la sega circolare usata poco prima. « Dennis? » chiamò, poggiandogli una mano sulla spalla.

Quello, alzando gli occhi incredibilmente stanchi su di lui, rimase in attesa della domanda.

Li stava sfibrando, quegli uomini. Stava pretendendo il massimo e loro gli stavano dando il massimo, ma erano stanchi, e si vedeva. Avevano bisogno di respirare aria pulita.

« Prendi i ragazzi e torna su. Ho già detto al capo di mandare giù una squadra di riserva, è in arrivo » gli disse.

« Non se ne parla nemmeno, ragazzino! » esclamò l’altro, riprendendo per stizza il primissimo soprannome che puntualmente gli avevano affibbiato, una volta entrato nel corpo dei vigili del fuoco: « non ho la minima intenzione di lasciarti qui sotto da solo. E no, non voglio sentire “ma”, “però” o pietosissimi “è per la tua salute”! » lo anticipò, tarpandogli le ali fin dall’inizio della risposta che aveva pensato di dargli.

Cosa che fece comunque, in ogni caso. « Sai benissimo che è vero » si limitò a dirgli, sospirando piano.

Quello, cocciuto, non cambiò idea. « Manderò su i ragazzi, Nick, ma non esiste che io mi sposti da qui. Ho giurato a me stesso che ti avrei tenuto d’occhio ed è quello che farò » disse, e suonò definitivo.

Nicholas avrebbe potuto fare appello al regolamento, al giuramento che avevano fatto quando avevano vestito la divisa, alla regola d’oro “prima gli altri poi te stesso”; avrebbe potuto persino votarsi a chissà quali santi, ma sapeva benissimo che Dennis non avrebbe mosso il suo culo da quella galleria nemmeno sotto minaccia.

Non finché lui rimaneva lì sotto. E nemmeno lui intendeva muovere il culo da quella galleria, dopotutto.

Era una sottospecie abbastanza tragicomica di impasse.

Sospirando rassegnato, gli annuì complice. « Ma manda su gli altri... » si limitò a dirgli, ricevendo in risposta un secco cenno d’assenso.

Osservandolo dirigersi verso il resto della squadra – che comunque non prese benissimo la decisione, a giudicare dai lamenti che sentì – passò all’altro ostacolo sulla sua corsa che sapeva già non sarebbe riuscito a superare: Sherlock Holmes. Lo cercò con lo sguardo.

Se ne stava seduto sul fondo della galleria, sopra ad uno dei massi più grossi crollati insieme a parte della stessa, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani unite portate al mento. Si sarebbe quasi potuto dire che stesse pregando, se non fosse stato per gli occhi spalancati sul nulla, fissi in un solo punto come non fosse nemmeno lì con loro ma stesse navigando altri mari verso altri orizzonti.

Si avvicinò. I capelli ricci e scuri erano madidi di sudore, sceso lungo gli zigomi in gocce salate che avevano lasciato scie scure sul lieve strato di polvere depositatosi lentamente sul suo viso pallido e filiforme; esse sparivano nel colletto della casacca gialla, arrivando fino al collo. Ma questo era l’unico aspetto che tradiva l’impegno impiegato da Holmes nella ricerca del proprio amico, perché nulla del suo sguardo o della sua posizione mostrava stanchezza o sforzo fisico. Era ancora lucido come quando era sceso in quel tunnel, cosa che gli faceva onore considerando che il resto della squadra era quasi al limite della propria resistenza – motivo per cui erano stati mandati tutti di sopra.

Nicholas si sedette al fianco del detective, in attesa che gli uomini inviatigli dalla superficie arrivassero. Sherlock non mosse un muscolo al suo arrivo, né diede l’impressione di essersene effettivamente accorto.

Il tunnel era improvvisamente più silenzioso e l’unico rumore che riempiva quel silenzio erano i passi pesanti di Dennis sulla ghiaia grossa fra i binari. Nick decise di prendere parola, abbastanza convinto che altrimenti Holmes non l’avrebbe fatto.

« Sa, dovrei dirle di tornare in superficie, in realtà » cominciò: « e spiegarle i pericoli che si corrono nel respirare polvere per quattro ore, ma... so già che non mi ascolterebbe, o mi ignorerebbe direttamente, dunque penso che risparmierò il fiato » disse, togliendosi il casco e passandosi la mano fra i capelli.

L’altro, senza abbandonare la sua posizione, assottigliò gli occhi. Fu l’unico segno tangibile che mostrò e che dimostrava che lo avesse effettivamente ascoltato, dunque Nick non se la prese troppo quando la sua osservazione cadde nel silenzio.

Come se niente fosse, senza nemmeno chiedersi se lo stesse disturbando o meno, continuò a parlare. Chissà per quale motivo, nella sua mente Sherlock Holmes era nel bel mezzo di un processo di autodistruzione silenziosa e aveva conseguentemente pensato che parlargli, in quel momento in cui erano impossibilitati a fare altro, fosse una soluzione elegante per mantenerlo con i piedi per terra.

« Sa, ci ho pensato da quando ho sentito il suo nome... » riprese, posando gli occhi sulla volta scura della galleria: « non mi suonava nuovo, e alla fine mi sono ricordato. “The Science of Deduction”, dico bene? » domandò.

Con la coda dell’occhio vide Holmes girare il viso in sua direzione. Finalmente era riuscito ad attirare la sua attenzione.

« Lo legge? » domandò poi lo stesso Sherlock, un pizzico ben celato di curiosità nella voce.

Nick si sentì interiormente soddisfatto per quella piccola vincita. « Non io, mia moglie. È un avvocato, e in qualche occasione mi ha detto che ha trovato il suo sito molto utile per alcuni casi che stava seguendo insieme a dei clienti particolarmente difficili da gestire. Ho letto anche io qualcosa, ma devo ammettere che mi interesso di più al blog del suo collega... » raccontò.

Nel farlo, notò un fremito negli occhi così incredibilmente chiari dell’altro. Ebbe improvvisamente la conferma di quello che sospettava da un paio d’ore a quella parte e se ne rattristò.

Aveva sperato nel fatto che di “John” fosse pieno il mondo. Aveva sperato che la persona sepolta lì sotto non fosse l’autore di quel blog che tanto apprezzava leggere la sera, di ritorno dal lavoro, in cui si raccontavano meglio che in un telefilm a puntate le avventure e le indagini dell’unico consulting detective del mondo e del dottore suo compare.

« Il dottor John H. Watson » pronunciò quel nome con rispetto e reverenza: « ...è lui che stiamo cercando, signor Holmes? » chiese poi, limitandosi ad osservarlo di sottecchi.

Sherlock tenne gli occhi puntati verso terra, socchiusi in un pensiero che doveva essere particolarmente insistente. Annuì piano alla sua domanda, sospirando debolmente.

Nicholas chiuse gli occhi a sua volta. « Speravo che non si trattasse di lui. Lo speravo davvero. Ma più la guardavo e più mi rendevo conto che, probabilmente, non avrebbe potuto essere nessun altro » riaprì gli occhi: « dopotutto, immagino che voi siate... » lasciò cadere, quasi in imbarazzo a porre quella domanda implicita.

Sherlock sospirò più veementemente, dando l’impressione di qualcuno che faceva leva sulla sua più piccola stilla di autocontrollo per rimanere semplicemente fermo in quel punto senza niente per le mani.

« Non lo siamo » si limitò a rispondergli.

Nick alzò le sopracciglia: « davvero? ».

« È un fraintendimento comune » gli rispose il detective.

« Beh... non me ne meraviglio » commentò distrattamente il pompiere, sfregandosi le mani sul tessuto dei pantaloni per poi portare le dita a strofinarsi gli occhi. Non lo avrebbe mai ammesso, ma cominciava a sua volta a sentire la stanchezza delle ore passate in quel tunnel.

Fu Sherlock a riportarlo sui binari della conversazione – anche se per la maggior parte solitaria – che era stato capace di imbastire: « perché no? » chiese semplicemente.

Ryder girò appena il volto in sua direzione, osservandolo di sottecchi ma abbastanza palesemente da incrociare il suo sguardo debilitante, totalmente rivolto verso di lui. Sentiva dentro di sé che quella domanda non era rivolta alle ovvietà, come il fatto che loro vivessero insieme e comparissero sempre e comunque uno accanto all’altro dappertutto; aveva più l’idea che ricercasse qualcosa di più profondo, o che lo stesse mutamente sfidando a dire qualcosa di più di quello che si poteva semplicemente immaginare con l’aiuto della logica e della fantasia.

D’altro canto, poteva anche stare perdendo la testa. Sarebbe stato altrettanto plausibile.

« Mi baso su quello che leggo » gli disse dunque: « vede... Il dr. Watson parla di lei nel suo blog come io parlerei di mia moglie, scrivendo ciò che ha di buono e facendo passare per sottigliezze irrilevanti ciò che di buono non ha. Non so come spiegarglielo... ma ha un modo di dipingerla che fa sorridere e, fra le righe, si capisce che tiene a lei. E’ il modo di descrivere agli altri le persone a cui teniamo, lo si fa sempre con un sorriso sulle labbra » spiegò, sorridendo.

Sherlock, ascoltando quelle frasi con l’attenzione che metteva in tutto ciò che faceva, chiuse nuovamente gli occhi. Un secondo, non di più, ma fu sufficiente per abbassare un po’ delle difese che aveva eretto intorno a se stesso.

L’angoscia dell’attesa è sempre quella più terribile di tutte, sia mentalmente che fisicamente. Era un meccanismo di autodistruzione sconsiderata, che sfibrava la mente e tramite essa intaccava anche il corpo.

Una o l’altra. Se solo avesse saputo le sue condizioni... John poteva essere vivo o morto, cinquanta e cinquanta, ma anche solo il fatto di saperlo lo avrebbe fatto spostare da quel limbo pesante come piombo che stava facendo riaffiorare lati di lui nascosti per anni in un qualche angolo del subconscio e lì dimenticati, lasciati con la promessa che non li sarebbe mai andati a riprendere, che non ne aveva bisogno.

Sentimenti... era impreparato ad affrontare un’onda anomala di tale portata. John avrebbe saputo cosa fare, non lui, lui no.

« Lui ha... » cominciò dunque il detective, per una volta iniziando un discorso di propria iniziativa: « ...ha la brutta abitudine di pensare sempre prima con il cuore. E possiede anche la strana capacità di riuscire a salvarti da te stesso » disse solamente, lasciando intuire solo una parte di ciò che era John Watson, cioè molto più che cuore e gentilezza.

Nick si chiese da cosa il dottor Watson era solito salvarlo, cosa c’era nella persona di nome Sherlock Holmes da rappresentare un pericolo per se stesso – oltre al fatto di cacciarsi in situazioni pericolose senza il minimo ripensamento, ovviamente.

Doveva esserci molto di più dietro quell’essere umano di nome John Watson che Holmes non era intenzionato a rivelare, per lo meno non a voce. Ma lo vedeva dallo sguardo, dagli occhi preoccupati perennemente in movimento, dalle labbra stirate appiattite l’una contro l’altra, dalla fronte aggrottata e dalle sopracciglia strette. Non bisognava essere un genio della deduzione per capire che il detective, astro d’intelligenza e dal carattere molto particolare, vedeva molto più nel dottor Watson di quello che esprimeva, e probabilmente anche più di quello che era pronto ad ammettere a se stesso e davanti agli altri.

Nicholas, ascoltando per l’ennesima volta il silenzio venutosi a creare fra loro, si convinse infine che questo medico doveva essere non solo una persona importante, per Sherlock Holmes, ma che addirittura rasentasse il limite della necessità, per quell’uomo.

Pregò, mentre Dennis lo richiamava all’ordine indicando in lontananza la nuova squadriglia in arrivo, che accadesse un miracolo. Pregò Dio di avverare il desiderio di Holmes.

Pregò Dio di trovare il dottor John Watson vivo e vegeto.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Train’s Coach), h. 18:00 pm

 

« Ha... ha smesso di battere ».

John alzò gli occhi sul soldato solo per un istante: tanto gli servì per assicurarsi che stesse dicendo la verità.

Il terrore che lesse in quelle iridi era del tutto sincero. Non era possibile fingerlo, non così bene, e in ogni caso aveva ormai imparato che Edward era un ragazzo sincero e schietto.

Aveva fatto come gli era stato detto, tenendo appoggiate le dita della mano sul collo di Joy per almeno un’ora mentre John cercava in tutti i modi di pulire la ferita, utilizzando stracci puliti e saliva.

Aveva ingannato gli altri ingannando se stesso. Sapeva benissimo che non avrebbe potuto fare niente in ogni caso, se non forse aspettare quei soccorsi che più volte avevano smesso di dare segno della loro presenza, salvo riprendere a martellare e a lavorare poco dopo.

Motivo per cui non si sorprese poi molto, quando la voce di Edward scandì quelle parole.

Senza preoccuparsi delle mani sporche si allungò subito ad appoggiarle un dito prima sul polso, poi sulla carotide.

Niente. Edward aveva ragione, alla fine il cuore aveva ceduto.

Stava morendo.

Rimase per qualche istante a guardarla, cercando di trovare una risposta che in realtà aveva già. Poteva provare con un massaggio cardiaco, certo, ma anche se fosse riuscito a riattivarle il cuore, nessuno poteva dire quanto altro tempo avrebbe potuto reggere. Per quello che ne sapeva, ormai esso era danneggiato e anche se avesse ripreso a battere, molto probabilmente Joy avrebbe continuato ad andare in arresto cardiaco fino al completo sfinimento del cuore stesso.

Esatto. Sarebbe stato il suo stesso cuore, prima o poi, ad arrendersi. Era inevitabile. Con quello che aveva non poteva più fare niente e non era nemmeno sicuro che, nel beneaugurato caso che i soccorsi fossero infine giunti anche dentro quel piccolo bozzo pieno d’inferno, anche portandola in ospedale si sarebbe potuta salvare.

La guardò in volto. Pallida e ancora bagnata di sudore, la sua pelle bruciava a causa della febbre alta. Temperatura che sarebbe scesa, nel giro di poche ore, trasformando quel bel viso in un cadavere.

Per un istante, al posto di Joy vide sua sorella Harriett.

Vide sua sorella giacere sul pavimento, immobile, esanime. Sua sorella che sperava sempre in un ritorno di Clara, anche se era stata proprio lei a lasciarla, così simile alla ragazza che desiderava tornare a casa senza dover chiamare un fabbro per farsi aprire la porta, per poi prepararsi e andare a cena con la sua vicina di casa per dirle che l’amava.

Così simili, così diverse. Così uniche.

No. No.

Fossero stati anche solo pochi minuti, doveva fare qualcosa.

« Col cavolo che ti mollo...! » esclamò, spostando la mano di Edward con un cenno della propria e sistemandosi di fianco a lei ben fermo sulle ginocchia, le mani appoggiate sul suo petto all’altezza dello sterno, braccia ben tese.

Cominciò a spingere ripetutamente, mettendo in atto un massaggio cardiaco. Edward, serrando la bocca in un moto di rinnovato spirito, annuì deciso. « Facciamo un ritmo di cinque a uno, dottore! » esclamò, facendo allontanare la piccola Alice e tirando indietro con due dita la testa di Joy, preparandosi a farle la respirazione bocca a bocca.(3)

John assentì, terminando la prima serie di trenta compressioni, a cui Edward rispose con due insufflazioni.

Poi, cominciò il ritmo serrato della rianimazione a due. John li contò ad alta voce.

« Uno, due, tre, quattro, cinque ».

Edward soffiò nella bocca di Joy, facendole gonfiare i polmoni d’aria.

Il cuore non riprese a battere.

Di nuovo.

« Uno, due, tre, quattro, cinque » ripeté John.

Un altro soffio.

Nessun battito cardiaco.

« Uno, due, tre, quattro, cinque! » ancora.

Di nuovo un soffio.

Silenzio.

« Uno, due, tre, quattro, cinque! » continuò John, non perdendosi d’animo.

Ed seguì la sua volontà come una luce nel buio, insufflando nuovamente.

Ma ci fu nuovamente silenzio.

Passarono così cinque minuti, continuando con un ritmo serrato di cinque ad uno finché la fronte di John non fu imperlata di sudore ed i gomiti cominciarono a non reggere più lo sforzo, piegandosi di tanto in tanto, facendogli saltare una compressione. Non potevano cambiare posto, dato che il soldato aveva una spalla fuori uso, così tutta la fatica di far ripartire il cuore alla ragazza stesa a terra toccava a John.

Fatica che, oramai, tralasciata l’inutilità dell’operazione, le sue braccia non potevano più reggere; una scarica di dolore ai muscoli delle stesse lo pregò tacitamente di smettere quella tortura, ma lui non si fermò, anzi continuò ancora.

Continuò finché non riuscì nemmeno a contare ad alta voce a causa del fiatone che si mangiava le parole per trasformarle in aria per i polmoni sotto sforzo.

Continuò per altri quattro minuti.

Allo scoccare del nono minuto – non era possibile rianimarla dopo nove minuti: il cervello poteva sopportare una deprivazione d’ossigeno di massimo quattro minuti, e lui lo sapeva – fu Edward a lasciare andare il naso di Joy, tenuto chiuso dalle dita del soldato in modo da effettuare la respirazione bocca a bocca nel modo corretto, osservando John con occhi stanchi e rassegnati dal corso degli eventi così come gli appariva davanti agli occhi.

Joy, la ragazza che non voleva altro che vivere il suo amore, non c’era più. Era morta in silenzio, addormentandosi sopportando il dolore feroce alla gamba martoriata, nell’angolo di una carrozza dall’alternante luce al neon insieme a persone che nemmeno conosceva sul serio, ma che nel giro di qualche ora erano riusciti a volerle così bene da provare ad ogni costo a salvarle la vita, persino quand’anche la speranza era scomparsa.

Watson guardò ansimante gli occhi di Edward, fermando le compressioni. Strinse i denti in una parolaccia a stento trattenuta e, chiudendo la mano destra a pugno, la batté ferocemente sul petto della ragazza distesa davanti a lui, immobile ed esanime, persino esangue.

« Dannazione! » sbottò, in un attacco di rabbia che anche Edward avrebbe volentieri condiviso se avesse potuto anche solo pensare di muovere il braccio senza sentire i cori demoniaci dell’inferno con tutto il loro dolore.

« Dottore, abbiamo... fatto quello che potevamo... » sussurrò il giovane soldato a denti stretti, arricciando il naso in una smorfia d’ira repressa a malapena. Dall’altra parte della carrozza, Alice si mise a piangere silenziosamente, gli occhietti gonfi e rossi.

« No... » borbottò John, il dorso della mano destra a coprire gli occhi stanchi e lucidi: « no, che non abbiamo fatto abbastanza. Non ho fatto abbastanza. Non me ne sono accorto... lei è morta e io non me ne sono accorto... » soffiò, facendo respiri profondi per impedirsi un crollo emotivo che non avrebbe giovato proprio a nessuno di loro.

« No dottore, lei ha fatto tutto il possibile con quello che aveva! » si scaldò Edward, alzando la voce nel rispondergli: « lei è un medico eccezionale, ed una persona ancora migliore! Non mi vada nel pallone ora, dottore, non è ancora finita! » esclamò.

John si chiese dove la trovasse, tutta quella forza. Probabilmente faceva parte dell’attrezzatura del soldato

Forse una volta l’aveva avuta anche lui, quando indossava la divisa e gli sembrava di fare finalmente qualcosa di utile nella vita, qualcosa che gli sarebbe valso il diritto di vivere camminando a testa alta per strada.

Non poteva sapere che le cose che ti rendono davvero orgoglioso sono sempre dove meno te le aspetti; in un disordinato appartamento di Westminster, per esempio, o negli occhi incredibilmente azzurri di un coinquilino/migliore amico/chissà cosa quando sorride soddisfatto di una tua intuizione.

Stava per rispondergli, quando successe.

Stava per dire a quel giovane pieno di spirito militaresco che andava tutto bene, che doveva solo elaborare la perdita, come aveva fatto moltissime altre volte al fronte, doveva aveva visto i suoi amici morire sotto le proprie mani perché cercava di curarli anche quando non poteva fare proprio niente, per salvarli.

Prese giusto il fiato per pronunciare la prima parola... ma non ci riuscì.

Un dolore sordo esplose come un tuono nel suo stomaco, facendogli contrarre i muscoli del ventre sotto l’insana forza di quella fitta di puro male fisico. Un lampo bianco gli attraversò la vista mentre si chinava istintivamente su se stesso, le mani strette sulla pancia, un respiro mozzato a metà fra la gola e i polmoni. Solo un gemito gli uscì dalle labbra mentre poggiava la fronte al pavimento di fianco al cadavere della ragazza, il suo corpo che cercava in ogni modo di ricacciare indietro quel dolore sconsiderato chiudendosi a riccio in una posizione che la maggior parte della gente normale non avrebbe mai nemmeno preso di propria iniziativa.

L’udito ovattato, a John sembrava di essere stato nuovamente colpito da un proiettile, ma questa volta all’addome. Prese un breve respiro fra i denti serrati, pentendosi subito quando il gonfiarsi dei propri polmoni gli provocò un’altra fitta, facendolo gemere.

Non capiva più niente, il cervello era completamente immobile, incapace di concentrarsi su altre cose se non il dolore. Sentì solo per caso la mano di Edward sulla propria spalla, e prima di rendersene conto era già disteso a terra, ancora chiuso su se stesso nella galoppante disperazione al pensiero, sempre più fondato, che fosse troppo tardi anche per lui.

« Dottor Watson! Cosa le succede?! » la voce del soldato era acuta e tremolante, e anche solo da quella era palese che fosse nel più completo panico.

John tentò di parlare, ma il tentativo si rivelò inutile dato che non aveva sufficiente respiro. Prese coraggio e, pian piano, distese le gambe e si mise supino, per permettere ai propri polmoni di espandersi e quindi ricominciare a respirare.

Aveva fatto la stessa, medesima cosa anche in Afghanistan, quando quel maledetto proiettile di kalashnikov aveva messo fine alla sua carriera e lo aveva fatto passare da un ospedale all’altro per quasi un anno.

« Dottor Watson! » esclamò nuovamente Edward, aspettando una risposta, un cenno, anche solo un segno per sapere se stava bene.

John deglutì, prendendo piccole sorsate d’aria prima di riuscire a tirare fuori la voce: un timbro sussurrato, incrinato, basso.

« La... camicia »  disse, non riuscendo nemmeno a portare la propria mano all’indumento che Edward era già al suo fianco; con dita ruvide e veloci sollevò camicia e maglietta, scoprendogli pancia e stomaco.

Ciò che vide fu un ematoma diffuso, che andava dall’ombelico al fianco e fino a sotto la cintura dei pantaloni. Il soldato sbiancò, tornando a guardarlo in volto con un’espressione terrorizzata.

« E questo cos... Cosa diamine... ? » borbottò.

« Un’emorragia interna... » sussurrò John, afferrandogli il braccio e stringendoglielo forte: « devi... devi... » cercò di dire, ma un movimento sbagliato gli fece strizzare gli occhi per il dolore.

Dolore che, nel frattempo, sembrava allargarsi a macchia d’olio e spostarsi anche verso la parte bassa della schiena.

« Dottore no, no! Io non so cosa fare! » sbraitò Edward, cominciando a guardarsi intorno come impazzito, alla ricerca di chissà cosa che però era impossibile che trovasse, nel posto dove si trovavano.

John si sforzò di non urlare, limitandosi a stringergli nuovamente il braccio: « devi sentirmi i battiti... Edward, devi sentirmi i battiti! » alzò la voce, sovrastando per miracolo quella dell’altro, che riportò lo sguardo su di lui, ancora visibilmente agitato.

Watson, continuando a guardarlo negli occhi per non sembrare insicuro – e dunque non far sentire di riflesso l’altro più insicuro di quanto in realtà già non fosse – riprese a spiegare: « devi tenere d’occhio le mie condizioni, e... e dirmele, ok? » disse, assicurandosi che lo stesse ascoltando.

Il soldato annuì, posandogli un paio di dita tremanti sulla giugulare. « Batte in fretta... » riuscì a dirgli, dovendo ricominciare però a contarli almeno tre volte prima di avere una stima numerica: « direi almeno 100 battiti al minuto » gli disse, sembrando un minimo più calmo.

John gli sorrise, annuendogli appena ed abbandonando la testa sul pavimento duro.

La frequenza era alta rispetto alla norma, se non considerava l’agitazione e la fatica fatta nel cercare di rianimare Joy. Tuttavia ormai era disteso e i battiti non si erano placati, motivo per cui era portato a credere che quell’aumento di frequenza fosse dovuto all’emorragia.

« Ascoltami bene » cominciò dunque a dire, senza spostare il capo ma guardandolo dritto in volto: « sto perdendo sangue da un po’... e-e probabilmente questi sono i sintomi di un’anemia » gli chiarì.

Il sangue perso abbassa la pressione sanguigna; il cuore, per ovviare all’abbassamento del volume del sangue presente nelle vene, aumenta i battiti. La perdita di sangue provoca giramenti di testa, nausea, fiacchezza, sudori freddi e pallore.

« Probabilmente peggiorerà... potrei arrivare ad un punto in cui perderò coscienza. Non devi farti prendere dal panico. Se... » ebbe un attimo di smarrimento nel dover pronunciare quelle parole, ma si riprese subito: doveva essere sicuro che Edward fosse in grado di rimanere con la testa piantata nella realtà. « ...Se per caso non dovessi farcela... devi avere cura di Alice finché non vi tireranno fuori di qui. Hai capito? ».

« Dottore, non dica nemmeno per scherzo una cosa di questo gen- »

« Hai capito?! » lo interruppe il medico, pretendendo una risposta.

Si guardarono negli occhi per un momento che parve infinito, ma che in realtà comprendeva solamente qualche istante. Edward annuì mentre John, avuta finalmente la risposta che aspettava, socchiuse gli occhi e lasciò andare un lungo sospiro.

Perdonami, Sherlock – riuscì solo a pensare.

Forse ti toccherà trovare qualcun altro, con cui dividere l’affitto.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 19:00 pm

 

« Non funzionerà ».

La voce profonda di Sherlock spaccò violentemente il silenzio carico d’aspettative dell’uomo in piedi al suo fianco, che aveva appena terminato di posizionare, insieme ai suoi sottoposti, quattro mezze travi d’acciaio accanto ai due vagoni sovrapposti, come a formare una sorta di percorso discendente per far sì che il vagone superiore potesse lentamente scivolare lungo di esse ed adagiarsi a terra.

Nick sussultò. Non gli era servito molto tempo in sua compagnia per rendersi conto che ogni cosa Sherlock Holmes dicesse era fondata su assunzioni logiche ineccepibili e, di conseguenza, era anche corretta.

Tuttavia negò con il capo. « Non abbiamo tempo per fare nient’altro » disse, suonando sicuro di sé.

L’idea era sembrata buona – o meglio, era parsa l’unica praticabile nel poco tempo che avevano – dunque era stata messa subito in atto.

Ma a Sherlock, ora come all’inizio, sembrava solamente un maldestro tentativo di scaricare da un camion una botte da cinquanta chili di vino usando un paio di tavole di compensato.

« Il vagone è troppo pesante » osservò: « le travi si piegheranno non appena il peso si sarà concentrato nel punto di appoggio alle travi stesse. Si piegheranno e cederanno, e la carrozza trascinerà con sé anche i detriti che ne hanno schiacciato la parte rivolta verso la motrice. Probabilmente questo crollo non farà altro che gravare ulteriormente sulle condizioni già precarie della volta, ma ammetto di sparare nel buio dicendo che potrebbero esserci altri crolli. Lei è un ingegnere, queste cose dovrebbe saperle » terminò, rivolgendosi a Nick senza però guardarlo direttamente, tenendo invece gli occhi socchiusi e fissi sull’ultimo manipolo di pompieri che assicurava meglio le travi alla terra sotto i loro piedi.

Nicholas, istintivamente, alzò gli occhi alla volta scura sopra di loro.

Da ingegnere, anche se navale, sapeva dentro di sé che Holmes aveva ragione. Che poteva effettivamente succedere di tutto e il pensiero che sopra di loro – a quasi dieci metri, in realtà, ma comunque sopra di loro rimaneva – ci fossero le acque del Tamigi non lo calmava affatto, anzi.

Sospirò pesantemente, grattandosi la nuca con la mano destra. « Con tutti i maledetti posti che questa galleria attraversa, proprio qui doveva deragliare... accidenti » borbottò a bassa voce. Solo Sherlock riuscì a sentirlo, ma non commentò nessuna delle sue parole.

Il detective, d’altro canto, non staccò mai gli occhi dalle operazioni in atto.

Era sicurissimo che quel vagone sarebbe rotolato giù veloce come un barile lungo una discesa, così come era altamente convinto che almeno parte della galleria avrebbe ceduto a quello spostamento improvviso; quello che tentava di capire in realtà, però, era se la carrozza sottostante, ovvero l’ultima su cui potevano intervenire – quella in cui doveva per forza esserci John – avrebbe retto all’urto o si sarebbe irrimediabilmente accartocciata su se stessa, come una foglia che va a fuoco.

Cercando di non prendere in considerazione quali sarebbero state le conseguenze di quella mossa del tutto sconsiderata – ma non illogica – sugli eventuali occupanti del vagone, si rivolse nuovamente al pompiere, impegnato a mordersi il labbro inferiore in un attacco d’ansia tenuto prontamente a bada.

« Non c’è altra scelta? » domandò il detective, attendendo una replica.

Risposta che arrivò dopo qualche istante di meditazione da parte dell’altro. « No » rispose: « potremmo spostarlo con una gru, che qui sotto non entrerebbe. Potremmo anche cercare di creare un passaggio che passi dalla parte sottostante della carrozza superiore fino al soffitto di quella inferiore, ma sono entrambi talmente spessi che impiegheremmo troppo tempo, oltre che rischiare di ferire eventuali superstiti nel tentativo. Ho preso in considerazione anche di tagliare un pezzo dalla paratia visibile della carrozza sottostante, ma temo che se lo facessimo non reggerebbe più il peso del vagone soprastante e crollerebbe tutto. Abbiamo controllato ai due lati e dall’altra parte se ci sono passaggi percorribili ma niente, non ne abbiamo visti. Sappiamo solo che filtra della luce, quindi c’è della corrente elettrica. Tutto qui » terminò il riassunto, osservando poi Sherlock: « se ha idee migliori, sono tutto orecchie » aggiunse poi, sorridendo amaramente.

« Ne ho sette, ma tutte impraticabili qui sotto » rispose subito Holmes, dovendo ammettere con se stesso che il piano elaborato da Ryder era l’unico fattibile.

Era come un esperimento. Avevano preparato tutto l’occorrente, ora mancava solamente la messa in atto. Tutto ciò che dovevano fare era agire e, successivamente, fare l’analisi di ciò che era successo.

Deglutì, annuendo brevemente a se stesso.

“Fiducia”, non era questo che aveva detto Lestrade? Abbi fiducia.

Nicholas lo vide annuire, e per riflesso fece anche lui lo stesso. Si rivolse poi ai suoi uomini, quindici fra pompieri e paramedici, posizionati in cinque gruppi da tre con ognuno in mano una corda, pronti a tirare.

« Cominciate! » gridò Nick; lui e Sherlock, contemporaneamente, andarono a posizionarsi dietro Dennis alla quinta fila.

Al segnale di via, tutti i gruppi presero a strattonare le grosse corde, tenendo il ritmo delle tirate con la voce. Ad ogni strattone secco che riceveva, il metallo del vagone scricchiolava sempre più forte e, con un rumore acuto, cominciò pian piano a spostarsi.

« Si muove! Continuiamo! » gridò Dennis.

Sherlock, nonostante avesse i guanti, non si sentiva più le mani. La pelle dei palmi aveva bruciato dopo i primi tre strattoni a causa della frizione della cute contro la stoffa ruvida dell’interno del guanto e, pian piano, aveva semplicemente smesso di sentirsela attaccata alle dita. I muscoli delle sue braccia cominciarono a dolergli, così come i quadricipiti delle gambe, che sparavano acido lattico nelle fibre muscolari a ritmo esponenziale.

Ma continuò lo stesso. Solo il pensiero che là sotto, là dentro, ci fosse John, lo spingeva senza rimpianti a smembrare se stesso nel tentativo di salvarlo, o anche solo vederlo.

Voleva solo vederlo. Voleva solo sapere.

Sapere se sarebbe tornato alla sua vecchia vita piena di nuove abitudini o se sarebbe stato condannato ad annegare ogni giorno sulla terraferma.

Continuarono a strattonare per un numero indefinito minuti, nei quali il vagone si mosse di parecchi centimetri. Quando finalmente sembrò in bilico su se stesso e sul punto di cadere, la voce di Nick si alzò in un gutturale: « tirate! ORA! ».

Sherlock, così come tutti gli altri uomini, puntò i piedi a terra e tirò con tutta la forza che aveva a disposizione, stringendo i denti e artigliando le mani alla corda, usando persino le unghie.

In un cigolio metallico, il vagone rotolò sulle travi. E, come aveva predetto Sherlock, esse si piegarono irrimediabilmente sotto il suo peso, lasciandolo cadere ad una velocità superiore alle aspettative.

Il movimento improvviso della carrozza, inoltre, sempre come Sherlock aveva predetto, causò uno spostamento dei detriti in equilibrio precario sopra di essa. Crollò della terra, fango e alcuni pezzi di pietra; con un rumore sordo una lunga crepa si formò sul soffitto, facendo sì che altri pezzi di pietra si staccassero dalla volta a precipitassero,

esattamente sopra i soccorritori e le due carrozze.

Sherlock fece a malapena in tempo a vedere alcuni pezzi cadere a poca distanza da lui che subito un “a terra!” gridato disperatamente gli trapassò le orecchie. Si buttò al suolo, venendo subito coperto da braccia non sapeva appartenenti a chi e poté chiaramente sentire le sue ginocchia, gli stinchi ed i gomiti urtare contro la ghiaia grossa del manto della galleria.

Un lieve dolore alla testa e poi più nulla se non una nube di polvere grigia.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Train’s Coach) –  meanwhile

 

Aveva sentito i primi cigolii del metallo sopra la sua testa come eco lontane, perso in una sorta di dormiveglia che tale non era, ma che vi assomigliava grandemente.

Steso sul fianco sinistro, Alice gli teneva una mano con le sue, poggiate sul piccolo grembo come farebbe una donna fatta e finita. Probabilmente, in quel breve lasso di tempo, la piccola aveva perso un pezzo della sua infanzia ed era diventata grande tutto d’un colpo, troppo in fretta, non meritandoselo affatto.

Aveva freddo, John. Brividi di gelo gli correvano sulla pelle della schiena facendolo tremare. Si sentiva le viscere strette in una morsa fastidiosa, prendeva brevi respiri con il naso alzando ed abbassando il torace e si sentiva le palpebre sempre più pensati, nonostante cercasse con tutto se stesso di rimanere se non vigile, almeno sveglio.

« Cosa sta succedendo...? » riuscì a borbottare, fissando gli occhi socchiusi e carichi di un sonno innaturale sul soffitto.

Edward, seduto accanto a lui da quando aveva avuto il malore, alzò lo sguardo a sua volta. « Non so... ma stanno facendo qualcosa » dichiarò, alzandosi in piedi ed avvicinandosi al finestrino sfondato in precedenza per poter dare un’occhiata.

Seguendolo con lo sguardo, John si imbatté nel cadavere di Joy, ancora steso lì dove avevano tentato di rianimarla. Edward si era limitato a coprirne il volto ed il busto con la sua giacca, senza spostarla.

Il senso di colpa dilagò nel petto del medico, ma fu un’altra la cosa che, malauguratamente, catturò la sua attenzione. Non si era minimamente accorto di quando l’aveva fatto.

Ciò voleva dire che aveva cominciato a perdersi dei pezzi. Vuoti di coscienza in cui probabilmente perdeva conoscenza, o semplicemente si addormentava.

Sospirò, chiudendo gli occhi per un secondo, infastidito dalla luce al neon sempre più tremolante. Alice, osservandolo, gli strinse di più la mano nelle proprie. Il dottore cercò di ricambiare la stretta quanto poteva.

« Non avere paura, piccola Alice... » gli disse poi, sussurrando data la vicinanza e la confusione in testa che aumentava minuto dopo minuto: « andrà tutto bene e tornerai dal tuo papà... » le disse.

Lei, con quell’aria sperduta e spaventata su tutto il viso, annuì in un gesto quasi invisibile.

« Dottore... tu ce l’hai un papà? » chiese poi la piccola, mentre i rumori sopra di loro sembravano aumentare pian piano d’intensità. Edward, con la torcia di Joy, si era intanto arrampicato su per il piccolo passaggio del finestrino.

Il medico le fece un sorriso stanco, negando con il capo. « No, non ce l’ho più... però qualcuno sì, ce l’ho » aggiunse, sempre sorridendole, nel tentativo di tenerla il più tranquilla possibile.

Alice sembrò pensarci su per un attimo. « È la persona che dicevi prima? » domandò.

John annuì di nuovo. « Il tuo papà è una persona importante per te, Alice? Gli vuoi bene? » le chiese; lei annuì.

In quel momento, pensò che non poteva essere poi così sbagliato, essere sincero con se stesso. Molto probabilmente sarebbe morto, se i soccorsi non fossero arrivati in tempo, e in ogni caso si sentiva già abbastanza debole da pensare di non potercela comunque fare.

Sherlock era la prima persona che istintivamente associava al termine “importante”. Era il suo coinquilino, il suo migliore amico, e forse anche più di questo, non lo sapeva nemmeno lui. Era semplicemente consapevole del fatto che, quando la sua terapista gli aveva chiesto dove si vedesse a dieci anni nel futuro, lui aveva risposto immediatamente “al 221B di Baker Street”. Aveva l’improbabile immagine mentale che sarebbe stata quella la sua vita, da quel momento in poi: rimanere al fianco di Sherlock. Sempre.

Ascoltarlo durante le sue deduzioni, aiutarlo – per quanto possibile – durante la risoluzione dei casi, scrivere le sue avventure su quel blog rimasto una semplice pagina bianca per tante notti insonni piene di mine e deserto, per poi essere riempito con narrazioni mozzafiato di indagini risolte (e non, anche se  Sherlock non piaceva che lui scrivesse anche di quelle).

Era stato riempito di vita. La vita che era stato Sherlock a dargli. L’aveva condensata dall’aria come rugiada fra le dita e poi l’aveva posata delicatamente sulle sue, lasciando che John ne facesse ciò che voleva.

E gli sarebbero mancate tante, troppe cose. Come la torta di mele di mrs. Hudson, o i momenti folli in cui Sherlock decideva di vivere solo di tè perché “la digestione spreca preziose energie utili al mio cervello”. Il commesso del ristorante cinese che ormai sapeva esattamente cos’avrebbero ordinato, Angelo e le sue candele, i sabato sera sul divano a guardare un film a noleggio, le sue dita affusolate e bianche appoggiate sull’archetto e le note di Bach, o Mozart, o Pachelbel, o Paganini, o Čajkovskij a riempire la notte silenziosa.

Non era per disperazione che stava con Sherlock Holmes, no... e non era la pazienza ciò che lo rendeva adatto a vivere con lui. La realtà era un’altra ed era sempre stata molto semplice; John era attratto dal mondo di Sherlock, e lo era stato dalla prima volta che aveva incrociato il suo sguardo.

Non credeva di amarlo e non si immaginava in quel senso, con lui. Ma non si immaginava nemmeno senza di lui.

Non più, ormai.

Indispensabile come l’aria, come l’acqua, come il sole.

Insieme a lui e mai più da solo.

Watson sorrideva senza nemmeno rendersene conto, fissando un punto indefinito delle mani di Alice.

« Anche io voglio bene alla mia persona speciale, Alice. Tanto bene. E sono preoccupato, perché abbiamo litigato e io non riuscirò a chiedergli scusa... » disse, riducendo la voce ad un soffio sul finire della frase.

Sì, un mondo senza Sherlock Holmes era impensabile. Ma lui era solo John Watson.

E aveva la sensazione che ce ne fossero tanti altri, come lui. Tante altre persone normali che avrebbero potuto prendere il suo posto accanto a Sherlock, nel cuore di Sherlock.

John Watson era una pedina sacrificabile, dopotutto.

Non sarebbe cambiato niente.

« Perché no? »

La domanda di Alice lo riscosse da quei pensieri pessimistici, permettendogli di non addormentarsi seguendo la rotta di quegli stessi ragionamenti alla deriva. Si riscosse, sospirando affranto.

« Perché ho... paura » riuscì a dirle.

Perché morirò, pensò in realtà.

« Anche io ho sempre paura quando papà mi sgrida perché lo faccio arrabbiare, però poi mi porta a prendere un gelato e io gli dico che gli voglio bene, così facciamo pace » disse la piccola, aggiungendo poi felice: « quando torni a casa, digli anche tu che gli vuoi bene, così fate pace ».

John ridacchiò appena, annuendo.

Quanta verità giace nella bocca dei bambini, che non hanno paura di dire le cose come stanno, o lo spettro del dubbio ad oscurare i loro occhi.

Stava probabilmente per aggiungere qualcosa, ma il ritorno di Edward spostò altrove l’attenzione di entrambi.

« Stanno spostando il vagone superiore » disse, sedendosi di nuovo di fianco a John; nel frattempo, i rumori sopra di loro si erano fatti più forti ed erano palesemente suoni di metallo che slitta su altro metallo. Suoni fastidiosi, in realtà, ma che almeno davano a loro la speranza che qualcuno ci fosse, là fuori.

Ma John era un medico, ed essere medici significa essere anche realisti, quando serve.

Aveva freddo, sonno e si sentiva anche terribilmente confuso. Nonostante il dolore alla pancia e all’addome non riusciva più a rimanere sveglio; i suoi occhi troppo pesanti imploravano di scivolare in un sonno che, lo sapeva, non lo avrebbe più lasciato andare.

Alzando lentamente una mano – quella libera dalla presa gentile ed impacciata di Alice – prese l’avambraccio di Edward, che posò gli occhi su di lui.

Non si nega l’ultimo desiderio, no? Non funzionava così?

« Baker Street, 221B » gli disse.

« Cos... dottore, cosa sta... ? » borbottò quello, facendo finta di non aver capito.

« 221B di Baker Street » ripeté allora John: « cerca Sherlock Holmes, devi digli che... »

« No, dottore! »

« Ascoltami! »

L’urlo che John lanciò, trovando chissà dove la forza per farlo, fece zittire automaticamente il soldato, che non ebbe cuore di rimanere sordo a quelle parole di cui aveva giù intuito il significato.

Annuì, rimanendo in silenzio, le orecchie aperte.

John poté continuare. « Devi dirgli che... » che gli voglio bene, che non voglio lasciarlo solo, che lo terrò d’occhio ogni giorno, che sarò con lui in ogni momento, che gli sussurrerò il mio nome all’orecchio quando starà per dimenticarsene, che lo guarderò diventare un uomo sempre migliore, che deve ricordarsi di mangiare, che il frigorifero non è fatto per tenerci teste mozzate, che mi dispiace per avere litigato, che i momenti passati con lui sono stati i più spettacolari della mia vita, che è il mio migliore amico, che mi ero aspettato che finisse in un modo migliore, che... « ...che può tenere le mie dita nel frigorifero, se vuole » disse, ridendo di sé stesso.

Edward sembrò non capire, ma annuì comunque, in silenzio.

Poi, uno scoppio. Ci fu un rumore più secco, come di qualcosa che si piegava e si rompeva, e un rombo assordante lo seguì, accompagnato da un nugolo di polvere densa e grigia che penetrò da ogni fenditura, riempiendo il vagone.

John fece in tempo a sentire la piccola Alice rifugiarsi fra le sue braccia, ed Edward piegarsi su di lui nel tentativo di proteggerlo, prima di perdere definitivamente i sensi.

Cadde in un sonno da cui non era sicuro si sarebbe risvegliato.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 19:30 pm

 

Quando finalmente il fastidioso rumore terminò, e tutto ciò che rimase fu silenzio e respiri ansanti di persone in attesa di un qualsiasi altro suono o del completo silenzio, finalmente si permise di prendere un respiro profondo.

Polvere. Era nell’aria e la sentiva penetrare pian piano anche nei polmoni, ad ogni respiro che prendeva. Sotto le mani sentiva i sassi e sopra di lui, con il petto appoggiato alla sua schiena nel tentativo del tutto istintivo di fornirgli protezione, Nicholas stava riprendendo conoscenza in quel momento.

Cercando di essere meno rude possibile, Sherlock se lo scrollò dalle spalle, sedendosi a terra.

Non sentiva particolare dolore da nessuna parte, ma il non potere vedere le proprie condizioni non lo aiutava affatto a fare il punto della situazione. La galleria era buia, illuminata solamente da un lieve lucore proveniente dalle luci che non erano state danneggiate dal nuovo crollo appena avvenuto, e tutto intorno a lui distingueva solo di semplici ombre nere dalle forme vagamente riconoscibili.

La sua mente volò subito ai vagoni, e a John per collegamento.

Poteva essersi ferito? La carrozza sottostante aveva ceduto al peso?

Nonostante non vedesse bene, poteva dire dallo spazio sgombro di grandi masse intorno a sé che la carrozza soprastante non era caduta del tutto, dunque il loro piano non era andato completamente in porto. Aveva riportato danni? Era crollata sotto il peso di nuovi detriti staccatisi dalla volta? John era morto?

Prima era vivo?

Sentendo la confusione tornare padrona di lui, strinse gli occhi e cercò di concentrarsi su altro. Nella quasi totale oscurità non era esattamente in grado di utilizzare la vista per dedurre quanto grave potesse essere la situazione, ma almeno gli rimaneva l’udito.

Sentì Nicholas, in ginocchio davanti a lui, sussurrare una serie di “dannazione” intervallati da alcuni colpi di tosse. Immaginò fosse stato ferito – nel tentativo di proteggerti, Sherlock, come un vero eroe, di quelli che non esistono – ma non ebbe effettivamente il tempo per domandarglielo.

« STATE TUTTI BENE? » urlò infatti quello, facendo risuonare la sua voce lungo tutto il tunnel in una nota echeggiante: « aggiornatemi sulla situazione per gruppi e non muovetevi da dove siete! » aggiunse.

Probabilmente i suoi uomini aspettavano solo questo, fermi nel buio, perché subito i fasci di alcune torce elettriche rischiararono l’ambiente

« Gruppo uno, tutto ok! » si sentì da una ventina di metri di distanza.

« Gruppo due, Sykes ha una gamba rotta, serve un medico! ».

Nick puntò la torcia su Dennis, seduto a poca distanza, poi la spostò su Sherlock, osservandolo attentamente.

« Gruppo tre, tutto ok! Lewis chiede di poter raggiungere il gruppo due per visitare Sykes! ».

Vide qualcosa che non gli piacque, probabilmente, perché si avvicinò meglio e, togliendosi un guanto, gli spostò i capelli ricci e ormai incrostati di polvere e sudore dalla fronte. Sherlock glielo lasciò fare, prendendo ampi respiri d’aria per liberarsi dalla sensazione di avere letteralmente mangiato della polvere. Nick gli toccò un punto specifico della testa e, quando lo fece, Sherlock si ritrasse di colpo, sentendo una scarica di bruciore.

Quando gli mise le dita davanti al volto, illuminandole con la torcia, sia Sherlock che Nick poterono vedere che erano sporche di sangue.

Era ferito.

« Ecco a cosa serve il casco » gli disse il pompiere, la voce a metà fra un’ironia amara e il rimprovero.

« Gruppo quattro, Hallam ha la caviglia bloccata da un pezzo di pietra e non ha ancora ripreso conoscenza! ».

Si guardarono per un attimo negli occhi, entrambi consapevoli di cosa sarebbe successo da quel momento in poi. Sherlock scosse la testa, ma Nick questa volta sembrò irremovibile nella sua decisione.

« Gruppo cinque, Holmes è ferito! » disse in risposta agli altri, per poi aggiungere: « Lewis, pensa prima ad Hallam. C’è qualche paramedico libero che può andare da Sykes e venire qui? » domandò, sempre a voce alta per farsi sentire.

« Walker, vado al gruppo due! »

« Gray, sto arrivando da lei! » risposero due degli uomini, mettendosi subito in marcia.

Sembrava un’operazione militare e per qualche istante Sherlock si immaginò Ryder con una divisa da soldato a comandare un plotone d’assalto in un qualche film d’azione che da piccolo gli capitava di vedere. Sarebbe stato capace, probabilmente, considerate le abilità di comando che aveva dimostrato per tutto il tempo in cui Holmes era stato “ospite” della squadra di soccorso, e non faticò per nulla ad immaginarselo ad abbaiare ordini alle reclute.

John non guardava mai film a sfondo militaresco o riguardanti la guerra. Diceva che non li sopportava ma la realtà, forse, era che provava nostalgia per quella vita che era stato costretto a lasciare.

Al solo pensiero che John, avendone la possibilità, avrebbe potuto decidere di lasciare l’appartamento – anche se sapeva che era congedato, ma nulla gli impediva di trovarsi una donna con cui andare a vivere... – si sentiva sempre pervaso da una sorda irritazione.

Ma ora, il solo dubbio che John potesse essere morto era abbastanza per trasformare quell’irritazione in panico.

Fu distratto nuovamente dalle parole di Ryder.

« Dennis, chiama la superficie e aggiorna il comandante, e fai scendere di nuovo la prima squadra. Poi raduna i ragazzi e questa volta li accompagnerai di sopra anche tu » disse, il tono fermo di chi ha già preso una decisione e non cambierà idea. « Porterai anche Holmes con te » disse poi.

Fermo come lo erano i suoi occhi.

Dennis non ribatté nulla, questa volta, limitandosi a prendere la ricetrasmittente e gracchiare qualche parola a chi era all’ascolto. Si alzò con passo svelto, poi, dirigendosi verso gli altri uomini nel tunnel.

Sherlock, senza nemmeno aspettare che l’altro fosse lontano, proruppe in uno stizzito « non se ne parla nemmeno », lapidario e ugualmente definitivo.

« Oh, invece ne parliamo, signor Holmes » cominciò però Ryder, fissandolo dritto negli occhi come se dovesse saltargli alla gola da un momento all’altro.

E molti, vedendo quello sguardo, probabilmente avrebbero giurato che gli frullasse in testa di farlo davvero.

« Il patto valeva finché era d’aiuto per le ricerche. Ora è ferito e ha bisogno di cure, quindi lei si metterà sulle proprie gambe e andrà in superficie, dove i paramedici potranno prendersi cura di lei e portarla in ospedale » disse, glaciale.

Sherlock assottigliò gli occhi, scattando rabbioso e strappandogli la torcia di mano. Tentò di alzarsi ma la mano di Nicholas si strinse sul colletto della casacca, tirandolo giù di nuovo.

Nel frattempo, il paramedico era arrivato e li guardava con tanto d’occhi.

« Dove crede di andare?! » sbottò il vigile del fuoco, tenendolo per la divisa ed arrivandogli con il viso ad una spanna dal naso.

« A salvare il mio migliore amico! » gridò a sua volta Holmes, oramai completamente immerso in un caldo fiotto di rabbia che sapeva anche da valvola di sfogo per l’ansia.

Doveva sapere, sapere, sapere, sapere, sapere, sapere.

Sapere se era ancora vivo, sapere se sperare valeva la pena, sapere che sarebbe tornato tutto come prima.

Sapere e basta.

« Lei non va proprio da nessuna parte se non alla stazione di Waterloo, poi all’aria aperta! Salvarle il culo è il mio compito, signor Holmes, e su questo non discuto! Lei è ferito! Qui sotto mi sarebbe solo d’intralcio ed io non ho tempo per lei, adesso! Ho messo in pericolo delle vite e devo rimediare allo sbaglio, per la puttana! » ringhiò Nick, stringendo e scuotendo Holmes per il colletto come se , anche per lui, quelle urla fossero la valvola di sfogo per lo stress accumulato in tutte quelle ore di ricerche senza fine.

Sherlock non rispose, limitandosi a guardarlo, così Nicholas continuò con un ultima, imponente imprecazione: « alzi il culo e si levi dai piedi, Cristo Santo! » gridò.

La galleria cadde nel silenzio. I toni della loro conversazione erano passati in fretta ad urla da litigio.

Holmes era riuscito ad esasperare Nicholas che, dal canto suo, era a sua volta riuscito ad irritare Sherlock. Si guardarono entrambi negli occhi per alcuni, interminabili istanti poi fu Ryder quello ad abbassare lo sguardo, sospirando come per calmarsi.

« Ho capito che per lei è importante... » cominciò poi, la voce umana, bassa: « ...l’ho capito. Non sarebbe qui, altrimenti. Nessuno verrebbe qui se non stesse cercando la cosa più importante al mondo. Farei la stessa cosa per le persone a me care, e mi è già capitato di farlo, dunque riesco benissimo a capirla. Ma lei è ferito, signor Holmes... non posso tenerla qui un secondo di più. Non voglio rischiare la sua incolumità, un secondo di più » gli spiegò.

Sherlock lo guardò negli occhi e capì che era sincero. Aveva lo stesso sguardo di John quando gli chiedeva come stava, se aveva mangiato o dormito abbastanza, se era finalmente riuscito a resistere all’impulso di andare a comprare sigarette di contrabbando, dato che aveva pagato tutti i tabaccai nel giro di dieci chilometri perché non gli vendessero nemmeno un pacchetto.

John... non poteva lasciarlo. Non poteva abbandonarlo.

Non poteva girargli per spalle e risalire alla luce del sole, sotto il cielo mentre John era intrappolato sottoterra, con un paramedico a curare le sue ferite mentre John poteva anche essere ferito e non avere nessuno al suo fianco.

Chiuse gli occhi.

John era entrato nella sua vita senza fare rumore, con tante domande che non avrebbero ricevuto risposta ma a cui, in fondo, non era fondamentale rispondere.

Era arrivato in silenzio senza portare nulla con sé, nulla di concreto, ma con caldi sorrisi sulle labbra, e con le mani piene di luce.

La cosa più importante... sì, forse lo era, forse non lo era. In effetti, Sherlock faticava ormai a capire cosa fosse John, cosa fosse lui stesso, cosa fossero entrambi e, soprattutto, cosa fossero insieme.

Però doveva vederlo. Voleva...

Voleva solo...

« Voglio solo rivederlo » soffiò a voce bassissima, smettendo di fare resistenza. « Solo rivederlo... nient’altro. Mi basterebbe » aggiunse il detective.

Ryder lo osservò attentamente, mordendosi il labbro inferiore con i denti prima di decidersi a parlare.

A dar voce alla promessa che tanti di loro erano portati a pronunciare ai parenti delle vittime intrappolate nel fuoco, ma che raramente riuscivano a mantenere.

« Lo troverò » disse.

Sherlock restituì lo sguardo.

« Troverò John, signor Holmes. Non uscirò da qui finché non l’avrò trovato, dovessi cercare tutta la notte ».

Sherlock non era un tipo di persona che credeva nei miracoli, nelle promesse, nelle speranze e nei sentimenti. Non credeva in niente che non fosse tangibile e scientificamente provabile. Non credeva in ciò che conteneva le parole “per sempre” ed “eternità” perché si sa, niente è eterno, niente dura per sempre, e madre natura era stata la prima ad insegnargli quest’amara lezione.

Eppure, senza accorgersene, per tutto il giorno non aveva fatto altro che rincorrere la scia di una speranza; non aveva fatto altro che credere in un miracolo, guidato dai sentimenti... e adesso avrebbe accettato di fidarsi di una promessa.

Annuì in direzione di Ryder, senza aggiungere altro.

Non una parola, non un consiglio, non una lamentela.

Aveva l’impressione di abbandonare John in piedi sull’orlo di un dirupo, oppure nel centro di una tempesta. Era come gettare la spugna. Si sentiva un traditore ma in tutto quel disagio che all’improvviso gli era esploso in un punto indefinito fra lo stomaco ed il petto, prendeva posto la consapevolezza che non c’era più nulla che potesse fare, in quel luogo.

E, piccola piccola, in un angolo, vi faceva nido anche la sensazione che in realtà non desiderasse affatto vedere il cadavere di John abbandonato sul fondo di una carrozza della metropolitana, coperto di sangue e con gli arti disarticolati, gli occhi aperti e fra le labbra una frase ancora non pronunciata.

“Mi hai abbandonato”.

No... non sarebbe riuscito a farlo.

Per un istante, si vide nuovamente davanti al tavolo in metallo dell’obitorio del Bart’s, John steso davanti a lui ed un bisturi tagliente fra le mani coperte da guanti di lattice.

Aiutato dal paramedico, Sherlock si alzò da terra. In poco tempo tutto il gruppo di soccorritori fu pronto a ritornare in superficie e lui, sempre sorretto da qualcuno a causa di una ferita alla testa che sembrava non voler far altro se non sanguinare copiosamente, si allontanò a passo lento insieme a tutti quelli che avrebbero rivisto il mondo esterno nel giro di una ventina di minuti.

Nicholas Ryder, osservandolo allontanarsi, si diede dell’imbecille.

E si chiese cos’avrebbe detto all’unico consultive detective del mondo nel malaugurato caso che John Watson fosse morto. O peggio.

Nel malaugurato caso in cui di lui non ci fosse la minima traccia.

 

 

• Waterloo Station, h. 20:00 pm

 

Gregory Lestrade era seduto sul sedile del passeggero di una volante della polizia, con una tazza di tè fra le mani e sul cruscotto un panino mezzo sbocconcellato rimastogli sullo stomaco già dopo il primo morso.

Il fatto di essere in manica di camicia non lo aiutava a ripararsi dal freddo improvvisamente sceso con il calare del sole; tuttavia, la forza di alzarsi e coprirsi l’aveva lasciata chissà dove, nelle ultime ore, e non sembrava avere la minima intenzione di ritrovarla.

Era preoccupato. Una volta terminate le indagini, e rimandato la stesura del rapporto a tempi migliori, era rimasto lì a dare una mano per tutto il tempo.

Portava su cadaveri, per lo più. Dentro sacchi neri di plastica.

Era abituato, dopotutto, a vedere persone morte. Ne ricostruiva persino la vita, di solito, essendo capo della squadra omicidi e responsabile di qualsivoglia scena del crimine che ricadeva nella sua area di competenza. La morte lo aveva sempre salutato con gesto amichevole quando si incrociavano per strada, e lui le aveva sempre risposto con rispetto senza nemmeno preoccuparsi di temerla.

Ma quel giorno... beh, era diverso.

C’era in ballo la vita di John Watson. Una situazione che non si era mai trovato ad affrontare, quella di guardare il cadavere di una persona conosciuta, di un proprio amico.

Non aveva la minima idea di come ci si potesse sentire, anche se non si immaginava nulla di piacevole.

Aveva ancora negli occhi l’espressione di Sherlock quando era venuto a conoscenza del fatto che John fosse coinvolto, la sua voce che chiamava il suo nome, ed era convinto di potersela sognare di notte riuscendo persino a trasformarla in un incubo. Era indubbio che l’avvenimento avesse coinvolto il consultive detective ad un livello molto profondo, forse talmente tanto che nemmeno Sherlock stesso sapeva definirne la profondità.

Sherlock Holmes, da quel momento in poi, aveva subito una trasfigurazione: era diventato un essere umano.

Se la situazione non fosse stata quella, probabilmente Lestrade si sarebbe messo a ridere.

Stava giusto pensando di alzarsi ed andare ad impegnare nuovamente le mani – di nuovo trasportando cadaveri su per le scale, dato che sembrava l’unico modo in cui potesse essere utile a qualcosa – quando vide avvicinarsi il comandante dei vigili del fuoco. In quelle ore avevano avuto rapporti molto più umani ed erano riusciti anche ad andare d’accordo.

« La squadra di soccorso ha avuto dei problemi, là sotto » gli disse subito e senza mezzi termini, quando ancora non era arrivato davanti a lui: « c’è stato un crollo. Il suo amico sta tornando in superficie ».

Greg lo guardò in silenzio per un istante, le sopracciglia sollevate in un’espressione sorpresa. « Feriti? » domandò poi.

« Un paio » rispose quello, passandosi una mano sugli occhi con un sospiro stanco. « Ho rimandato giù la prima squadra, ma stanno per finire. L’ultimo vagone, ispettore Lestrade... per quelli successivi non possiamo più fare niente » aggiunse, la voce grave di chi sente avvicinarsi l’agognato momento del ritorno a casa.

Greg annuì. Il fatto che non avesse visto il cadavere di John poteva essere una buona notizia, no?

No, probabilmente. Voleva semplicemente dire che non lo avevano ancora trovato. Ed ora che l’uomo gli aveva riferito dell’imminente fine delle operazioni per impossibilità di proseguire oltre – impossibilità fisica, materiale, tangibile come lo era la tazza di cartone ancora fra le sue mani – la sensazione che sarebbe stato meglio trasportare in superficie il suo cadavere, piuttosto che toglierlo successivamente dai rottami pezzo per pezzo, gli sembrava una soluzione più sopportabile.

Lestrade ringraziò, osservandolo allontanarsi prima di alzarsi dal sedile ed avvicinarsi all’entrata della stazione, rimanendo in attesa di vedere comparire gli uomini di ritorno dal tunnel. Quando finalmente il gruppo comparve, e vide Sherlock pieno di polvere e con una linea di sangue rosso a macchiargli la pelle nivea del volto, gli si strinse lo stomaco.

Non solo perché era ferito, ma anche perché era da solo.

Gli si avvicinò in tre falcate, appoggiandogli le mani sulle spalle senza sapere cosa dire. A sua volta, nemmeno Holmes proferì parola.

« Vieni, fatti dare un’occhiata da un medico... » riuscì poi a borbottare Lestrade, esausto e letteralmente divorato dall’ansia, prendendolo per un braccio e portandolo verso una delle ambulanze posteggiate a poca distanza.

Il detective si fece guidare senza opporre nessuna resistenza.

Greg si rendeva dolorosamente conto che anche Sherlock, nonostante non lo desse a vedere come avrebbe fatto una persona normale, era arrivato ad un punto di sopportazione molto distante dai suoi soliti standard. Anzi, dopo sei anni di conoscenza era anche convinto del fatto che, se quella fosse stata una situazione  che avesse potuto affrontare oggettivamente, si sarebbe già messo all’opera per trovarvi soluzione – e, implicitamente, risparmiare a tutti loro una tortura psicologica gratuita.

Ma John era disperso in un incidente ferroviario il cui colpevole era deceduto suicida. Sherlock non aveva nessuno con cui prendersela, niente su cui sfogare frustrazione ed attesa e così, viaggiando al limitare del suo carattere tutto strano e particolare, si limitava a rimanere in silenzio.

Non credeva che lo avrebbe mai pensato, ma lo preferiva quando era il solito, logorroico sapientone rompiscatole.

Vedendoli arrivare, uno dei paramedici assegnati all’ambulanza – e che sembrava approfittare di un momento di pausa per rifocillarsi con un veloce tramezzino – posò il minuto pasto e si preparò a riceverli.

Sherlock si sedette sul retro del veicolo mentre l’infermiere, rovesciando il contenuto di una bottiglietta d’acqua su di un asciugamano, cominciò a pulirgli viso e fronte dallo sporco per poter lavorare meglio sulla ferita alla testa. Sherlock assunse un’espressione scocciata ma l’occhiataccia che gli scoccò Lestrade – un muto “non ci provare nemmeno e fagli fare il suo lavoro” – gli impedì di rifiutare l’aiuto.

« È strano vederti in camicia, Lestrade » disse allora Holmes.

Greg fece spallucce. « Ho dato una mano » si limitò a dire come spiegazione.

Calò di nuovo il silenzio.

C’erano cose di cui avrebbero dovuto parlare ma che non avevano il fegato nemmeno di pensare, così come tutte le cose di cui avevano il coraggio di parlare sembravano altamente fuori luogo, in quel posto.

Il risultato era solo il continuare soffuso del silenzio.

« Signore, lei dovrebbe andare in ospedale, questa ferita ha bisogno di qualche punto » intervenne poi il medico, disinfettando la ferita di Sherlock con l’aiuto di un pezzo di cotone idrofilo.

« Ci andrò dopo » rispose subito Sherlock.

« Ma signore... ! »

« Ho detto che ci andrò dopo! » ribatté di nuovo il detective con voce seccata: « ci metta un dannato cerotto e non rompa » aggiunse poi, suonando lapidario. Lestrade, questa volta, non intervenne in nessun modo.

Quello sospirò, limitandosi ad annuire ed a bendargli la testa. Sherlock non si era risparmiato da dire che gli sembrava una cosa inutile, ma la benda teneva ferma la garza sulla ferita, evitandole di riprendere a sanguinare, ed il paramedico non scese a compromessi di nessun tipo.

Non parlarono di John. Nemmeno una parola.

Lestrade aveva intuito tutto dal comportamento di Sherlock, ed Holmes semplicemente riteneva di non essere in grado di affrontare il discorso con nessuno, tantomeno con Greg.

Quindi rimasero lì, seduti nel retro di un’ambulanza a fissare la stazione di Waterloo, senza poter far altro se non aspettare.

Ancora.

 

 

• The Tube; Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 23:30 pm

 

Nicholas Ryder aveva una laurea in ingegneria navale ma era innamorato della divisa da vigile del fuoco, ottenuta dopo mesi di addestramento e che indossava con l’onore di un vero uomo.

Eppure, ogni tanto, gli veniva in mente il pensiero che se si fosse effettivamente messo a fare l’ingegnere navale, probabilmente sarebbe stato meglio. Uno di quei momenti, caso strano, era, per esempio, quando passava nove ore sottoterra in un tunnel a moderato rischio frane.

Molti dei suoi uomini gli avevano consigliato di uscire a prendere una boccata d’aria, magari anche solo un’ora per disintossicarsi da tutta quella polvere e quella sensazione claustrofobica, ma lui aveva rifiutato ogni volta, portando al limite sia le sue capacità fisiche che quelle mentali.

Era esausto e non lo nascondeva. Ma era un uomo tutto d’un pezzo, di quelli che si faticava a trovarli in tempi come quelli, e non nascondeva nemmeno quello.

Dopo più di due ore utilizzate per rimuovere i detriti della frana, finalmente avevano un punto chiaro della situazione: il vagone che avevano tentato di spostare non era crollato del tutto, ma aveva liberato una parte sufficiente per poter penetrare all’interno attraverso un buco praticato con la sega circolare. Erano anche riusciti a capire che all’interno, miracolosamente, vi erano tre persone vive, tra le quali due coscienti e una svenuta e ferita.

Ed ora Nick, in piedi ad osservare la sega terminare di disegnare un riquadro abbastanza grande per lasciarli entrare, sperava ardentemente di non trasformarsi in un bugiardo, e che all’interno di quel vagone una delle tre persone ancora in vita rispondesse al nome di John Watson.

Terminando il proprio compito, la sega bucò il soffitto. Una volta entrato, un giovane soldato ed una bambina lo accolsero con sorrisi stanchi ma pieni di gioia, indicandogli subito un terzo uomo a terra privo di sensi ma ancora in vita.

Mentre i suoi colleghi portavano in salvo il ferito e la bambina, Ryder si avvicinò al soldato, chiedendogli i loro nomi.

Quando il giovane pronunciò il nome del dottor John Watson, indicandoglielo nell’uomo che era ormai assicurato ad una barella e con una mascherina d’ossigeno sul volto, Nicholas non poté fare a meno di far nascere un sorriso soddisfatto e felice sul proprio volto.

Ma il giovane soldato, presentatosi come Edward Miller, non si limitò a quello. Senza smettere di parlare, cominciò a raccontargli le loro ore dentro quella carrozza, con dovizia di particolari e un’ammirazione latente per l’uomo incosciente che stavano trasportando urgentemente fuori da quel posto.

Nick Ryder ascoltò quel soldato a bocca aperta, stupito, dimenticandosi persino di sostituire quel patchwork di camicie e magliette sporche e maleodoranti con una benda medica fatta come Dio comandava.

Ascoltava la storia di un ex medico militare che aveva fatto di tutto per salvare tre persone (e che tutt'ora stava rischiando la vita), e di riflesso collegò quel racconto al detective che aveva avuto al fianco per tutto il giorno, suo inaspettato compagno nello stomaco della terra.

Non appena fosse tutto finito... non appena i superstiti fossero stati smistati tutti negli ospedali, i cadaveri rimossi, le macerie trasportate altrove e le tende smontate, sarebbe tornato da sua moglie.

Le avrebbe detto "ti amo", l'avrebbe abbracciata forte, avrebbe appoggiato l'orecchio sulla sua pancia ancora piatta immaginandosi il cuore pulsante della creatura che vi cresceva all'interno.

Poi, guardando la sua donna negli occhi, avrebbe speso le ore successive a raccontarle una storia.

E a spiegarle perché loro figlio si sarebbe chiamato John Sherlock Ryder.

 

 

• London; 00:00 ~ March the 4th

 

Il Big Ben, imponentemente stagliato sulle acque placide del Tamigi, rintoccò cautamente la mezzanotte di un nuovo giorno di marzo, facendo sentire la sua voce tonante nel cielo stellato che sovrastava Londra.

 

Al piano terra del 221B di Baker Street, mrs. Hudson stava seduta inquieta sulla sua poltrona, non sapendo se doveva o meno aspettare notizie da entrambi i suoi coinquilini, ancora fuori casa da quella mattina.

In camicia da notte e vestaglia di lana rosa, osservava con sguardo preoccupato il televisore, sintonizzato su un’edizione speciale del telegiornale. Era tutto il giorno che uomini a mezzobusto interrompevano le soap opera che guardava abitualmente con aggiornamenti sull’incidente alla metropolitana, e tutte le volte che vedeva inquadrata la stazione di Waterloo una strana sensazione le prendeva al petto, facendola sospirare.

Aveva la sua età, ma ricordava perfettamente cosa voleva dire avere un presentimento nelle ossa.

Aveva sperato di sbagliarsi. Ma quando squillò il telefono, seppe che il suo istinto, come al solito, aveva previsto tutto.

Era successo qualcosa.

 

Si sa, il telefono suona sempre nei momenti meno opportuni.

Nel suo caso specifico, mentre era sotto la doccia.

Afferrando un asciugamano e sporgendosi oltre l’anta in plastica opaca, Harriett Watson agguantò il cellulare imprecando a denti stretti contro le persone che chiamavano ad orari assurdi ed in situazioni sconvenienti. Irritazione che aumentò quando non riconobbe il numero sul display.

Mise fine alla suoneria con uno sbuffo, piazzandosi il telefono all’orecchio senza considerazione per i propri capelli bagnati. « Chi è? » sbottò seccata, rimanendo poi attentamente in ascolto.

La sua espressione variò dalla rabbia all’incredulità, poi dall’incredulità alla preoccupazione, infinte dalla preoccupazione alla risolutezza.

« Arrivo subito » disse, chiudendo la telefonata e l’acqua della doccia contemporaneamente, asciugandosi alla bene e meglio ed uscendo di corsa dal bagno.

 

Dalla poltrona davanti al caminetto del Diogenes Club, Mycroft Holmes osservò di sottecchi l’orologio a pendola poco distante emettere i cupi rintocchi del cambio di giorno. Rintocchi che furono subito sostituiti dall’eco di veloci passi sul pavimento di marmo della Strangers Room.

Una delle sue guardie si avvicinò, chinandosi verso di lui e sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Mycroft annuì, congedando l’uomo in completo scuro con un cenno della mano.

Con dita lente ma abili estrasse dalla tasca interna della giacca grigia il cellulare, componendo velocemente un numero che sapeva a memoria ed avviando la chiamata.

 

Quando Sherlock Holmes alzò lo sguardo incrociando quello stanco ed esausto di Nicholas Ryder, l’intero mondo sembrò rallentare e fermarsi.

Non servirono cenni, urla o parole. Non servirono spiegazioni, né movimenti inconsulti: Sherlock non si mosse dal retro dell’ambulanza su cui era ancora seduto, mentre Nicholas non fece nemmeno un passo oltre la scalinata della stazione di Waterloo.

Si guardarono, punto. Sherlock con tante domande, Nick con una sola risposta.

Da lontano, in mezzo al via vai di gente che scalpitava accanto alla squadra di soccorso appena risalita dalle viscere della Terra, Holmes vide Nick annuire con il capo... e sorridergli.

Un solo cenno, un solo sì.

Un solo significato.

Come se fosse dotato di nuova forza, il consulting detective scattò subito in piedi, seminando un Lestrade sorridente ed intento a ringraziare mentalmente un Dio in cui stentava a credere, per un lieto fine in cui aveva codardamente smesso di sperare.

Vide da lontano Sherlock chinarsi su di una barella appena fatta arrivare, accarezzare con una delicatezza di cui non lo credeva capace i capelli di un John incosciente; lo vide osservarlo con occhi pieni di preoccupazione e felicità mescolate insieme, guardarlo come se fosse una cosa preziosa che sembrava perduta e poi improvvisamente ritrovata.

Non aveva occhi che per John. Non aveva voce che per John. Non aveva cuore che per John.

Il sorriso gli si addolcì quando Sherlock posò la fronte su quella del dottore, socchiudendo gli occhi. Muoveva le labbra, sembrava sussurrargli qualcosa... ma Greg era troppo lontano, e non si sarebbe nemmeno avvicinato per rispetto di quella scena rincuorante e allo stesso tempo intima, privata, un pezzo di vita solamente loro che condividevano con i presenti solo per puro caso.

Si sentì quasi in imbarazzo, guardandoli. E, seguendo quel sentimento, distolse semplicemente lo sguardo.

Giusto in tempo, dato che il telefono nella tasca dei suoi pantaloni prese a suonare.

Non si sorprese di leggerne il nome sul display. Era ovvio che sapesse già tutto.

« Signor Holmes » rispose Gregory, la voce notevolmente più rilassata, il tono meno gravato se non dalla stanchezza che quella giornata gli aveva provocato.

Dall’altra parte, una voce morbida pronunciò un elegante: « Ispettore Lestrade » come saluto in risposta.

Un attimo di silenzio, poi la farsa con cui solevano salutarsi ogni volta che si sentivano scivolò piano dalle loro labbra, finendo nel nulla.

« L’hanno trovato, Mycroft ».

« Lo so, Greg. Sherlock? ».

Lestarde lo guardò di nuovo da lontano mentre, senza staccare gli occhi da John, annuiva ai paramedici seguendo la barella sull’ambulanza che li avrebbe portati entrambi all’ospedale.

« È con John, stanno salendo su un’ambulanza » riferì, palesemente sollevato.

Dall’altra parte, però, Mycroft non lo sembrava altrettanto.

Greg mangiò la foglia. « Cosa c’è? » domandò, il tono di voce del poliziotto pronto a ricevere brutte notizie.

Un sospiro, prima che l’altro si decidesse a prendere parola.

« Non è... è grave, Greg. Ho dato disposizioni precise perché venisse portato al Royal London Hospital(4) e ho mandato alcuni dei miei uomini a svegliare i più bravi chirurghi del Regno. Tuttavia non so se... » lasciò cadere, ma a Greg non serviva veramente che continuasse la frase.

Aveva già capito. Dal momento in cui aveva visto il lievissimo sorriso sulle labbra di Sherlock sparire, aveva già capito.

Aveva capito che non era ancora finita.

Si limitò a sospirare, chiudendo gli occhi sulle luci blu dell’ambulanza che partiva a sirene spiegate. « A noi cosa resta da fare, Mycroft? Cosa? » domandò.

Dall’altra parte, poté quasi immaginare le labbra sottili del maggiore degli Holmes inclinarsi in un sorriso amaro.

« Respirare » disse: « tutto ciò che possiamo fare, è continuare a respirare ».

 

 

 

~ To be continued...

 

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1. Riferito a "The Hound of Baskerville", puntata 2x02.

 

2. Informazioni prese da Wikipedia (e da qualche film ;D). Lo Stafilococco Aureo è un batterio abbastanza comune, fonte di infezioni - solitamente cutanee - che causano irritazioni fatte di macchioline rosse. Se il batterio penetra in una ferita, però, può causare altri tipi d'infezione, sicuramente più gravi, fra cui la Setticemia (o Sepsi) che cita John.

La Setticemia è un'infezione batterica del sangue. Se non curata in tempo può causare quella che è la Sindrome da Disfunzione Multiorgano (o MODS: Multiple Organ Dysfunction Syndrome). Dopo di che c'è la morte.

 

3. Il massaggio cardiaco segue delle proporzioni fra compressioni e insufflazioni (per dirla come mangiamo: fra soffi e quante volte premiamo il torace). Le vecchie manovre prevedevano una proporzione di 15:2 (15 compressioni, 2 insufflazioni), ma secondo il BSL Laico ("Basic Life Support", approvato dal Cosiglio Europeo come manovra standard di primo soccorso) le proporzioni cambiano a seconda del numero di persone che mette in atto la manovra: per una persona sola si usa un ritmo di 30:2, per due persone si passa ad un più veloce 5:1.

Aggiungo, per essere precisa fino in fondo, che fare un massaggio cardiaco è tutt'altro che una passeggiata. Tant'è che il soccorritore può anche smettere di rianimare una persona - senza incorrere nel reato di omissione di soccorso - in caso di sfinimento.

 

4. Inizialmente avevo scritto che Mycroft aveva fatto mandare John al Barts, ma poi ho scoperto qualcosa di interessante.

Il Barts (alias “St. Bartholomew’s Hospital”) fu al centro di un’ingiunzione di chiusura nel 1993, perché il Governo britannico riteneva che gli ospedali in centro a Londra fossero troppi. Fu aperta una campagna per evitarne la chiusura (il Barts è l’ospedale più vecchio di Londra, fondato nel 1702, e fu il primo ospedale pediatrico d’Inghilterra; mica brustoline!) che andò a buon fine, ma nel 1995 gli venne tolto il Pronto soccorso (Accident and Emergency Department) che venne trasferito nel vicino Royal London Hospital (il Royal London ed il Barts fanno parte della stessa associazione sanitaria, tipo, chiamata “Barts and the London NHS Trust”). Comunque il Barts rimane un ospedale di primo livello, più che altro votato alla ricerca e alla cura del cancro e dei disturbi cardiaci.

   
 
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