Note: Queste
sono 20 pagine di puro parto fan-letterario. Siete avvertiti. A quanto pare la
mania di essere incredibilmente prolissa non mi ha abbandonato nonostante i
buoni propositi.
Beh, penultimo capitolo,
conclusivo dell’incidente ferroviario. E... e non ho resistito, ho dovuto
metterci una puntina di Mystrade. Piccola piccola. Alla fine. Quasi
invisibile.
Come al solito, tutto
quello che dico riguardante la medicina ed il primo soccorso mi deriva da fonti
puramente ludiche, dunque non è assolutamente oro colato. Non prendetelo come
tale e, per chi ne sa di più, se ci sono errori perdonatemi ^^’’’
Come al solito, eventuali
altre note sono a fondo pagina.
A chi desidera, buona
lettura ♥
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Venerdì 3 Marzo – Midnight
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 16:00 pm
Donna,
trent’anni circa, completo di Armani e scarpe di Gucci, tacchi a spillo,
valigetta ventiquattrore in pelle lavorata; tutto urlava “impiegata d’ufficio”,
vestita con abiti troppo firmati e costosi per essere una semplice segretaria,
dunque doveva essere una consociata di una ditta importante. Non avvocato. Non
sarebbe stata in metropolitana – e comunque molti se lo erano chiesto, come mai
una persona che poteva permettersi Gucci e Valentino mettesse piede sulla Bakerloo Line.
Nessuna
ferita riscontrata esternamente, nessun ematoma, nessuna lacerazione. La testa
voltata con un angolo innaturale verso l’alto, un bozzo era ben visibile sulla
gola. Morta sul colpo. Anche se avesse ricevuto traumi da impatto, probabilmente
l’organismo non era rimasto in vita per un tempo sufficiente a consentire la
formazione di qualche livido di sorta.
Accanto:
persona anziana, tra i sessanta e i
settant’anni, ben rasato, capelli tagliati da poco, vestiti del decennio
scorso, scarpe sporche di fango. Pensionato proveniente dalla campagna in
viaggio a Londra, probabilmente per andare a trovare i figli dato che non sembrava
portare altro con sé se non il portafoglio ed il fazzoletto, entrambi ritrovati
nelle tasche dei pantaloni.
Polso
rotto, trauma cranico, caviglia slogata e ferita da taglio alla spalla destra.
La causa della morte, molto probabilmente, era stata il trauma cranico, a
giudicare dall’ematoma presente su tutto il volto.
Di
nuovo: ragazzo, diciassette anni a giudicare dal libretto scolastico,
appartenente alla subcultura Punk. Non avevano ancora ritrovato la testa, ma a
giudicare dai calzini spaiati e di due colori diversi e dalla punta delle dita
della mano destra era dedito al consumo smodato di marijuana.
Poi,
per un momento, qualcosa gli aveva impedito di respirare.
Da
sotto un cappotto, un ciuffo di capelli biondo cenere. Corti. Un po’ ispidi. Un
accenno di carnagione pallida e sporca di sangue.
Associazione
mentale: John + sangue + pallore cadaverico = morte.
Blocco
momentaneo delle facoltà, il corpo che si muove da solo e sposta il giubbotto
incriminato con un movimento sin troppo agitato della mano.
L’uomo
non è John ma è sicuramente morto a causa di una ferita alla tempia causata dal
forte impatto contro il vetro del finestrino, che infatti risulta rotto e
sporco di sangue in un punto unico.
Ma
non era John. Non era John.
Sherlock
sospirò silenziosamente, lasciando che la sua mente scivolasse di nuovo in
quella situazione di stallo psicologico che gli permetteva di usare le proprie
facoltà intuitive e deduttive ad un livello più o meno normale di operatività.
Lo fece lentamente, socchiudendo gli occhi mentre veniva circondato da paramedici
che controllavano inutilmente lo stato dei cadaveri a terra, prendendosi il
tempo di zittire di nuovo il suo cuore fin troppo rumoroso.
Un cuore che non
aveva mai usato ma che ora urlava continuamente, riempiendogli le orecchie con
i suoi battiti martellanti, nell’unico momento in cui avrebbe preferito non
sentirli, non distrarsi nel tentativo di zittirli.
« Non c’è nemmeno
qui? » sentì una voce
pronunciare dal suo fianco, che riconobbe come quella di Nicholas Ryder.
Scosse
il capo in senso negativo.
Quella
frase aveva due interpretazioni possibili, purtroppo, e dipendevano dal punto
di vista di chi se la sentiva porre: una positiva per cui no, non avevano
ancora trovato il cadavere di John in
mezzo a tutti quelli che avevano dovuto controllare ed estrarre dalle macerie
nel giro di due ore appena – solamente otto persone su cinque vagoni erano
sopravvissute all’impatto, e di vittime ve ne erano almeno il doppio – e
l’altra negativa, intesa nel senso che non avevano ancora trovato John vivo nonostante avessero penetrato già cinque vagoni.
E
purtroppo, nonostante Sherlock cercasse con tutto de stesso di tenersi
distaccato da qualsiasi influenza emotiva di qualsivoglia specie, purtroppo
analizzava quelle parole ogni volta nel significato peggiore.
Ryder sospirò. « Lo troveremo » pronunciò poi,
forse per fargli forza.
Holmes
non poté far altro se non sorridere amaramente.
Ancora
quell’ottimismo smodato. Lo stesso di Lestrade, lo stesso di John. Anche Ryder era una di quelle persone che non si perdono mai d’animo,
e probabilmente era per questo che si era meritato il compito di guidare la
squadra di ricerca.
Ma
rimaneva comunque un ottimista e, in certe situazioni, dell’ottimismo non te ne
fai nulla.
In
momenti come quello, per esempio, in cui Holmes non poteva fare a meno di
chiedersi – anche se a bassa voce, sussurrando mentalmente a se stesso e con se
stesso, come se le parole che il cuore pronunciava non volessero disturbare
troppo la sua razionalità; come se il loro scopo fosse semplicemente quello di rimanere
lì, ferme immobili, a fare presenza e non permettergli di cancellarle o di
ignorarle – se era una cosa normale non avere ancora trovato l’amico, e quanto in
là poteva effettivamente andare la sua speranza di ritrovarlo.
Non
voleva arrivare al punto di pensare qualcosa come “vivo o morto non ha
importanza”. Voleva riportarlo a casa, alle cose che gli appartenevano, alla
quotidianità imprevedibile che avevano assimilato come qualcosa di loro,
qualcosa che li legava alla realtà tangibile.
Quel
qualcosa che teneva lontani gli incubi di John, e lontano Sherlock dalla dose
di cocaina che avrebbe sempre trovato modo di reperire in ogni momento.
Distaccò
infine gli occhi dai capelli dell’uomo morto ai suoi piedi, girando il capo ed
incamminandosi verso l’uscita della carrozza. Ryder
lo seguì.
« Holmes! » lo chiamò,
afferrandolo per un braccio e fermandolo non appena mise piede fuori dalla
porta che avevano forzato per entrare.
Sherlock
si fermò, osservandolo in silenzio. Non aveva parlato praticamente da quando
avevano cominciato le ricerche insieme, se non per dare qualche consiglio di
carattere tecnico. Aveva persino cominciato a descrivere le cause della morte e
ad elencare tutto ciò che poteva evincere dai cadaveri – e poteva trarne
veramente molto, avevano notato tutti – ma ad un certo punto aveva smesso di
fare anche quello.
« Senta... non è
una domanda che io abbia veramente voglia di porle, ma mi sembra importante
fargliela... » disse Nicholas,
guardando ovunque tranne che direttamente nei suoi occhi: « ecco... lei è
sicuro che questo John sia qui sotto? » domandò.
Se
Nicholas Ryder avesse conosciuto Sherlock Holmes così
come lo conosceva l’ispettore Lestrade, o lo stesso dottor Watson che tanto si
prodigavano a cercare, probabilmente non gli sarebbe mai venuto in mente di
formulare quella domanda, ne tantomeno di darle voce. Ma Nick Ryder non aveva mai avuto a che fare con l’unico consulting
detective del mondo, in effetti.
Sherlock
lo trapassò da parte a parte con uno sguardo che dire minaccioso non esprimeva
appieno il concetto.
Solamente
una volta in vita sua aveva avuto la terrificante esperienza del dubbio,
rimanendone del tutto provato.(1) E quella volta non riguardava John
– John era al suo fianco, aveva cercato di parlargli, di farlo tornare alla ragione
anche se con scarsi risultati – e anche solo la prospettiva del pensiero che
qualcuno, anche se non lui direttamente, potesse avere il dubbio che stesse
sbagliando, lasciava nella mente del detective la traccia fastidiosa di un
intoppo insormontabile in quello che era il suo imperativo categorico di
trovare Watson ad ogni costo.
Sherlock
Holmes non avrebbe dubitato, perché dubbi non ve ne erano. John era lì sotto. Doveva essere lì sotto.
Vivo.
Intrappolato. Aveva bisogno di lui. Doveva andare. Non poteva perdere tempo con
persone che non credevano alle sue parole o cercavano anche solo di prendere in
considerazione la possibilità che l’amico non si trovasse da qualche parte in
mezzo al metallo di quel disastro.
« È qui » tagliò corto
Sherlock, deciso, lapidario.
Se
Ryder si sentì a disagio, sotto l’improvvisa
profondità di quegli occhi, non lo diede a vedere. Si limitò a schiarirsi la
voce, togliendosi per un secondo il casco e tirandosi indietro i capelli con le
mani, ormai sporchi di polvere come i loro abiti ed il viso. Poi, incontrando
di nuovo i suoi occhi, annuì.
« La avverto solo
di una cosa però, signor Holmes » cominciò poi Nicholas: « io ho l’obbligo
di portare in salvo tutte le persone ancora in vita presenti qui sotto, e per
poterlo fare devo applicare una scala di priorità che varia da individuo ad
individuo a seconda delle loro condizioni di salute. Se per caso troviamo il
suo amico, e ci dovessero essere persone in condizioni peggiori di lui, io devo
aiutare prima i più gravi. Tutto chiaro? » domandò seriamente, osservandolo.
Sherlock
lo guardò a sua volta, lo sguardo non meno deciso di quello del caposquadra: « lei non si
preoccupi, in quel caso ci penserò io a John » disse.
Nicholas
non aggiunse niente. O probabilmente stava per farlo, ma Dennis comparve alle
sue spalle reclamando la sua attenzione: « Nick, abbiamo finito di estrarre i corpi
dal vagone, possiamo passare al successivo » disse.
Ryder annuì, puntando lo sguardo oltre
Sherlock.
I
due vagoni successivi erano il nodo più difficile del disastro e, tecnicamente
parlando, l’ultimo su cui potevano effettivamente intervenire. Oltre a quelli,
solo un cumulo informe di metallo piegato e ripiegato un pezzo sopra l’altro; le
carrozze erano penetrate con forza l’une dentro l’altra, tanto che la
probabilità di trovare sopravvissuti era talmente ridotta da non permettere
l’intervento delle squadre di ricerca, ma solo quelle dei tecnici che avrebbero
segato e rimosso i pannelli uno ad uno, svitando bulloni e cerniere.
Rimanevano
due vagoni.
Due
vagoni per decidere chi era vivo e chi era morto.
Due
vagoni, uno sopra l’altro, schiacciati e malmessi, addossati alla parete tanto
che in quello sottostante era impossibile che penetrasse la luce del tunnel.
Due
vagoni per sapere se John era ancora vivo o no. Due vagoni pieni del loro
tempo, dei loro ricordi, delle loro parole e di tutto ciò che avevano
affrontato insieme da quando si erano conosciuti.
Due
vagoni di speranza, e poi il nulla della solitudine.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Train’s
Coach), h. 16:30 pm
Un
forte rumore metallico gli fece aprire gli occhi, chiusi da qualche minuto in
un’inutile ricerca di un po’ di riposo.
Inizialmente,
gli sembrò di aver sentito male. Una sorta di allucinazione uditiva, causata
dalla voglia smodata di uscire da quel posto, oppure semplicemente dalla
suggestione.
Poi,
un altro colpo. Rimbombò nella carrozza facendo vibrare l’aria.
John
ed Edward, anche lui fermo in ascolto, si guardarono per un lungo, fondamentale
istante. Trattennero il respiro, in attesa, poi ne sentirono un altro.
Non
era naturale, così come non era casuale. Era ripetuto, fottutamente ripetuto,
maledettamente ripetuto ed era rumore di attrezzatura umana, usata da mano
umana, umana.
Qualcuno
era venuto a salvarli.
John
sorrise, stirando le labbra in un fiotto di contentezza; Edward, replicando il
medesimo sorriso, scoppiò in una risata. « Sì, cazzo! Sì! » esclamò, ed un
attimo dopo era già in piedi, il volto rivolto verso il soffitto del treno.
« Ehi, EHI! Siamo
qui! Siamo qui, ci sentite! » urlò con tutta la voce che aveva in corpo, posandosi
la mano sana a coppa sulle labbra, cercando di amplificare la propria voce.
Watson,
che fece gentilmente ad Alice segno di scendere dalle sue ginocchia, si unì al
coro: « Ehi, qui, qui! Ci
sono dei feriti, abbiamo bisogno di aiuto medico! » urlò a sua volta,
avvicinandosi alla porta su cui era appoggiato e battendo i pugni nel tentativo
di provocare ancora più rumore.
Alice,
incuriosita ed allo stesso tempo spaventata da tutto quel frastuono, si attaccò
al polsino della camicia di John e tirò, chiedendo attenzione. « Cos’è successo? » gli chiese quando
l’uomo la guardò, interrompendo le urla.
Il
medico sorrise gentile, mettendole una mano sulla testa e carezzandole i
capelli. « Quasi sicuramente
fuori ci sono delle persone che sono venute ad aiutarci. Dobbiamo fare sapere
loro che ci siamo, così ci tireranno fuori e potremo tornare tutti a casa... » le spiegò,
cercando di non usare parole che la bambina avrebbe faticato a capire.
Alice,
osservandolo con quegli occhi grandi e luminosi, sorrise felice. « Posso tornare dal
mio papà! » esclamò contenta,
trovando l’approvazione di John, che annuì.
Avrebbe
potuto rivedere Sherlock. Era questione di minuti, forse di un’ora, e poi
finalmente li avrebbero tirati fuori da quell’inferno e lui avrebbe potuto
prendere il cellulare e chiamarlo. Avrebbe continuato a farlo squillare finché,
probabilmente seccato perché interrotto nel mezzo di un esperimento o di un
ragionamento, l’altro non avrebbe risposto.
E
allora gli avrebbe chiesto scusa, a prescindere da chi avrebbe dovuto davvero
scusarsi dei due. Gli avrebbe detto che stava tornando a casa e che voleva
passare il resto della giornata con lui. Anche sul divano, a guardare uno di
quei talk-show da televisione spazzatura tanto amati dalla cara mrs. Hudson, oppure una qualche serie investigativa
americana su cui Sherlock avrebbe irrimediabilmente detto la sua, facendolo
ridere come un matto per tutta la durata dell’episodio. Avrebbero ordinato
cinese, quella sera, come al solito, e voleva farsi raccontare tutto, tutto quello che l’altro aveva pensato
in quella giornata, i suoi casi migliori e quello più spaventoso, dov’era
andato a scuola e cosa aveva fatto prima di incontrare lui, quella mattina al Bart’s di più di un anno prima.
Ma
non era importante fare esattamente quelle cose. In quel momento, si sentiva
anche in grado di stare seduto tutta sera sulla propria poltrona, in silenzio,
con una tazza di tè in mano, ad osservare Sherlock suonare il violino,
osservare chissà cosa seduto al tavolo della cucina o intento ad usare il suo
notebook dopo aver di nuovo scoperto la password. Lo avrebbe guardato con un
lieve sorriso sulle labbra e non avrebbe fatto nient’altro.
Sarebbe
rimasto così, immobile in un istante infinito cercando semplicemente di
assimilare la presenza dell’altro e a memorizzarla sotto la pelle, in modo da
poterla portare sempre con sé e non poterla più dimenticare.
Neanche
nella morte.
Alice
però tirò nuovamente la manica della camicia di John, richiamando la sua
attenzione una seconda volta.
John
non gliela negò. « Cosa c’è? » domandò,
osservandola con ancora un residuo di sorriso sulle labbra.
« Joy deve essere
molto stanca, perché non si sveglia... » disse la bambina, indicando con il dito
la ragazza dall’altra parte del vagone.
Non
gli ci volle molto, al dottore, per capire che qualcosa non andava. Il viso
della ragazza era pallido e sudato, i capelli erano attaccati alla fronte e al
collo e la mano che aveva appoggiato al corrimano di metallo aveva preso la
stretta, rimanendo abbandonata sul grembo. La gamba ferita era ancora piegata e
ferma, ma solo perché poggiava contro il metallo.
A
John sembrò che il cuore gli fosse stato strappato. Si dimenticò in un istante
sia della felicità che della fiacchezza che si sentiva addosso da un po’.
« Joy! » esclamò il
medico, spostando la piccola Alice con tutta la grazia di cui potesse disporre
– effettivamente non molta – avvicinandosi in fretta alla ragazza a terra ed
inginocchiandosi al suo fianco. Posò subito le mani sulla guance dell’altra,
sentendola fradicia di sudore e fin troppo calda. Doveva avere per lo meno
trentanove gradi: la pelle era bollente.
Allo
scatto del medico verso la giovane anche il soldato aveva smesso di urlare,
portando subito lo sguardo poco avanti a sé; notando poi che Joy non rispondeva
a nessun richiamo di John, a sua volta si era avvicinato ai due: « cosa succede? » aveva chiesto,
improvvisamente in ansia.
Watson,
ignorando la domanda, le appoggiò due dita sulla carotide, poi le prese il
polso e si concentrò per sentirne le pulsazioni: c’erano, ed erano forti e
veloci unite ad un respiro debole ma annaspante.
« Ha il battito
molto accelerato... c’è qualcosa che non va » esclamò con un filo di voce,
distaccandola lentamente dalla parete a cui era appoggiata per cercare di
distenderla; Edward, tenendola per il busto con l’unico braccio di cui
disponeva, diede una mano al dottore.
Quando
la ragazza fu distesa, John le controllò di nuovo il polso carotideo,
aggrottando le sopracciglia con fare a metà fra il disperato e l’indeciso.
Si
spostò sulla gamba e cominciò a disfare la fasciatura. « Ed, tieni due
dita premute sulla sua carotide e dimmi se il cuore smette di battere » disse pragmatico,
senza nemmeno guardarlo, impegnato com’era a liberare la ferita dalla benda
senza provocare altri danni.
Il
giovane soldato annuì, appoggiando due dita sulla gola della ragazza e
sorridendo nel frattempo ad Alice, in piedi poco distante con gli occhi lucidi
di paura prima repressa ed ora riaffiorata.
Joy,
nel frattempo, non si svegliava. Nonostante fosse scontato che John le stesse
facendo male nel disfare la fasciatura, lei non aveva nessuna reazione, né si
muoveva. Uno stato completamente incosciente aveva avvolto la sua mente, tanto
che nemmeno il dolore era sufficiente a farle riaprire gli occhi.
Watson,
d’altro canto, poteva immaginare cosa stesse succedendo. E sperava di
sbagliarsi.
Era
stato uno stupido a non accorgersene prima, a non capire che quelle smorfie
iniziali erano dovute ad un dolore di un tipo diverso da quello provocato dalla
ferita in sé e per sé. Era stato un idiota a non capire che lei stava male, che
stava per perdere i sensi con la possibilità di non risvegliarsi mai più... e
lui cos’aveva fatto? Aveva chiuso gli occhi, richiamando a sé un sonno leggero
che non poteva concedersi. Lui era il medico, lui era stato eletto
silenziosamente a colonna portante proprio grazie alla sua laurea in medicina e
alla sua capacità di prendere il controllo del piccolo gruppetto, non poteva perdere il controllo!
Non
avrebbe dovuto dormire, non avrebbe dovuto chiudere gli occhi, non avrebbe
dovuto cedere alla stanchezza! Nemmeno un istante, nemmeno un secondo! Era
stato un idiota!
E
per la sua idiozia, Joy rischiava di morire. Solo per la sua idiozia.
Strinse
i denti talmente forte, nel riportare nuovamente alla luce la ferita di Joy,
che cominciarono a fargli male le gengive. Avrebbe quasi ringhiato,
probabilmente, se non avesse dovuto ritrovare un minimo di controllo per fare
effettivamente il suo lavoro: controllare la ferita.
Il
sangue si era fermato ed aveva cominciato già a coagulare, formando piccole
croste scure di sangue raffermo su di una superficie rosso vivo, lo stesso colore
del sangue fresco che macchiava la pelle tutt’intorno. I margini della ferita
invece, sia da una parte che dall’altra a contatto con la sbarra di ferro che
trapassava il muscolo della coscia, risultavano frastagliate e rosse, con
vescicole di colore giallo, alcune delle quali rotte. John estrasse il proprio
fazzoletto dalla tasca e, pulendo la pelle intorno dal sangue che l’aveva
sporcata, poté notare che era butterata da piccole macchioline rosse in
prossimità della ferita.
Aveva
già visto molte volte quelle macchie, in Afghanistan. Sapeva cos’erano. Sapeva
che nella maggior parte dei casi colpiva la pelle, ma che se penetrava
all’interno dell’organismo il danno poteva essere anche peggiore. Molto
peggiore.
Sei uno stupido,
John Watson. Questa ragazza morirà e sarà tutta colpa tua.
Sospirò,
trattenendo un gemito di rassegnazione, posandosi il dorso della mano sugli
occhi e facendo molta attenzione a non toccarsi direttamente il viso con la
mano sporca di sangue.
Non
c’era molto da fare. No... non c’era più niente
da fare.
« Cos’ha? » domandò Edward,
agitandosi nel vedere il medico immobile. « Cosa c’è, dottor Watson?! » esclamò, senza
spostare la mano dal collo di Joy ma prestando palesemente tutta la sua
attenzione al dottore.
Lui,
deglutendo, cercò dentro di sé la forza di pronunciare le parole del proprio
fallimento. « Stafilococco... » disse in un
soffio, continuando con lo sguardo basso: « ha un’infezione... probabilmente è già
nel sangue. Setticemia. Mi serve della penicillina, o degli antibiotici a largo
spettro... o meglio, mi servirebbe un dannato ospedale! » disse, gridando
l’ultima frase in un moto di rabbia, facendo sobbalzare sia Edward che Alice,
la quale prese a piangere silenziosamente.(2)
Il
soldato deglutì, prendendo fiato due volte prima di riuscire ad articolare la
domanda che voleva fare: « come... cos... cosa
facciamo ora? » gli chiese, in
attesa di qualche sua parola.
John
non si sentiva più in grado di guidare nessuno, in quel momento. Era
dolorosamente consapevole che l’aggravarsi delle condizioni della ragazza
poteva essere colpa sua, che si era distratto, ma sapeva anche che avrebbe
preso quell’infezione comunque, e senza medicinali non avrebbe potuto far
niente per lei né prima né dopo.
Ma
era comunque la magra consolazione del macabro colpo di “fortuna” che non
faceva per niente sparire il senso di colpa, anzi, ne aumentava la morsa
opprimente.
Edward
probabilmente notò lo sguardo perso di John, perché lasciò il collo di Joy per
mettere la mano sulla spalla del medico, cominciando a scuoterlo per portarlo
alla realtà: « Capitano, non mi
vada in confusione adesso! Ho bisogno di lei, io non sono un medico e non so
cosa fare! » disse, in quello
che doveva essere un gesto per destarlo ma che finì per essere una sorta di
contenitore per il suo panico.
John,
tuttavia, annuì. Sorvolò persino sul fatto che lo avesse chiamato con i suoi
gradi... ma erano veramente poche le cose che poteva dire, in quel momento, e
non ve ne era nessuna che potesse effettivamente fare.
« Non... non
possiamo fare niente, Edward... » mormorò, lasciando che l’altro lo
guardasse a bocca aperta, ricambiando lo sguardo: « non abbiamo
medicinali, e non abbiamo nemmeno la possibilità di trovarne. Ormai è
completamente incosciente... se è davvero setticemia, presto i suoi organi
interni cominceranno a cedere uno ad uno e quando toccherà al cuore... » lasciò cadere.
Ad
Edward non servì il seguito della frase per capire cosa stesse per dire e cosa
significasse quell’improvviso silenzio.
« Maledizione... » sussurrò a sua
volta, abbassando il volto e serrando gli occhi.
Alice,
in piedi immobile a qualche passo da loro, li guardava con occhi sgranati pieni
di lacrime. I forti rumori in lontananza continuavano a sentirsi, ma lei
sembrava l’unica a dargli ancora peso. Spostando il capo lentamente, osservò
l’involucro di abiti che copriva quella che doveva essere sua madre.
Tirò
su con il naso e, lasciandosi finalmente andare, scoppiò di nuovo in un pianto
convulso.
Fu
accolta dall’abbraccio impacciato di Edward, che la strinse forte a sé.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 17:00 pm
La
dinamica effettiva con cui un vagone simile, di quel peso e con quella massa,
potesse essersi effettivamente posizionato sopra
un altro vagone del tutto uguale, per lui rimaneva un mistero.
Era
ingegnere navale, e ne aveva viste tante durante il tirocinio formativo
dell’ultimo anno di università... ma mai, mai
gli era capitata, anche solo in simulazione, una situazione del genere.
La
trovava una cosa semplicemente impossibile. Eppure, dato che aveva l’accaduto
proprio davanti agli occhi nella sua forma reale e tangibile, avrebbe dovuto
smettere di ritenerlo tale e cominciare a pensare a come districarsi da quella
situazione complicata.
Perché,
tanto per cambiare, aveva dei problemi.
Tanto
per cominciare, avevano impiegato mezz’ora per capire come entrare all’interno
del vagone soprastante. Non si vedeva nessuna luce né si sentiva nessun rumore
all’interno, ma il suo lavoro era vedere con gli occhi, non supporre con
l’istinto.
I
finestrini erano tutti schiacciati e quelli ancora, in parte, interi erano completamente
impraticabili. Avevano dovuto prima martellare la fiancata, cercando di rendere
il metallo un po’ più cedevole, poi aprirsi un varco abbastanza largo con la
sega circolare, che non aveva fatto altro che riempire l’aria di altra polvere,
facendo rimbombare ed echeggiare il rumore acuto dei dentelli lungo la
galleria.
Alla
fine, dopo tutti gli sforzi, erano riusciti ad entrare. Tutti cadaveri.
Un’altra mezz’ora per tirarli fuori tutti e trasportarli all’esterno in barelle
all’interno di sacchi neri di plastica.
Probabilmente,
se avesse avuto tempo di fermarsi un attimo, gli avrebbero fatto anche pena.
Vero era che faceva il vigile del fuoco, quindi era piuttosto naturale che si
trovasse in situazioni simili... ma rimaneva comunque un essere umano con una
famiglia, e quando succedevano cose come l’incidente ferroviario di quel
giorno, si diceva sempre che era qualcosa di talmente casuale che era stupido
pensare che non potesse succedere anche ai suoi cari – sua moglie, lui stesso,
suo figlio in arrivo...
Ci
pensava, e facendolo provava irrimediabilmente un fastidio seccante.
Lo
fece anche quella volta, ma scacciò il pensiero con una scrollata di capo e
tornò ad occuparsi del proprio lavoro.
Si
avvicinò a Dennis a passo svelto, che stava raccogliendo e spostando altrove la
sega circolare usata poco prima. « Dennis? » chiamò, poggiandogli una mano
sulla spalla.
Quello,
alzando gli occhi incredibilmente stanchi su di lui, rimase in attesa della
domanda.
Li
stava sfibrando, quegli uomini. Stava pretendendo il massimo e loro gli stavano
dando il massimo, ma erano stanchi, e si vedeva. Avevano bisogno di respirare
aria pulita.
« Prendi i ragazzi
e torna su. Ho già detto al capo di mandare giù una squadra di riserva, è in
arrivo » gli disse.
« Non se ne parla nemmeno,
ragazzino! » esclamò l’altro,
riprendendo per stizza il primissimo soprannome che puntualmente gli avevano
affibbiato, una volta entrato nel corpo dei vigili del fuoco: « non ho la minima
intenzione di lasciarti qui sotto da solo. E no, non voglio sentire “ma”,
“però” o pietosissimi “è per la tua salute”! » lo anticipò, tarpandogli le ali
fin dall’inizio della risposta che aveva pensato di dargli.
Cosa
che fece comunque, in ogni caso. « Sai benissimo che è vero » si limitò a
dirgli, sospirando piano.
Quello,
cocciuto, non cambiò idea. « Manderò su i ragazzi, Nick, ma non esiste che io mi
sposti da qui. Ho giurato a me stesso che ti avrei tenuto d’occhio ed è quello
che farò » disse, e suonò
definitivo.
Nicholas
avrebbe potuto fare appello al regolamento, al giuramento che avevano fatto
quando avevano vestito la divisa, alla regola d’oro “prima gli altri poi te
stesso”; avrebbe potuto persino votarsi a chissà quali santi, ma sapeva
benissimo che Dennis non avrebbe mosso il suo culo da quella galleria nemmeno
sotto minaccia.
Non
finché lui rimaneva lì sotto. E nemmeno lui intendeva muovere il culo da quella
galleria, dopotutto.
Era
una sottospecie abbastanza tragicomica di impasse.
Sospirando
rassegnato, gli annuì complice. « Ma manda su gli altri... » si limitò a
dirgli, ricevendo in risposta un secco cenno d’assenso.
Osservandolo
dirigersi verso il resto della squadra – che comunque non prese benissimo la
decisione, a giudicare dai lamenti che sentì – passò all’altro ostacolo sulla
sua corsa che sapeva già non sarebbe riuscito a superare: Sherlock Holmes. Lo
cercò con lo sguardo.
Se
ne stava seduto sul fondo della galleria, sopra ad uno dei massi più grossi
crollati insieme a parte della stessa, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia
e le mani unite portate al mento. Si sarebbe quasi potuto dire che stesse
pregando, se non fosse stato per gli occhi spalancati sul nulla, fissi in un solo
punto come non fosse nemmeno lì con loro ma stesse navigando altri mari verso
altri orizzonti.
Si
avvicinò. I capelli ricci e scuri erano madidi di sudore, sceso lungo gli
zigomi in gocce salate che avevano lasciato scie scure sul lieve strato di
polvere depositatosi lentamente sul suo viso pallido e filiforme; esse
sparivano nel colletto della casacca gialla, arrivando fino al collo. Ma questo
era l’unico aspetto che tradiva l’impegno impiegato da Holmes nella ricerca del
proprio amico, perché nulla del suo sguardo o della sua posizione mostrava
stanchezza o sforzo fisico. Era ancora lucido come quando era sceso in quel tunnel,
cosa che gli faceva onore considerando che il resto della squadra era quasi al
limite della propria resistenza – motivo per cui erano stati mandati tutti di
sopra.
Nicholas
si sedette al fianco del detective, in attesa che gli uomini inviatigli dalla
superficie arrivassero. Sherlock non mosse un muscolo al suo arrivo, né diede
l’impressione di essersene effettivamente accorto.
Il
tunnel era improvvisamente più silenzioso e l’unico rumore che riempiva quel
silenzio erano i passi pesanti di Dennis sulla ghiaia grossa fra i binari. Nick
decise di prendere parola, abbastanza convinto che altrimenti Holmes non
l’avrebbe fatto.
« Sa, dovrei dirle
di tornare in superficie, in realtà » cominciò: « e spiegarle i pericoli che si
corrono nel respirare polvere per quattro ore, ma... so già che non mi
ascolterebbe, o mi ignorerebbe direttamente, dunque penso che risparmierò il
fiato » disse,
togliendosi il casco e passandosi la mano fra i capelli.
L’altro,
senza abbandonare la sua posizione, assottigliò gli occhi. Fu l’unico segno
tangibile che mostrò e che dimostrava che lo avesse effettivamente ascoltato,
dunque Nick non se la prese troppo quando la sua osservazione cadde nel
silenzio.
Come
se niente fosse, senza nemmeno chiedersi se lo stesse disturbando o meno, continuò
a parlare. Chissà per quale motivo, nella sua mente Sherlock Holmes era nel bel
mezzo di un processo di autodistruzione silenziosa e aveva conseguentemente
pensato che parlargli, in quel momento in cui erano impossibilitati a fare
altro, fosse una soluzione elegante per mantenerlo con i piedi per terra.
« Sa, ci ho pensato
da quando ho sentito il suo nome... » riprese, posando gli occhi sulla volta
scura della galleria: « non mi suonava
nuovo, e alla fine mi sono ricordato. “The Science of
Deduction”, dico bene? » domandò.
Con
la coda dell’occhio vide Holmes girare il viso in sua direzione. Finalmente era
riuscito ad attirare la sua attenzione.
« Lo legge? » domandò poi lo
stesso Sherlock, un pizzico ben celato di curiosità nella voce.
Nick
si sentì interiormente soddisfatto per quella piccola vincita. « Non io, mia
moglie. È un avvocato, e in qualche occasione mi ha detto che ha trovato il suo
sito molto utile per alcuni casi che stava seguendo insieme a dei clienti
particolarmente difficili da gestire. Ho letto anche io qualcosa, ma devo
ammettere che mi interesso di più al blog del suo collega... » raccontò.
Nel
farlo, notò un fremito negli occhi così incredibilmente chiari dell’altro. Ebbe
improvvisamente la conferma di quello che sospettava da un paio d’ore a quella
parte e se ne rattristò.
Aveva
sperato nel fatto che di “John” fosse pieno il mondo. Aveva sperato che la
persona sepolta lì sotto non fosse l’autore di quel blog che tanto apprezzava
leggere la sera, di ritorno dal lavoro, in cui si raccontavano meglio che in un
telefilm a puntate le avventure e le indagini dell’unico consulting detective
del mondo e del dottore suo compare.
« Il dottor John H.
Watson » pronunciò quel
nome con rispetto e reverenza: « ...è lui che stiamo cercando, signor Holmes? » chiese poi, limitandosi
ad osservarlo di sottecchi.
Sherlock
tenne gli occhi puntati verso terra, socchiusi in un pensiero che doveva essere
particolarmente insistente. Annuì piano alla sua domanda, sospirando debolmente.
Nicholas
chiuse gli occhi a sua volta. « Speravo che non si trattasse di lui. Lo speravo
davvero. Ma più la guardavo e più mi rendevo conto che, probabilmente, non
avrebbe potuto essere nessun altro » riaprì gli occhi: « dopotutto,
immagino che voi siate... » lasciò cadere, quasi in imbarazzo a porre quella
domanda implicita.
Sherlock
sospirò più veementemente, dando l’impressione di qualcuno che faceva leva
sulla sua più piccola stilla di autocontrollo per rimanere semplicemente fermo
in quel punto senza niente per le mani.
« Non lo siamo » si limitò a
rispondergli.
Nick
alzò le sopracciglia: « davvero? ».
« È un
fraintendimento comune » gli rispose il
detective.
« Beh... non me ne
meraviglio » commentò
distrattamente il pompiere, sfregandosi le mani sul tessuto dei pantaloni per
poi portare le dita a strofinarsi gli occhi. Non lo avrebbe mai ammesso, ma
cominciava a sua volta a sentire la stanchezza delle ore passate in quel
tunnel.
Fu
Sherlock a riportarlo sui binari della conversazione – anche se per la maggior
parte solitaria – che era stato capace di imbastire: « perché no? » chiese
semplicemente.
Ryder girò appena il volto in sua direzione,
osservandolo di sottecchi ma abbastanza palesemente da incrociare il suo
sguardo debilitante, totalmente rivolto verso di lui. Sentiva dentro di sé che
quella domanda non era rivolta alle ovvietà, come il fatto che loro vivessero
insieme e comparissero sempre e comunque uno accanto all’altro dappertutto;
aveva più l’idea che ricercasse qualcosa di più profondo, o che lo stesse
mutamente sfidando a dire qualcosa di più di quello che si poteva semplicemente
immaginare con l’aiuto della logica e della fantasia.
D’altro
canto, poteva anche stare perdendo la testa. Sarebbe stato altrettanto
plausibile.
« Mi baso su quello
che leggo » gli disse dunque:
« vede... Il dr.
Watson parla di lei nel suo blog come io parlerei di mia moglie, scrivendo ciò
che ha di buono e facendo passare per sottigliezze irrilevanti ciò che di buono
non ha. Non so come spiegarglielo... ma ha un modo di dipingerla che fa sorridere
e, fra le righe, si capisce che tiene a lei. E’ il modo di descrivere agli
altri le persone a cui teniamo, lo si fa sempre con un sorriso sulle labbra » spiegò,
sorridendo.
Sherlock,
ascoltando quelle frasi con l’attenzione che metteva in tutto ciò che faceva,
chiuse nuovamente gli occhi. Un secondo, non di più, ma fu sufficiente per
abbassare un po’ delle difese che aveva eretto intorno a se stesso.
L’angoscia
dell’attesa è sempre quella più terribile di tutte, sia mentalmente che
fisicamente. Era un meccanismo di autodistruzione sconsiderata, che sfibrava la
mente e tramite essa intaccava anche il corpo.
Una
o l’altra. Se solo avesse saputo le sue condizioni... John poteva essere vivo o
morto, cinquanta e cinquanta, ma anche solo il fatto di saperlo lo avrebbe
fatto spostare da quel limbo pesante come piombo che stava facendo riaffiorare
lati di lui nascosti per anni in un qualche angolo del subconscio e lì
dimenticati, lasciati con la promessa che non li sarebbe mai andati a
riprendere, che non ne aveva bisogno.
Sentimenti...
era impreparato ad affrontare un’onda anomala di tale portata. John avrebbe saputo cosa fare, non lui,
lui no.
« Lui ha... » cominciò dunque
il detective, per una volta iniziando un discorso di propria iniziativa: « ...ha la brutta
abitudine di pensare sempre prima con il cuore. E possiede anche la strana
capacità di riuscire a salvarti da te stesso » disse solamente, lasciando intuire
solo una parte di ciò che era John Watson, cioè molto più che cuore e
gentilezza.
Nick
si chiese da cosa il dottor Watson era solito salvarlo, cosa c’era nella
persona di nome Sherlock Holmes da rappresentare un pericolo per se stesso –
oltre al fatto di cacciarsi in situazioni pericolose senza il minimo
ripensamento, ovviamente.
Doveva
esserci molto di più dietro quell’essere umano di nome John Watson che Holmes
non era intenzionato a rivelare, per lo meno non a voce. Ma lo vedeva dallo
sguardo, dagli occhi preoccupati perennemente in movimento, dalle labbra
stirate appiattite l’una contro l’altra, dalla fronte aggrottata e dalle
sopracciglia strette. Non bisognava essere un genio della deduzione per capire
che il detective, astro d’intelligenza e dal carattere molto particolare,
vedeva molto più nel dottor Watson di quello che esprimeva, e probabilmente
anche più di quello che era pronto ad ammettere a se stesso e davanti agli
altri.
Nicholas,
ascoltando per l’ennesima volta il silenzio venutosi a creare fra loro, si
convinse infine che questo medico doveva essere non solo una persona
importante, per Sherlock Holmes, ma che addirittura rasentasse il limite della
necessità, per quell’uomo.
Pregò,
mentre Dennis lo richiamava all’ordine indicando in lontananza la nuova
squadriglia in arrivo, che accadesse un miracolo. Pregò Dio di avverare il
desiderio di Holmes.
Pregò
Dio di trovare il dottor John Watson vivo e vegeto.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Train’s
Coach), h. 18:00 pm
« Ha... ha smesso
di battere ».
John
alzò gli occhi sul soldato solo per un istante: tanto gli servì per assicurarsi
che stesse dicendo la verità.
Il
terrore che lesse in quelle iridi era del tutto sincero. Non era possibile
fingerlo, non così bene, e in ogni caso aveva ormai imparato che Edward era un
ragazzo sincero e schietto.
Aveva
fatto come gli era stato detto, tenendo appoggiate le dita della mano sul collo
di Joy per almeno un’ora mentre John cercava in tutti i modi di pulire la
ferita, utilizzando stracci puliti e saliva.
Aveva
ingannato gli altri ingannando se stesso. Sapeva benissimo che non avrebbe
potuto fare niente in ogni caso, se non forse aspettare quei soccorsi che più
volte avevano smesso di dare segno della loro presenza, salvo riprendere a
martellare e a lavorare poco dopo.
Motivo
per cui non si sorprese poi molto, quando la voce di Edward scandì quelle parole.
Senza
preoccuparsi delle mani sporche si allungò subito ad appoggiarle un dito prima
sul polso, poi sulla carotide.
Niente.
Edward aveva ragione, alla fine il cuore aveva ceduto.
Stava morendo.
Rimase
per qualche istante a guardarla, cercando di trovare una risposta che in realtà
aveva già. Poteva provare con un massaggio cardiaco, certo, ma anche se fosse
riuscito a riattivarle il cuore, nessuno poteva dire quanto altro tempo avrebbe
potuto reggere. Per quello che ne sapeva, ormai esso era danneggiato e anche se
avesse ripreso a battere, molto probabilmente Joy avrebbe continuato ad andare
in arresto cardiaco fino al completo sfinimento del cuore stesso.
Esatto.
Sarebbe stato il suo stesso cuore, prima o poi, ad arrendersi. Era inevitabile.
Con quello che aveva non poteva più fare niente e non era nemmeno sicuro che,
nel beneaugurato caso che i soccorsi fossero infine giunti anche dentro quel
piccolo bozzo pieno d’inferno, anche portandola in ospedale si sarebbe potuta
salvare.
La
guardò in volto. Pallida e ancora bagnata di sudore, la sua pelle bruciava a
causa della febbre alta. Temperatura che sarebbe scesa, nel giro di poche ore,
trasformando quel bel viso in un cadavere.
Per
un istante, al posto di Joy vide sua sorella Harriett.
Vide
sua sorella giacere sul pavimento, immobile, esanime. Sua sorella che sperava
sempre in un ritorno di Clara, anche se era stata proprio lei a lasciarla, così
simile alla ragazza che desiderava tornare a casa senza dover chiamare un
fabbro per farsi aprire la porta, per poi prepararsi e andare a cena con la sua
vicina di casa per dirle che l’amava.
Così
simili, così diverse. Così uniche.
No.
No.
Fossero
stati anche solo pochi minuti, doveva fare qualcosa.
« Col cavolo che ti
mollo...! » esclamò,
spostando la mano di Edward con un cenno della propria e sistemandosi di fianco
a lei ben fermo sulle ginocchia, le mani appoggiate sul suo petto all’altezza
dello sterno, braccia ben tese.
Cominciò
a spingere ripetutamente, mettendo in atto un massaggio cardiaco. Edward,
serrando la bocca in un moto di rinnovato spirito, annuì deciso. « Facciamo un ritmo
di cinque a uno, dottore! » esclamò, facendo allontanare la piccola Alice e
tirando indietro con due dita la testa di Joy, preparandosi a farle la
respirazione bocca a bocca.(3)
John
assentì, terminando la prima serie di trenta compressioni, a cui Edward rispose
con due insufflazioni.
Poi,
cominciò il ritmo serrato della rianimazione a due. John li contò ad alta voce.
« Uno, due, tre,
quattro, cinque ».
Edward
soffiò nella bocca di Joy, facendole gonfiare i polmoni d’aria.
Il
cuore non riprese a battere.
Di nuovo.
« Uno, due, tre,
quattro, cinque » ripeté John.
Un
altro soffio.
Nessun
battito cardiaco.
« Uno, due, tre,
quattro, cinque! » ancora.
Di
nuovo un soffio.
Silenzio.
« Uno, due, tre,
quattro, cinque! » continuò John,
non perdendosi d’animo.
Ed
seguì la sua volontà come una luce nel buio, insufflando nuovamente.
Ma
ci fu nuovamente silenzio.
Passarono
così cinque minuti, continuando con un ritmo serrato di cinque ad uno finché la
fronte di John non fu imperlata di sudore ed i gomiti cominciarono a non
reggere più lo sforzo, piegandosi di tanto in tanto, facendogli saltare una
compressione. Non potevano cambiare posto, dato che il soldato aveva una spalla
fuori uso, così tutta la fatica di far ripartire il cuore alla ragazza stesa a
terra toccava a John.
Fatica
che, oramai, tralasciata l’inutilità dell’operazione, le sue braccia non
potevano più reggere; una scarica di dolore ai muscoli delle stesse lo pregò
tacitamente di smettere quella tortura, ma lui non si fermò, anzi continuò
ancora.
Continuò
finché non riuscì nemmeno a contare ad alta voce a causa del fiatone che si
mangiava le parole per trasformarle in aria per i polmoni sotto sforzo.
Continuò
per altri quattro minuti.
Allo
scoccare del nono minuto – non era possibile rianimarla dopo nove minuti: il
cervello poteva sopportare una deprivazione d’ossigeno di massimo quattro
minuti, e lui lo sapeva – fu Edward a
lasciare andare il naso di Joy, tenuto chiuso dalle dita del soldato in modo da
effettuare la respirazione bocca a bocca nel modo corretto, osservando John con
occhi stanchi e rassegnati dal corso degli eventi così come gli appariva
davanti agli occhi.
Joy,
la ragazza che non voleva altro che vivere il suo amore, non c’era più. Era
morta in silenzio, addormentandosi sopportando il dolore feroce alla gamba
martoriata, nell’angolo di una carrozza dall’alternante luce al neon insieme a
persone che nemmeno conosceva sul serio, ma che nel giro di qualche ora erano
riusciti a volerle così bene da provare ad ogni costo a salvarle la vita,
persino quand’anche la speranza era scomparsa.
Watson
guardò ansimante gli occhi di Edward, fermando le compressioni. Strinse i denti
in una parolaccia a stento trattenuta e, chiudendo la mano destra a pugno, la
batté ferocemente sul petto della ragazza distesa davanti a lui, immobile ed
esanime, persino esangue.
« Dannazione! » sbottò, in un
attacco di rabbia che anche Edward avrebbe volentieri condiviso se avesse
potuto anche solo pensare di muovere il braccio senza sentire i cori demoniaci
dell’inferno con tutto il loro dolore.
« Dottore,
abbiamo... fatto quello che potevamo... » sussurrò il giovane soldato a denti
stretti, arricciando il naso in una smorfia d’ira repressa a malapena. Dall’altra
parte della carrozza, Alice si mise a piangere silenziosamente, gli occhietti
gonfi e rossi.
« No... » borbottò John, il
dorso della mano destra a coprire gli occhi stanchi e lucidi: « no, che non
abbiamo fatto abbastanza. Non ho
fatto abbastanza. Non me ne sono accorto... lei è morta e io non me ne sono
accorto... » soffiò, facendo
respiri profondi per impedirsi un crollo emotivo che non avrebbe giovato
proprio a nessuno di loro.
« No dottore, lei
ha fatto tutto il possibile con quello che aveva! » si scaldò Edward,
alzando la voce nel rispondergli: « lei è un medico eccezionale, ed una
persona ancora migliore! Non mi vada nel pallone ora, dottore, non è ancora
finita! » esclamò.
John
si chiese dove la trovasse, tutta quella forza. Probabilmente faceva parte dell’attrezzatura
del soldato
Forse
una volta l’aveva avuta anche lui, quando indossava la divisa e gli sembrava di
fare finalmente qualcosa di utile nella vita, qualcosa che gli sarebbe valso il
diritto di vivere camminando a testa alta per strada.
Non
poteva sapere che le cose che ti rendono davvero orgoglioso sono sempre dove
meno te le aspetti; in un disordinato appartamento di Westminster, per esempio,
o negli occhi incredibilmente azzurri di un coinquilino/migliore amico/chissà
cosa quando sorride soddisfatto di una tua intuizione.
Stava
per rispondergli, quando successe.
Stava
per dire a quel giovane pieno di spirito militaresco che andava tutto bene, che
doveva solo elaborare la perdita, come aveva fatto moltissime altre volte al
fronte, doveva aveva visto i suoi amici morire sotto le proprie mani perché
cercava di curarli anche quando non poteva fare proprio niente, per salvarli.
Prese
giusto il fiato per pronunciare la prima parola... ma non ci riuscì.
Un
dolore sordo esplose come un tuono nel suo stomaco, facendogli contrarre i
muscoli del ventre sotto l’insana forza di quella fitta di puro male fisico. Un
lampo bianco gli attraversò la vista mentre si chinava istintivamente su se
stesso, le mani strette sulla pancia, un respiro mozzato a metà fra la gola e i
polmoni. Solo un gemito gli uscì dalle labbra mentre poggiava la fronte al
pavimento di fianco al cadavere della ragazza, il suo corpo che cercava in ogni
modo di ricacciare indietro quel dolore sconsiderato chiudendosi a riccio in
una posizione che la maggior parte della gente normale non avrebbe mai nemmeno
preso di propria iniziativa.
L’udito
ovattato, a John sembrava di essere stato nuovamente colpito da un proiettile,
ma questa volta all’addome. Prese un breve respiro fra i denti serrati,
pentendosi subito quando il gonfiarsi dei propri polmoni gli provocò un’altra
fitta, facendolo gemere.
Non
capiva più niente, il cervello era completamente immobile, incapace di
concentrarsi su altre cose se non il dolore. Sentì solo per caso la mano di
Edward sulla propria spalla, e prima di rendersene conto era già disteso a
terra, ancora chiuso su se stesso nella galoppante disperazione al pensiero,
sempre più fondato, che fosse troppo tardi anche per lui.
« Dottor Watson!
Cosa le succede?! » la voce del
soldato era acuta e tremolante, e anche solo da quella era palese che fosse nel
più completo panico.
John
tentò di parlare, ma il tentativo si rivelò inutile dato che non aveva
sufficiente respiro. Prese coraggio e, pian piano, distese le gambe e si mise
supino, per permettere ai propri polmoni di espandersi e quindi ricominciare a
respirare.
Aveva
fatto la stessa, medesima cosa anche in Afghanistan, quando quel maledetto
proiettile di kalashnikov aveva messo fine alla sua carriera e lo aveva fatto
passare da un ospedale all’altro per quasi un anno.
« Dottor Watson! » esclamò
nuovamente Edward, aspettando una risposta, un cenno, anche solo un segno per
sapere se stava bene.
John
deglutì, prendendo piccole sorsate d’aria prima di riuscire a tirare fuori la
voce: un timbro sussurrato, incrinato, basso.
« La... camicia » disse, non riuscendo nemmeno a portare la
propria mano all’indumento che Edward era già al suo fianco; con dita ruvide e
veloci sollevò camicia e maglietta, scoprendogli pancia e stomaco.
Ciò
che vide fu un ematoma diffuso, che andava dall’ombelico al fianco e fino a
sotto la cintura dei pantaloni. Il soldato sbiancò, tornando a guardarlo in
volto con un’espressione terrorizzata.
« E questo cos...
Cosa diamine... ? » borbottò.
« Un’emorragia
interna... » sussurrò John,
afferrandogli il braccio e stringendoglielo forte: « devi... devi... » cercò di dire, ma
un movimento sbagliato gli fece strizzare gli occhi per il dolore.
Dolore
che, nel frattempo, sembrava allargarsi a macchia d’olio e spostarsi anche
verso la parte bassa della schiena.
« Dottore no, no!
Io non so cosa fare! » sbraitò Edward,
cominciando a guardarsi intorno come impazzito, alla ricerca di chissà cosa che
però era impossibile che trovasse, nel posto dove si trovavano.
John
si sforzò di non urlare, limitandosi a stringergli nuovamente il braccio: « devi sentirmi i
battiti... Edward, devi sentirmi i battiti! » alzò la voce, sovrastando per miracolo
quella dell’altro, che riportò lo sguardo su di lui, ancora visibilmente
agitato.
Watson,
continuando a guardarlo negli occhi per non sembrare insicuro – e dunque non
far sentire di riflesso l’altro più insicuro di quanto in realtà già non fosse
– riprese a spiegare: « devi tenere
d’occhio le mie condizioni, e... e dirmele, ok? » disse, assicurandosi che lo stesse
ascoltando.
Il
soldato annuì, posandogli un paio di dita tremanti sulla giugulare. « Batte in
fretta... » riuscì a dirgli,
dovendo ricominciare però a contarli almeno tre volte prima di avere una stima
numerica: « direi almeno 100
battiti al minuto » gli disse,
sembrando un minimo più calmo.
John
gli sorrise, annuendogli appena ed abbandonando la testa sul pavimento duro.
La
frequenza era alta rispetto alla norma, se non considerava l’agitazione e la
fatica fatta nel cercare di rianimare Joy. Tuttavia ormai era disteso e i
battiti non si erano placati, motivo per cui era portato a credere che quell’aumento
di frequenza fosse dovuto all’emorragia.
« Ascoltami bene » cominciò dunque a
dire, senza spostare il capo ma guardandolo dritto in volto: « sto perdendo
sangue da un po’... e-e probabilmente questi sono i sintomi di un’anemia » gli chiarì.
Il sangue perso
abbassa la pressione sanguigna; il cuore, per ovviare all’abbassamento del
volume del sangue presente nelle vene, aumenta i battiti. La perdita di sangue
provoca giramenti di testa, nausea, fiacchezza, sudori freddi e pallore.
« Probabilmente
peggiorerà... potrei arrivare ad un punto in cui perderò coscienza. Non devi
farti prendere dal panico. Se... » ebbe un attimo di smarrimento nel dover
pronunciare quelle parole, ma si riprese subito: doveva essere sicuro che
Edward fosse in grado di rimanere con la testa piantata nella realtà. « ...Se per caso
non dovessi farcela... devi avere cura di Alice finché non vi tireranno fuori di
qui. Hai capito? ».
« Dottore, non dica
nemmeno per scherzo una cosa di questo gen- »
« Hai capito?! » lo interruppe il
medico, pretendendo una risposta.
Si
guardarono negli occhi per un momento che parve infinito, ma che in realtà
comprendeva solamente qualche istante. Edward annuì mentre John, avuta
finalmente la risposta che aspettava, socchiuse gli occhi e lasciò andare un
lungo sospiro.
Perdonami,
Sherlock –
riuscì solo a pensare.
Forse ti toccherà
trovare qualcun altro, con cui dividere l’affitto.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 19:00 pm
« Non funzionerà ».
La
voce profonda di Sherlock spaccò violentemente il silenzio carico d’aspettative
dell’uomo in piedi al suo fianco, che aveva appena terminato di posizionare,
insieme ai suoi sottoposti, quattro mezze travi d’acciaio accanto ai due vagoni
sovrapposti, come a formare una sorta di percorso discendente per far sì che il
vagone superiore potesse lentamente scivolare lungo di esse ed adagiarsi a
terra.
Nick
sussultò. Non gli era servito molto tempo in sua compagnia per rendersi conto
che ogni cosa Sherlock Holmes dicesse era fondata su assunzioni logiche
ineccepibili e, di conseguenza, era anche corretta.
Tuttavia
negò con il capo. « Non abbiamo tempo
per fare nient’altro » disse, suonando
sicuro di sé.
L’idea
era sembrata buona – o meglio, era parsa l’unica praticabile nel poco tempo che
avevano – dunque era stata messa subito in atto.
Ma
a Sherlock, ora come all’inizio, sembrava solamente un maldestro tentativo di
scaricare da un camion una botte da cinquanta chili di vino usando un paio di
tavole di compensato.
« Il vagone è
troppo pesante » osservò: « le travi si
piegheranno non appena il peso si sarà concentrato nel punto di appoggio alle
travi stesse. Si piegheranno e cederanno, e la carrozza trascinerà con sé anche
i detriti che ne hanno schiacciato la parte rivolta verso la motrice.
Probabilmente questo crollo non farà altro che gravare ulteriormente sulle
condizioni già precarie della volta, ma ammetto di sparare nel buio dicendo che
potrebbero esserci altri crolli. Lei è un ingegnere, queste cose dovrebbe
saperle » terminò,
rivolgendosi a Nick senza però guardarlo direttamente, tenendo invece gli occhi
socchiusi e fissi sull’ultimo manipolo di pompieri che assicurava meglio le
travi alla terra sotto i loro piedi.
Nicholas,
istintivamente, alzò gli occhi alla volta scura sopra di loro.
Da
ingegnere, anche se navale, sapeva dentro di sé che Holmes aveva ragione. Che
poteva effettivamente succedere di tutto e il pensiero che sopra di loro – a
quasi dieci metri, in realtà, ma comunque sopra di loro rimaneva – ci fossero
le acque del Tamigi non lo calmava affatto, anzi.
Sospirò
pesantemente, grattandosi la nuca con la mano destra. « Con tutti i
maledetti posti che questa galleria attraversa, proprio qui doveva
deragliare... accidenti » borbottò a bassa
voce. Solo Sherlock riuscì a sentirlo, ma non commentò nessuna delle sue
parole.
Il
detective, d’altro canto, non staccò mai gli occhi dalle operazioni in atto.
Era
sicurissimo che quel vagone sarebbe rotolato giù veloce come un barile lungo
una discesa, così come era altamente convinto che almeno parte della galleria
avrebbe ceduto a quello spostamento improvviso; quello che tentava di capire in
realtà, però, era se la carrozza sottostante, ovvero l’ultima su cui potevano
intervenire – quella in cui doveva per
forza esserci John – avrebbe retto all’urto o si sarebbe irrimediabilmente
accartocciata su se stessa, come una foglia che va a fuoco.
Cercando
di non prendere in considerazione quali sarebbero state le conseguenze di
quella mossa del tutto sconsiderata – ma non illogica – sugli eventuali
occupanti del vagone, si rivolse nuovamente al pompiere, impegnato a mordersi
il labbro inferiore in un attacco d’ansia tenuto prontamente a bada.
« Non c’è altra
scelta? » domandò il
detective, attendendo una replica.
Risposta
che arrivò dopo qualche istante di meditazione da parte dell’altro. « No » rispose: « potremmo
spostarlo con una gru, che qui sotto non entrerebbe. Potremmo anche cercare di
creare un passaggio che passi dalla parte sottostante della carrozza superiore
fino al soffitto di quella inferiore, ma sono entrambi talmente spessi che
impiegheremmo troppo tempo, oltre che rischiare di ferire eventuali superstiti
nel tentativo. Ho preso in considerazione anche di tagliare un pezzo dalla
paratia visibile della carrozza sottostante, ma temo che se lo facessimo non
reggerebbe più il peso del vagone soprastante e crollerebbe tutto. Abbiamo
controllato ai due lati e dall’altra parte se ci sono passaggi percorribili ma
niente, non ne abbiamo visti. Sappiamo solo che filtra della luce, quindi c’è
della corrente elettrica. Tutto qui » terminò il riassunto, osservando poi
Sherlock: « se ha idee
migliori, sono tutto orecchie » aggiunse poi, sorridendo amaramente.
« Ne ho sette, ma
tutte impraticabili qui sotto » rispose subito Holmes, dovendo ammettere con se
stesso che il piano elaborato da Ryder era l’unico
fattibile.
Era
come un esperimento. Avevano preparato tutto l’occorrente, ora mancava solamente
la messa in atto. Tutto ciò che dovevano fare era agire e, successivamente,
fare l’analisi di ciò che era successo.
Deglutì,
annuendo brevemente a se stesso.
“Fiducia”,
non era questo che aveva detto Lestrade? Abbi
fiducia.
Nicholas
lo vide annuire, e per riflesso fece anche lui lo stesso. Si rivolse poi ai
suoi uomini, quindici fra pompieri e paramedici, posizionati in cinque gruppi
da tre con ognuno in mano una corda, pronti a tirare.
« Cominciate! » gridò Nick; lui e
Sherlock, contemporaneamente, andarono a posizionarsi dietro Dennis alla quinta
fila.
Al
segnale di via, tutti i gruppi presero a strattonare le grosse corde, tenendo
il ritmo delle tirate con la voce. Ad ogni strattone secco che riceveva, il
metallo del vagone scricchiolava sempre più forte e, con un rumore acuto,
cominciò pian piano a spostarsi.
« Si muove!
Continuiamo! » gridò Dennis.
Sherlock,
nonostante avesse i guanti, non si sentiva più le mani. La pelle dei palmi
aveva bruciato dopo i primi tre strattoni a causa della frizione della cute
contro la stoffa ruvida dell’interno del guanto e, pian piano, aveva
semplicemente smesso di sentirsela attaccata alle dita. I muscoli delle sue
braccia cominciarono a dolergli, così come i quadricipiti delle gambe, che
sparavano acido lattico nelle fibre muscolari a ritmo esponenziale.
Ma
continuò lo stesso. Solo il pensiero che là sotto, là dentro, ci fosse John, lo
spingeva senza rimpianti a smembrare se stesso nel tentativo di salvarlo, o
anche solo vederlo.
Voleva solo
vederlo. Voleva solo sapere.
Sapere se sarebbe
tornato alla sua vecchia vita piena di nuove abitudini o se sarebbe stato
condannato ad annegare ogni giorno sulla terraferma.
Continuarono
a strattonare per un numero indefinito minuti, nei quali il vagone si mosse di
parecchi centimetri. Quando finalmente sembrò in bilico su se stesso e sul
punto di cadere, la voce di Nick si alzò in un gutturale: « tirate! ORA! ».
Sherlock,
così come tutti gli altri uomini, puntò i piedi a terra e tirò con tutta la
forza che aveva a disposizione, stringendo i denti e artigliando le mani alla
corda, usando persino le unghie.
In
un cigolio metallico, il vagone rotolò sulle travi. E, come aveva predetto
Sherlock, esse si piegarono irrimediabilmente sotto il suo peso, lasciandolo
cadere ad una velocità superiore alle aspettative.
Il
movimento improvviso della carrozza, inoltre, sempre come Sherlock aveva
predetto, causò uno spostamento dei detriti in equilibrio precario sopra di
essa. Crollò della terra, fango e alcuni pezzi di pietra; con un rumore sordo
una lunga crepa si formò sul soffitto, facendo sì che altri pezzi di pietra si
staccassero dalla volta a precipitassero,
esattamente
sopra i soccorritori e le due carrozze.
Sherlock
fece a malapena in tempo a vedere alcuni pezzi cadere a poca distanza da lui
che subito un “a terra!” gridato disperatamente gli trapassò le orecchie. Si
buttò al suolo, venendo subito coperto da braccia non sapeva appartenenti a chi
e poté chiaramente sentire le sue ginocchia, gli stinchi ed i gomiti urtare
contro la ghiaia grossa del manto della galleria.
Un
lieve dolore alla testa e poi più nulla se non una nube di polvere grigia.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Train’s
Coach) – meanwhile
Aveva
sentito i primi cigolii del metallo sopra la sua testa come eco lontane, perso
in una sorta di dormiveglia che tale non era, ma che vi assomigliava
grandemente.
Steso
sul fianco sinistro, Alice gli teneva una mano con le sue, poggiate sul piccolo
grembo come farebbe una donna fatta e finita. Probabilmente, in quel breve
lasso di tempo, la piccola aveva perso un pezzo della sua infanzia ed era
diventata grande tutto d’un colpo, troppo in fretta, non meritandoselo affatto.
Aveva
freddo, John. Brividi di gelo gli correvano sulla pelle della schiena facendolo
tremare. Si sentiva le viscere strette in una morsa fastidiosa, prendeva brevi
respiri con il naso alzando ed abbassando il torace e si sentiva le palpebre
sempre più pensati, nonostante cercasse con tutto se stesso di rimanere se non
vigile, almeno sveglio.
« Cosa sta
succedendo...? » riuscì a
borbottare, fissando gli occhi socchiusi e carichi di un sonno innaturale sul
soffitto.
Edward,
seduto accanto a lui da quando aveva avuto il malore, alzò lo sguardo a sua
volta. « Non so... ma
stanno facendo qualcosa » dichiarò,
alzandosi in piedi ed avvicinandosi al finestrino sfondato in precedenza per
poter dare un’occhiata.
Seguendolo
con lo sguardo, John si imbatté nel cadavere di Joy, ancora steso lì dove
avevano tentato di rianimarla. Edward si era limitato a coprirne il volto ed il
busto con la sua giacca, senza spostarla.
Il
senso di colpa dilagò nel petto del medico, ma fu un’altra la cosa che,
malauguratamente, catturò la sua attenzione. Non si era minimamente accorto di
quando l’aveva fatto.
Ciò
voleva dire che aveva cominciato a perdersi dei pezzi. Vuoti di coscienza in
cui probabilmente perdeva conoscenza, o semplicemente si addormentava.
Sospirò,
chiudendo gli occhi per un secondo, infastidito dalla luce al neon sempre più
tremolante. Alice, osservandolo, gli strinse di più la mano nelle proprie. Il
dottore cercò di ricambiare la stretta quanto poteva.
« Non avere paura,
piccola Alice... » gli disse poi,
sussurrando data la vicinanza e la confusione in testa che aumentava minuto
dopo minuto: « andrà tutto bene
e tornerai dal tuo papà... » le disse.
Lei,
con quell’aria sperduta e spaventata su tutto il viso, annuì in un gesto quasi
invisibile.
« Dottore... tu ce
l’hai un papà? » chiese poi la
piccola, mentre i rumori sopra di loro sembravano aumentare pian piano
d’intensità. Edward, con la torcia di Joy, si era intanto arrampicato su per il
piccolo passaggio del finestrino.
Il
medico le fece un sorriso stanco, negando con il capo. « No, non ce l’ho
più... però qualcuno sì, ce l’ho » aggiunse, sempre sorridendole, nel
tentativo di tenerla il più tranquilla possibile.
Alice
sembrò pensarci su per un attimo. « È la persona che dicevi prima? » domandò.
John
annuì di nuovo. « Il tuo papà è una
persona importante per te, Alice? Gli vuoi bene? » le chiese; lei annuì.
In
quel momento, pensò che non poteva essere poi così sbagliato, essere sincero
con se stesso. Molto probabilmente sarebbe morto, se i soccorsi non fossero
arrivati in tempo, e in ogni caso si sentiva già abbastanza debole da pensare
di non potercela comunque fare.
Sherlock
era la prima persona che istintivamente associava al termine “importante”. Era
il suo coinquilino, il suo migliore amico, e forse anche più di questo, non lo
sapeva nemmeno lui. Era semplicemente consapevole del fatto che, quando la sua
terapista gli aveva chiesto dove si vedesse a dieci anni nel futuro, lui aveva risposto
immediatamente “al 221B di Baker Street”. Aveva l’improbabile immagine mentale
che sarebbe stata quella la sua vita, da quel momento in poi: rimanere al
fianco di Sherlock. Sempre.
Ascoltarlo
durante le sue deduzioni, aiutarlo – per quanto possibile – durante la
risoluzione dei casi, scrivere le sue avventure su quel blog rimasto una
semplice pagina bianca per tante notti insonni piene di mine e deserto, per poi
essere riempito con narrazioni mozzafiato di indagini risolte (e non, anche
se Sherlock non piaceva che lui
scrivesse anche di quelle).
Era
stato riempito di vita. La vita che era stato Sherlock a dargli. L’aveva
condensata dall’aria come rugiada fra le dita e poi l’aveva posata
delicatamente sulle sue, lasciando che John ne facesse ciò che voleva.
E
gli sarebbero mancate tante, troppe cose. Come la torta di mele di mrs. Hudson, o i momenti folli in cui Sherlock decideva di
vivere solo di tè perché “la digestione spreca preziose energie utili al mio
cervello”. Il commesso del ristorante cinese che ormai sapeva esattamente
cos’avrebbero ordinato, Angelo e le sue candele, i sabato sera sul divano a
guardare un film a noleggio, le sue dita affusolate e bianche appoggiate
sull’archetto e le note di Bach, o Mozart, o Pachelbel,
o Paganini, o Čajkovskij a riempire la notte
silenziosa.
Non
era per disperazione che stava con Sherlock Holmes, no... e non era la pazienza
ciò che lo rendeva adatto a vivere con lui. La realtà era un’altra ed era
sempre stata molto semplice; John era attratto dal mondo di Sherlock, e lo era
stato dalla prima volta che aveva incrociato il suo sguardo.
Non
credeva di amarlo e non si immaginava in quel senso, con lui. Ma non si immaginava
nemmeno senza di lui.
Non
più, ormai.
Indispensabile
come l’aria, come l’acqua, come il sole.
Insieme
a lui e mai più da solo.
Watson
sorrideva senza nemmeno rendersene conto, fissando un punto indefinito delle
mani di Alice.
« Anche io voglio
bene alla mia persona speciale, Alice. Tanto bene. E sono preoccupato, perché
abbiamo litigato e io non riuscirò a chiedergli scusa... » disse, riducendo
la voce ad un soffio sul finire della frase.
Sì,
un mondo senza Sherlock Holmes era impensabile. Ma lui era solo John Watson.
E
aveva la sensazione che ce ne fossero tanti altri, come lui. Tante altre
persone normali che avrebbero potuto prendere il suo posto accanto a Sherlock, nel cuore di Sherlock.
John
Watson era una pedina sacrificabile, dopotutto.
Non sarebbe cambiato
niente.
« Perché no? »
La
domanda di Alice lo riscosse da quei pensieri pessimistici, permettendogli di
non addormentarsi seguendo la rotta di quegli stessi ragionamenti alla deriva.
Si riscosse, sospirando affranto.
« Perché ho...
paura » riuscì a dirle.
Perché morirò, pensò in realtà.
« Anche io ho
sempre paura quando papà mi sgrida perché lo faccio arrabbiare, però poi mi
porta a prendere un gelato e io gli dico che gli voglio bene, così facciamo
pace » disse la piccola,
aggiungendo poi felice: « quando torni a
casa, digli anche tu che gli vuoi bene, così fate pace ».
John
ridacchiò appena, annuendo.
Quanta
verità giace nella bocca dei bambini, che non hanno paura di dire le cose come
stanno, o lo spettro del dubbio ad oscurare i loro occhi.
Stava
probabilmente per aggiungere qualcosa, ma il ritorno di Edward spostò altrove
l’attenzione di entrambi.
« Stanno spostando
il vagone superiore » disse, sedendosi
di nuovo di fianco a John; nel frattempo, i rumori sopra di loro si erano fatti
più forti ed erano palesemente suoni di metallo che slitta su altro metallo.
Suoni fastidiosi, in realtà, ma che almeno davano a loro la speranza che qualcuno
ci fosse, là fuori.
Ma
John era un medico, ed essere medici significa essere anche realisti, quando
serve.
Aveva
freddo, sonno e si sentiva anche terribilmente confuso. Nonostante il dolore
alla pancia e all’addome non riusciva più a rimanere sveglio; i suoi occhi
troppo pesanti imploravano di scivolare in un sonno che, lo sapeva, non lo
avrebbe più lasciato andare.
Alzando
lentamente una mano – quella libera dalla presa gentile ed impacciata di Alice
– prese l’avambraccio di Edward, che posò gli occhi su di lui.
Non
si nega l’ultimo desiderio, no? Non funzionava così?
« Baker Street,
221B » gli disse.
« Cos... dottore,
cosa sta... ? » borbottò quello,
facendo finta di non aver capito.
« 221B di Baker
Street » ripeté allora
John: « cerca Sherlock
Holmes, devi digli che... »
« No, dottore! »
« Ascoltami! »
L’urlo
che John lanciò, trovando chissà dove la forza per farlo, fece zittire
automaticamente il soldato, che non ebbe cuore di rimanere sordo a quelle
parole di cui aveva giù intuito il significato.
Annuì,
rimanendo in silenzio, le orecchie aperte.
John
poté continuare. « Devi dirgli
che... » che gli voglio bene, che non voglio
lasciarlo solo, che lo terrò d’occhio ogni giorno, che sarò con lui in ogni
momento, che gli sussurrerò il mio nome all’orecchio quando starà per
dimenticarsene, che lo guarderò diventare un uomo sempre migliore, che deve
ricordarsi di mangiare, che il frigorifero non è fatto per tenerci teste
mozzate, che mi dispiace per avere litigato, che i momenti passati con lui sono
stati i più spettacolari della mia vita, che è il mio migliore amico, che mi
ero aspettato che finisse in un modo migliore, che... « ...che può tenere
le mie dita nel frigorifero, se vuole » disse, ridendo di sé stesso.
Edward
sembrò non capire, ma annuì comunque, in silenzio.
Poi,
uno scoppio. Ci fu un rumore più secco, come di qualcosa che si piegava e si
rompeva, e un rombo assordante lo seguì, accompagnato da un nugolo di polvere
densa e grigia che penetrò da ogni fenditura, riempiendo il vagone.
John
fece in tempo a sentire la piccola Alice rifugiarsi fra le sue braccia, ed
Edward piegarsi su di lui nel tentativo di proteggerlo, prima di perdere
definitivamente i sensi.
Cadde
in un sonno da cui non era sicuro si sarebbe risvegliato.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 19:30 pm
Quando
finalmente il fastidioso rumore terminò, e tutto ciò che rimase fu silenzio e
respiri ansanti di persone in attesa di un qualsiasi altro suono o del completo
silenzio, finalmente si permise di prendere un respiro profondo.
Polvere.
Era nell’aria e la sentiva penetrare pian piano anche nei polmoni, ad ogni
respiro che prendeva. Sotto le mani sentiva i sassi e sopra di lui, con il
petto appoggiato alla sua schiena nel tentativo del tutto istintivo di
fornirgli protezione, Nicholas stava riprendendo conoscenza in quel momento.
Cercando
di essere meno rude possibile, Sherlock se lo scrollò dalle spalle, sedendosi a
terra.
Non
sentiva particolare dolore da nessuna parte, ma il non potere vedere le proprie
condizioni non lo aiutava affatto a fare il punto della situazione. La galleria
era buia, illuminata solamente da un lieve lucore proveniente dalle luci che
non erano state danneggiate dal nuovo crollo appena avvenuto, e tutto intorno a
lui distingueva solo di semplici ombre nere dalle forme vagamente
riconoscibili.
La
sua mente volò subito ai vagoni, e a John per collegamento.
Poteva
essersi ferito? La carrozza sottostante aveva ceduto al peso?
Nonostante
non vedesse bene, poteva dire dallo spazio sgombro di grandi masse intorno a sé
che la carrozza soprastante non era caduta del tutto, dunque il loro piano non
era andato completamente in porto. Aveva riportato danni? Era crollata sotto il
peso di nuovi detriti staccatisi dalla volta? John era morto?
Prima era vivo?
Sentendo
la confusione tornare padrona di lui, strinse gli occhi e cercò di concentrarsi
su altro. Nella quasi totale oscurità non era esattamente in grado di
utilizzare la vista per dedurre quanto grave potesse essere la situazione, ma
almeno gli rimaneva l’udito.
Sentì
Nicholas, in ginocchio davanti a lui, sussurrare una serie di “dannazione”
intervallati da alcuni colpi di tosse. Immaginò fosse stato ferito – nel tentativo di proteggerti, Sherlock, come
un vero eroe, di quelli che non esistono – ma non ebbe effettivamente il
tempo per domandarglielo.
« STATE TUTTI BENE?
» urlò infatti
quello, facendo risuonare la sua voce lungo tutto il tunnel in una nota
echeggiante: « aggiornatemi
sulla situazione per gruppi e non muovetevi da dove siete! » aggiunse.
Probabilmente
i suoi uomini aspettavano solo questo, fermi nel buio, perché subito i fasci di
alcune torce elettriche rischiararono l’ambiente
« Gruppo uno, tutto
ok! » si sentì da una ventina
di metri di distanza.
« Gruppo due, Sykes ha una gamba rotta, serve un medico! ».
Nick
puntò la torcia su Dennis, seduto a poca distanza, poi la spostò su Sherlock,
osservandolo attentamente.
« Gruppo tre, tutto
ok! Lewis chiede di poter raggiungere il gruppo due per visitare Sykes! ».
Vide
qualcosa che non gli piacque, probabilmente, perché si avvicinò meglio e,
togliendosi un guanto, gli spostò i capelli ricci e ormai incrostati di polvere
e sudore dalla fronte. Sherlock glielo lasciò fare, prendendo ampi respiri
d’aria per liberarsi dalla sensazione di avere letteralmente mangiato della
polvere. Nick gli toccò un punto specifico della testa e, quando lo fece,
Sherlock si ritrasse di colpo, sentendo una scarica di bruciore.
Quando
gli mise le dita davanti al volto, illuminandole con la torcia, sia Sherlock che
Nick poterono vedere che erano sporche di sangue.
Era
ferito.
« Ecco a cosa serve
il casco » gli disse il
pompiere, la voce a metà fra un’ironia amara e il rimprovero.
« Gruppo quattro, Hallam ha la caviglia bloccata da un pezzo di pietra e non
ha ancora ripreso conoscenza! ».
Si
guardarono per un attimo negli occhi, entrambi consapevoli di cosa sarebbe
successo da quel momento in poi. Sherlock scosse la testa, ma Nick questa volta
sembrò irremovibile nella sua decisione.
« Gruppo cinque, Holmes
è ferito! » disse in risposta
agli altri, per poi aggiungere: « Lewis, pensa prima ad Hallam.
C’è qualche paramedico libero che può andare da Sykes
e venire qui? » domandò, sempre a
voce alta per farsi sentire.
« Walker, vado al gruppo due! »
« Gray, sto arrivando da lei! » risposero due degli uomini,
mettendosi subito in marcia.
Sembrava
un’operazione militare e per qualche istante Sherlock si immaginò Ryder con una divisa da soldato a comandare un plotone
d’assalto in un qualche film d’azione che da piccolo gli capitava di vedere.
Sarebbe stato capace, probabilmente, considerate le abilità di comando che
aveva dimostrato per tutto il tempo in cui Holmes era stato “ospite” della
squadra di soccorso, e non faticò per nulla ad immaginarselo ad abbaiare ordini
alle reclute.
John
non guardava mai film a sfondo militaresco o riguardanti la guerra. Diceva che
non li sopportava ma la realtà, forse, era che provava nostalgia per quella
vita che era stato costretto a lasciare.
Al
solo pensiero che John, avendone la possibilità, avrebbe potuto decidere di
lasciare l’appartamento – anche se sapeva che era congedato, ma nulla gli
impediva di trovarsi una donna con cui andare a vivere... – si sentiva sempre
pervaso da una sorda irritazione.
Ma
ora, il solo dubbio che John potesse essere morto era abbastanza per
trasformare quell’irritazione in panico.
Fu
distratto nuovamente dalle parole di Ryder.
« Dennis, chiama la
superficie e aggiorna il comandante, e fai scendere di nuovo la prima squadra.
Poi raduna i ragazzi e questa volta li accompagnerai di sopra anche tu » disse, il tono
fermo di chi ha già preso una decisione e non cambierà idea. « Porterai anche
Holmes con te » disse poi.
Fermo
come lo erano i suoi occhi.
Dennis
non ribatté nulla, questa volta, limitandosi a prendere la ricetrasmittente e
gracchiare qualche parola a chi era all’ascolto. Si alzò con passo svelto, poi,
dirigendosi verso gli altri uomini nel tunnel.
Sherlock,
senza nemmeno aspettare che l’altro fosse lontano, proruppe in uno stizzito « non se ne parla
nemmeno », lapidario e
ugualmente definitivo.
« Oh, invece ne
parliamo, signor Holmes » cominciò però Ryder, fissandolo dritto negli occhi come se dovesse
saltargli alla gola da un momento all’altro.
E
molti, vedendo quello sguardo, probabilmente avrebbero giurato che gli frullasse
in testa di farlo davvero.
« Il patto valeva
finché era d’aiuto per le ricerche. Ora è ferito e ha bisogno di cure, quindi
lei si metterà sulle proprie gambe e andrà in superficie, dove i paramedici
potranno prendersi cura di lei e portarla in ospedale » disse, glaciale.
Sherlock
assottigliò gli occhi, scattando rabbioso e strappandogli la torcia di mano.
Tentò di alzarsi ma la mano di Nicholas si strinse sul colletto della casacca,
tirandolo giù di nuovo.
Nel
frattempo, il paramedico era arrivato e li guardava con tanto d’occhi.
« Dove crede di
andare?! » sbottò il vigile
del fuoco, tenendolo per la divisa ed arrivandogli con il viso ad una spanna
dal naso.
« A salvare il mio
migliore amico! » gridò a sua volta
Holmes, oramai completamente immerso in un caldo fiotto di rabbia che sapeva
anche da valvola di sfogo per l’ansia.
Doveva sapere,
sapere, sapere, sapere, sapere, sapere.
Sapere se era
ancora vivo, sapere se sperare valeva la pena, sapere che sarebbe tornato tutto
come prima.
Sapere e basta.
« Lei non va
proprio da nessuna parte se non alla stazione di Waterloo, poi all’aria aperta!
Salvarle il culo è il mio compito, signor Holmes, e su questo non discuto! Lei
è ferito! Qui sotto mi sarebbe solo d’intralcio ed io non ho tempo per lei, adesso!
Ho messo in pericolo delle vite e devo rimediare allo sbaglio, per la puttana! » ringhiò Nick,
stringendo e scuotendo Holmes per il colletto come se , anche per lui, quelle
urla fossero la valvola di sfogo per lo stress accumulato in tutte quelle ore
di ricerche senza fine.
Sherlock
non rispose, limitandosi a guardarlo, così Nicholas continuò con un ultima,
imponente imprecazione: « alzi il culo e si
levi dai piedi, Cristo Santo! » gridò.
La
galleria cadde nel silenzio. I toni della loro conversazione erano passati in
fretta ad urla da litigio.
Holmes
era riuscito ad esasperare Nicholas che, dal canto suo, era a sua volta
riuscito ad irritare Sherlock. Si guardarono entrambi negli occhi per alcuni,
interminabili istanti poi fu Ryder quello ad
abbassare lo sguardo, sospirando come per calmarsi.
« Ho capito che per
lei è importante... » cominciò poi, la
voce umana, bassa: « ...l’ho capito.
Non sarebbe qui, altrimenti. Nessuno verrebbe qui se non stesse cercando la
cosa più importante al mondo. Farei la stessa cosa per le persone a me care, e
mi è già capitato di farlo, dunque riesco benissimo a capirla. Ma lei è ferito,
signor Holmes... non posso tenerla qui un secondo di più. Non voglio rischiare
la sua incolumità, un secondo di più » gli spiegò.
Sherlock
lo guardò negli occhi e capì che era sincero. Aveva lo stesso sguardo di John
quando gli chiedeva come stava, se aveva mangiato o dormito abbastanza, se era
finalmente riuscito a resistere all’impulso di andare a comprare sigarette di
contrabbando, dato che aveva pagato tutti i tabaccai nel giro di dieci
chilometri perché non gli vendessero nemmeno un pacchetto.
John...
non poteva lasciarlo. Non poteva abbandonarlo.
Non
poteva girargli per spalle e risalire alla luce del sole, sotto il cielo mentre
John era intrappolato sottoterra, con un paramedico a curare le sue ferite
mentre John poteva anche essere ferito e non avere nessuno al suo fianco.
Chiuse
gli occhi.
John
era entrato nella sua vita senza fare rumore, con tante domande che non
avrebbero ricevuto risposta ma a cui, in fondo, non era fondamentale
rispondere.
Era
arrivato in silenzio senza portare nulla con sé, nulla di concreto, ma con
caldi sorrisi sulle labbra, e con le mani piene di luce.
La
cosa più importante... sì, forse lo era, forse non lo era. In effetti, Sherlock
faticava ormai a capire cosa fosse John, cosa fosse lui stesso, cosa fossero
entrambi e, soprattutto, cosa fossero insieme.
Però
doveva vederlo. Voleva...
Voleva
solo...
« Voglio solo
rivederlo » soffiò a voce
bassissima, smettendo di fare resistenza. « Solo rivederlo... nient’altro. Mi
basterebbe » aggiunse il
detective.
Ryder lo osservò attentamente, mordendosi il
labbro inferiore con i denti prima di decidersi a parlare.
A
dar voce alla promessa che tanti di loro erano portati a pronunciare ai parenti
delle vittime intrappolate nel fuoco, ma che raramente riuscivano a mantenere.
« Lo troverò » disse.
Sherlock
restituì lo sguardo.
« Troverò John,
signor Holmes. Non uscirò da qui finché non l’avrò trovato, dovessi cercare
tutta la notte ».
Sherlock
non era un tipo di persona che credeva nei miracoli, nelle promesse, nelle
speranze e nei sentimenti. Non credeva in niente che non fosse tangibile e
scientificamente provabile. Non credeva in ciò che conteneva le parole “per
sempre” ed “eternità” perché si sa, niente è eterno, niente dura per sempre, e
madre natura era stata la prima ad insegnargli quest’amara lezione.
Eppure,
senza accorgersene, per tutto il giorno non aveva fatto altro che rincorrere la
scia di una speranza; non aveva fatto altro che credere in un miracolo, guidato
dai sentimenti... e adesso avrebbe accettato di fidarsi di una promessa.
Annuì
in direzione di Ryder, senza aggiungere altro.
Non
una parola, non un consiglio, non una lamentela.
Aveva
l’impressione di abbandonare John in piedi sull’orlo di un dirupo, oppure nel
centro di una tempesta. Era come gettare la spugna. Si sentiva un traditore ma
in tutto quel disagio che all’improvviso gli era esploso in un punto indefinito
fra lo stomaco ed il petto, prendeva posto la consapevolezza che non c’era più
nulla che potesse fare, in quel luogo.
E,
piccola piccola, in un angolo, vi faceva nido anche
la sensazione che in realtà non desiderasse affatto vedere il cadavere di John
abbandonato sul fondo di una carrozza della metropolitana, coperto di sangue e
con gli arti disarticolati, gli occhi aperti e fra le labbra una frase ancora
non pronunciata.
“Mi hai
abbandonato”.
No...
non sarebbe riuscito a farlo.
Per un istante, si
vide nuovamente davanti al tavolo in metallo dell’obitorio del Bart’s, John steso davanti a lui ed un bisturi tagliente
fra le mani coperte da guanti di lattice.
Aiutato
dal paramedico, Sherlock si alzò da terra. In poco tempo tutto il gruppo di
soccorritori fu pronto a ritornare in superficie e lui, sempre sorretto da
qualcuno a causa di una ferita alla testa che sembrava non voler far altro se
non sanguinare copiosamente, si allontanò a passo lento insieme a tutti quelli
che avrebbero rivisto il mondo esterno nel giro di una ventina di minuti.
Nicholas
Ryder, osservandolo allontanarsi, si diede
dell’imbecille.
E
si chiese cos’avrebbe detto all’unico consultive detective del mondo nel
malaugurato caso che John Watson fosse morto. O peggio.
Nel
malaugurato caso in cui di lui non ci fosse la minima traccia.
• Waterloo
Station, h. 20:00 pm
Gregory
Lestrade era seduto sul sedile del passeggero di una volante della polizia, con
una tazza di tè fra le mani e sul cruscotto un panino mezzo sbocconcellato rimastogli
sullo stomaco già dopo il primo morso.
Il
fatto di essere in manica di camicia non lo aiutava a ripararsi dal freddo
improvvisamente sceso con il calare del sole; tuttavia, la forza di alzarsi e
coprirsi l’aveva lasciata chissà dove, nelle ultime ore, e non sembrava avere
la minima intenzione di ritrovarla.
Era
preoccupato. Una volta terminate le indagini, e rimandato la stesura del
rapporto a tempi migliori, era rimasto lì a dare una mano per tutto il tempo.
Portava
su cadaveri, per lo più. Dentro sacchi neri di plastica.
Era
abituato, dopotutto, a vedere persone morte. Ne ricostruiva persino la vita, di
solito, essendo capo della squadra omicidi e responsabile di qualsivoglia scena
del crimine che ricadeva nella sua area di competenza. La morte lo aveva sempre
salutato con gesto amichevole quando si incrociavano per strada, e lui le aveva
sempre risposto con rispetto senza nemmeno preoccuparsi di temerla.
Ma
quel giorno... beh, era diverso.
C’era
in ballo la vita di John Watson. Una situazione che non si era mai trovato ad
affrontare, quella di guardare il cadavere di una persona conosciuta, di un
proprio amico.
Non
aveva la minima idea di come ci si potesse sentire, anche se non si immaginava
nulla di piacevole.
Aveva
ancora negli occhi l’espressione di Sherlock quando era venuto a conoscenza del
fatto che John fosse coinvolto, la sua voce che chiamava il suo nome, ed era
convinto di potersela sognare di notte riuscendo persino a trasformarla in un
incubo. Era indubbio che l’avvenimento avesse coinvolto il consultive detective
ad un livello molto profondo, forse talmente tanto che nemmeno Sherlock stesso
sapeva definirne la profondità.
Sherlock
Holmes, da quel momento in poi, aveva subito una trasfigurazione: era diventato
un essere umano.
Se
la situazione non fosse stata quella,
probabilmente Lestrade si sarebbe messo a ridere.
Stava
giusto pensando di alzarsi ed andare ad impegnare nuovamente le mani – di nuovo
trasportando cadaveri su per le scale, dato che sembrava l’unico modo in cui
potesse essere utile a qualcosa – quando vide avvicinarsi il comandante dei
vigili del fuoco. In quelle ore avevano avuto rapporti molto più umani ed erano
riusciti anche ad andare d’accordo.
« La squadra di
soccorso ha avuto dei problemi, là sotto » gli disse subito e senza mezzi termini,
quando ancora non era arrivato davanti a lui: « c’è stato un crollo. Il suo amico
sta tornando in superficie ».
Greg
lo guardò in silenzio per un istante, le sopracciglia sollevate in
un’espressione sorpresa. « Feriti? » domandò poi.
« Un paio » rispose quello,
passandosi una mano sugli occhi con un sospiro stanco. « Ho rimandato giù
la prima squadra, ma stanno per finire. L’ultimo vagone, ispettore Lestrade...
per quelli successivi non possiamo più fare niente » aggiunse, la voce
grave di chi sente avvicinarsi l’agognato momento del ritorno a casa.
Greg
annuì. Il fatto che non avesse visto il cadavere di John poteva essere una
buona notizia, no?
No,
probabilmente. Voleva semplicemente dire che non lo avevano ancora trovato. Ed
ora che l’uomo gli aveva riferito dell’imminente fine delle operazioni per
impossibilità di proseguire oltre – impossibilità fisica, materiale, tangibile
come lo era la tazza di cartone ancora fra le sue mani – la sensazione che
sarebbe stato meglio trasportare in superficie il suo cadavere, piuttosto che
toglierlo successivamente dai rottami pezzo per pezzo, gli sembrava una
soluzione più sopportabile.
Lestrade
ringraziò, osservandolo allontanarsi prima di alzarsi dal sedile ed avvicinarsi
all’entrata della stazione, rimanendo in attesa di vedere comparire gli uomini
di ritorno dal tunnel. Quando finalmente il gruppo comparve, e vide Sherlock
pieno di polvere e con una linea di sangue rosso a macchiargli la pelle nivea
del volto, gli si strinse lo stomaco.
Non
solo perché era ferito, ma anche perché era da solo.
Gli
si avvicinò in tre falcate, appoggiandogli le mani sulle spalle senza sapere
cosa dire. A sua volta, nemmeno Holmes proferì parola.
« Vieni, fatti dare
un’occhiata da un medico... » riuscì poi a borbottare Lestrade, esausto e
letteralmente divorato dall’ansia, prendendolo per un braccio e portandolo
verso una delle ambulanze posteggiate a poca distanza.
Il
detective si fece guidare senza opporre nessuna resistenza.
Greg
si rendeva dolorosamente conto che anche Sherlock, nonostante non lo desse a
vedere come avrebbe fatto una persona normale, era arrivato ad un punto di
sopportazione molto distante dai suoi soliti standard. Anzi, dopo sei anni di
conoscenza era anche convinto del fatto che, se quella fosse stata una
situazione che avesse potuto affrontare
oggettivamente, si sarebbe già messo all’opera per trovarvi soluzione – e,
implicitamente, risparmiare a tutti loro una tortura psicologica gratuita.
Ma
John era disperso in un incidente ferroviario il cui colpevole era deceduto
suicida. Sherlock non aveva nessuno con cui prendersela, niente su cui sfogare
frustrazione ed attesa e così, viaggiando al limitare del suo carattere tutto
strano e particolare, si limitava a rimanere in silenzio.
Non
credeva che lo avrebbe mai pensato, ma lo preferiva quando era il solito,
logorroico sapientone rompiscatole.
Vedendoli
arrivare, uno dei paramedici assegnati all’ambulanza – e che sembrava
approfittare di un momento di pausa per rifocillarsi con un veloce tramezzino –
posò il minuto pasto e si preparò a riceverli.
Sherlock
si sedette sul retro del veicolo mentre l’infermiere, rovesciando il contenuto
di una bottiglietta d’acqua su di un asciugamano, cominciò a pulirgli viso e fronte
dallo sporco per poter lavorare meglio sulla ferita alla testa. Sherlock
assunse un’espressione scocciata ma l’occhiataccia che gli scoccò Lestrade – un
muto “non ci provare nemmeno e fagli fare il suo
lavoro” – gli impedì di rifiutare l’aiuto.
« È strano vederti
in camicia, Lestrade » disse allora
Holmes.
Greg
fece spallucce. « Ho dato una mano » si limitò a dire
come spiegazione.
Calò
di nuovo il silenzio.
C’erano
cose di cui avrebbero dovuto parlare ma che non avevano il fegato nemmeno di
pensare, così come tutte le cose di cui avevano il coraggio di parlare
sembravano altamente fuori luogo, in quel posto.
Il
risultato era solo il continuare soffuso del silenzio.
« Signore, lei
dovrebbe andare in ospedale, questa ferita ha bisogno di qualche punto » intervenne poi il
medico, disinfettando la ferita di Sherlock con l’aiuto di un pezzo di cotone
idrofilo.
« Ci andrò dopo » rispose subito
Sherlock.
« Ma signore... ! »
« Ho detto che ci
andrò dopo! » ribatté di nuovo
il detective con voce seccata: « ci metta un dannato cerotto e non rompa » aggiunse poi,
suonando lapidario. Lestrade, questa volta, non intervenne in nessun modo.
Quello
sospirò, limitandosi ad annuire ed a bendargli la testa. Sherlock non si era
risparmiato da dire che gli sembrava una cosa inutile, ma la benda teneva ferma
la garza sulla ferita, evitandole di riprendere a sanguinare, ed il paramedico
non scese a compromessi di nessun tipo.
Non
parlarono di John. Nemmeno una parola.
Lestrade
aveva intuito tutto dal comportamento di Sherlock, ed Holmes semplicemente
riteneva di non essere in grado di affrontare il discorso con nessuno,
tantomeno con Greg.
Quindi
rimasero lì, seduti nel retro di un’ambulanza a fissare la stazione di
Waterloo, senza poter far altro se non aspettare.
Ancora.
• The Tube;
Waterloo > Enbankment (Rescue Team), h. 23:30 pm
Nicholas
Ryder aveva una laurea in ingegneria navale ma era
innamorato della divisa da vigile del fuoco, ottenuta dopo mesi di
addestramento e che indossava con l’onore di un vero uomo.
Eppure,
ogni tanto, gli veniva in mente il pensiero che se si fosse effettivamente
messo a fare l’ingegnere navale, probabilmente sarebbe stato meglio. Uno di
quei momenti, caso strano, era, per esempio, quando passava nove ore sottoterra
in un tunnel a moderato rischio frane.
Molti
dei suoi uomini gli avevano consigliato di uscire a prendere una boccata
d’aria, magari anche solo un’ora per disintossicarsi da tutta quella polvere e
quella sensazione claustrofobica, ma lui aveva rifiutato ogni volta, portando
al limite sia le sue capacità fisiche che quelle mentali.
Era
esausto e non lo nascondeva. Ma era un uomo tutto d’un pezzo, di quelli che si
faticava a trovarli in tempi come quelli, e non nascondeva nemmeno quello.
Dopo
più di due ore utilizzate per rimuovere i detriti della frana, finalmente
avevano un punto chiaro della situazione: il vagone che avevano tentato di
spostare non era crollato del tutto, ma aveva liberato una parte sufficiente
per poter penetrare all’interno attraverso un buco praticato con la sega
circolare. Erano anche riusciti a capire che all’interno, miracolosamente, vi
erano tre persone vive, tra le quali due coscienti e una svenuta e ferita.
Ed
ora Nick, in piedi ad osservare la sega terminare di disegnare un riquadro
abbastanza grande per lasciarli entrare, sperava ardentemente di non
trasformarsi in un bugiardo, e che all’interno di quel vagone una delle tre
persone ancora in vita rispondesse al nome di John Watson.
Terminando
il proprio compito, la sega bucò il soffitto. Una volta entrato, un giovane
soldato ed una bambina lo accolsero con sorrisi stanchi ma pieni di gioia,
indicandogli subito un terzo uomo a terra privo di sensi ma ancora in vita.
Mentre
i suoi colleghi portavano in salvo il ferito e la bambina, Ryder
si avvicinò al soldato, chiedendogli i loro nomi.
Quando
il giovane pronunciò il nome del dottor John Watson, indicandoglielo nell’uomo
che era ormai assicurato ad una barella e con una mascherina d’ossigeno sul
volto, Nicholas non poté fare a meno di far nascere un sorriso soddisfatto e
felice sul proprio volto.
Ma
il giovane soldato, presentatosi come Edward Miller, non si limitò a quello.
Senza smettere di parlare, cominciò a raccontargli le loro ore dentro quella
carrozza, con dovizia di particolari e un’ammirazione latente per l’uomo
incosciente che stavano trasportando urgentemente fuori da quel posto.
Nick
Ryder ascoltò quel soldato a bocca aperta, stupito, dimenticandosi
persino di sostituire quel patchwork di camicie e magliette sporche e
maleodoranti con una benda medica fatta come Dio comandava.
Ascoltava
la storia di un ex medico militare che aveva fatto di tutto per salvare tre
persone (e che tutt'ora stava rischiando la vita), e di riflesso collegò quel
racconto al detective che aveva avuto al fianco per tutto il giorno, suo
inaspettato compagno nello stomaco della terra.
Non
appena fosse tutto finito... non appena i superstiti fossero stati smistati tutti
negli ospedali, i cadaveri rimossi, le macerie trasportate altrove e le tende
smontate, sarebbe tornato da sua moglie.
Le
avrebbe detto "ti amo", l'avrebbe abbracciata forte, avrebbe
appoggiato l'orecchio sulla sua pancia ancora piatta immaginandosi il cuore
pulsante della creatura che vi cresceva all'interno.
Poi,
guardando la sua donna negli occhi, avrebbe speso le ore successive a
raccontarle una storia.
E
a spiegarle perché loro figlio si sarebbe chiamato John Sherlock Ryder.
• London; 00:00 ~ March the 4th
Il
Big Ben, imponentemente stagliato sulle acque placide del Tamigi, rintoccò
cautamente la mezzanotte di un nuovo giorno di marzo, facendo sentire la sua
voce tonante nel cielo stellato che sovrastava Londra.
Al
piano terra del 221B di Baker Street, mrs. Hudson
stava seduta inquieta sulla sua poltrona, non sapendo se doveva o meno
aspettare notizie da entrambi i suoi coinquilini, ancora fuori casa da quella
mattina.
In
camicia da notte e vestaglia di lana rosa, osservava con sguardo preoccupato il
televisore, sintonizzato su un’edizione speciale del telegiornale. Era tutto il
giorno che uomini a mezzobusto interrompevano le soap opera che guardava
abitualmente con aggiornamenti sull’incidente alla metropolitana, e tutte le
volte che vedeva inquadrata la stazione di Waterloo una strana sensazione le
prendeva al petto, facendola sospirare.
Aveva
la sua età, ma ricordava perfettamente cosa voleva dire avere un presentimento
nelle ossa.
Aveva
sperato di sbagliarsi. Ma quando squillò il telefono, seppe che il suo istinto,
come al solito, aveva previsto tutto.
Era
successo qualcosa.
Si
sa, il telefono suona sempre nei momenti meno opportuni.
Nel
suo caso specifico, mentre era sotto la doccia.
Afferrando
un asciugamano e sporgendosi oltre l’anta in plastica opaca, Harriett Watson agguantò il cellulare imprecando a denti
stretti contro le persone che chiamavano ad orari assurdi ed in situazioni
sconvenienti. Irritazione che aumentò quando non riconobbe il numero sul
display.
Mise
fine alla suoneria con uno sbuffo, piazzandosi il telefono all’orecchio senza
considerazione per i propri capelli bagnati. « Chi è? » sbottò seccata,
rimanendo poi attentamente in ascolto.
La
sua espressione variò dalla rabbia all’incredulità, poi dall’incredulità alla
preoccupazione, infinte dalla preoccupazione alla risolutezza.
« Arrivo subito » disse, chiudendo
la telefonata e l’acqua della doccia contemporaneamente, asciugandosi alla bene
e meglio ed uscendo di corsa dal bagno.
Dalla
poltrona davanti al caminetto del Diogenes Club, Mycroft Holmes osservò di sottecchi l’orologio a pendola
poco distante emettere i cupi rintocchi del cambio di giorno. Rintocchi che
furono subito sostituiti dall’eco di veloci passi sul pavimento di marmo della Strangers Room.
Una
delle sue guardie si avvicinò, chinandosi verso di lui e sussurrandogli
qualcosa all’orecchio. Mycroft annuì, congedando
l’uomo in completo scuro con un cenno della mano.
Con
dita lente ma abili estrasse dalla tasca interna della giacca grigia il
cellulare, componendo velocemente un numero che sapeva a memoria ed avviando la
chiamata.
Quando
Sherlock Holmes alzò lo sguardo incrociando quello stanco ed esausto di
Nicholas Ryder, l’intero mondo sembrò rallentare e
fermarsi.
Non
servirono cenni, urla o parole. Non servirono spiegazioni, né movimenti
inconsulti: Sherlock non si mosse dal retro dell’ambulanza su cui era ancora
seduto, mentre Nicholas non fece nemmeno un passo oltre la scalinata della
stazione di Waterloo.
Si
guardarono, punto. Sherlock con tante domande, Nick con una sola risposta.
Da
lontano, in mezzo al via vai di gente che scalpitava accanto alla squadra di
soccorso appena risalita dalle viscere della Terra, Holmes vide Nick annuire
con il capo... e sorridergli.
Un
solo cenno, un solo sì.
Un solo
significato.
Come
se fosse dotato di nuova forza, il consulting detective scattò subito in piedi,
seminando un Lestrade sorridente ed intento a ringraziare mentalmente un Dio in
cui stentava a credere, per un lieto fine in cui aveva codardamente smesso di
sperare.
Vide
da lontano Sherlock chinarsi su di una barella appena fatta arrivare,
accarezzare con una delicatezza di cui non lo credeva capace i capelli di un
John incosciente; lo vide osservarlo con occhi pieni di preoccupazione e
felicità mescolate insieme, guardarlo come se fosse una cosa preziosa che
sembrava perduta e poi improvvisamente ritrovata.
Non
aveva occhi che per John. Non aveva voce che per John. Non aveva cuore che per
John.
Il
sorriso gli si addolcì quando Sherlock posò la fronte su quella del dottore,
socchiudendo gli occhi. Muoveva le labbra, sembrava sussurrargli qualcosa... ma
Greg era troppo lontano, e non si sarebbe nemmeno avvicinato per rispetto di
quella scena rincuorante e allo stesso tempo intima, privata, un pezzo di vita
solamente loro che condividevano con i presenti solo per puro caso.
Si
sentì quasi in imbarazzo, guardandoli. E, seguendo quel sentimento, distolse
semplicemente lo sguardo.
Giusto
in tempo, dato che il telefono nella tasca dei suoi pantaloni prese a suonare.
Non
si sorprese di leggerne il nome sul display. Era ovvio che sapesse già tutto.
« Signor Holmes » rispose Gregory,
la voce notevolmente più rilassata, il tono meno gravato se non dalla
stanchezza che quella giornata gli aveva provocato.
Dall’altra
parte, una voce morbida pronunciò un elegante: « Ispettore Lestrade » come saluto in risposta.
Un
attimo di silenzio, poi la farsa con cui solevano salutarsi ogni volta che si
sentivano scivolò piano dalle loro labbra, finendo nel nulla.
« L’hanno trovato, Mycroft ».
« Lo so, Greg. Sherlock? ».
Lestarde lo guardò di nuovo da lontano mentre,
senza staccare gli occhi da John, annuiva ai paramedici seguendo la barella
sull’ambulanza che li avrebbe portati entrambi all’ospedale.
« È con John,
stanno salendo su un’ambulanza » riferì, palesemente sollevato.
Dall’altra
parte, però, Mycroft non lo sembrava altrettanto.
Greg
mangiò la foglia. « Cosa c’è? » domandò, il tono
di voce del poliziotto pronto a ricevere brutte notizie.
Un
sospiro, prima che l’altro si decidesse a prendere parola.
« Non è... è grave, Greg. Ho dato disposizioni
precise perché venisse portato al Royal London
Hospital(4) e ho mandato
alcuni dei miei uomini a svegliare i più bravi chirurghi del Regno. Tuttavia
non so se... » lasciò cadere, ma
a Greg non serviva veramente che continuasse la frase.
Aveva
già capito. Dal momento in cui aveva visto il lievissimo sorriso sulle labbra
di Sherlock sparire, aveva già capito.
Aveva
capito che non era ancora finita.
Si
limitò a sospirare, chiudendo gli occhi sulle luci blu dell’ambulanza che
partiva a sirene spiegate. « A noi cosa resta da fare, Mycroft?
Cosa? » domandò.
Dall’altra
parte, poté quasi immaginare le labbra sottili del maggiore degli Holmes
inclinarsi in un sorriso amaro.
« Respirare » disse: « tutto ciò che possiamo fare, è continuare a
respirare ».
~ To be continued...
______________________________________________________________________________________________________
1.
Riferito a "The Hound of
Baskerville", puntata 2x02.
2.
Informazioni prese da Wikipedia (e da qualche film
;D). Lo Stafilococco Aureo è un batterio abbastanza comune, fonte di infezioni
- solitamente cutanee - che causano irritazioni fatte di macchioline rosse. Se
il batterio penetra in una ferita, però, può causare altri tipi d'infezione,
sicuramente più gravi, fra cui la Setticemia (o Sepsi) che cita John.
La
Setticemia è un'infezione batterica del sangue. Se non curata in tempo può
causare quella che è la Sindrome da Disfunzione Multiorgano
(o MODS: Multiple Organ
Dysfunction Syndrome).
Dopo di che c'è la morte.
3.
Il massaggio cardiaco segue delle proporzioni fra compressioni e insufflazioni
(per dirla come mangiamo: fra soffi e quante volte premiamo il torace). Le
vecchie manovre prevedevano una proporzione di 15:2 (15 compressioni, 2
insufflazioni), ma secondo il BSL Laico ("Basic Life Support", approvato dal Cosiglio Europeo come manovra standard di primo soccorso)
le proporzioni cambiano a seconda del numero di persone che mette in atto la
manovra: per una persona sola si usa un ritmo di 30:2, per due persone si passa
ad un più veloce 5:1.
Aggiungo,
per essere precisa fino in fondo, che fare un massaggio cardiaco è tutt'altro
che una passeggiata. Tant'è che il soccorritore può anche smettere di rianimare
una persona - senza incorrere nel reato di omissione di soccorso - in caso di
sfinimento.
4.
Inizialmente avevo scritto che Mycroft aveva fatto
mandare John al Barts, ma poi ho scoperto qualcosa di
interessante.
Il
Barts (alias “St. Bartholomew’s
Hospital”) fu al centro di un’ingiunzione di chiusura nel 1993, perché il
Governo britannico riteneva che gli ospedali in centro a Londra fossero troppi.
Fu aperta una campagna per evitarne la chiusura (il Barts
è l’ospedale più vecchio di Londra, fondato nel 1702, e fu il primo ospedale
pediatrico d’Inghilterra; mica brustoline!) che andò
a buon fine, ma nel 1995 gli venne tolto il Pronto soccorso (Accident and Emergency Department) che venne trasferito nel vicino Royal London Hospital (il Royal
London ed il Barts fanno parte della stessa
associazione sanitaria, tipo, chiamata “Barts and the
London NHS Trust”). Comunque il Barts rimane un
ospedale di primo livello, più che altro votato alla ricerca e alla cura del
cancro e dei disturbi cardiaci.