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Autore: Shomer    26/03/2012    3 recensioni
Demetrio e Nadia sono amici da tanto tempo e hanno ingenuamente pensato che niente e nessuno potesse dividerli. Allora cos’è successo? Perché sono arrivati a questo punto? Dove hanno sbagliato?
A tre anni da allora posso affermare con certezza che se fossi stata meno egoista e più coraggiosa probabilmente avremmo sofferto di meno, ma posso dire con altrettanta sicurezza che se ti avessi ascoltato e se avessi aperto gli occhi, se non avessi infranto le regole e se neanche tu le avessi infrante, sicuramente sarebbe finita allo stesso modo.
Questa storia si è classificata prima e ha vinto i premi giuria, miglior personaggio femminile, pairing e stile al contest "Love (never) fails - quando anche Cupido sbaglia" di Flaren97.
Seconda classificata al contest "Le sfumature del dolore" di phoenix_esmeralda.
[REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo tre


Non capisci quando cerco in una sera un mistero d'atmosfera che è difficile afferrare.
Quando rido senza muovere il mio viso, quando piango senza un grido, quando invece vorrei urlare.
Quando sogno dietro a frasi di canzoni, dietro a libri e ad aquiloni, dietro a ciò che non sarà.
Vedi cara, è difficile spiegare, è difficile capire se non hai capito già.

Vedi cara – Francesco Guccini



 


La mole di lavoro del pub si era praticamente triplicata, quel sabato sera: i clienti avevano cominciato ad andar via verso le quattro del mattino, merito anche della musica dal vivo e della birra a metà prezzo, e io ero rimasta con gli altri ragazzi a pulire il locale fino alle sei. Dopo aver fatto colazione in un bar lì vicino avevo deciso di tornare a casa, con il sole ormai alto nel cielo e la lancetta dell’orologio pericolosamente vicina alle nove.
Dopo l’incidente del mercoledì precedente avevo deciso di tagliare qualsiasi contatto fisico con te. Stavo attenta a sedermi sempre al lato opposto del divano, non prendevo niente dalla credenza quando anche tu eri intento a cercare qualcosa, non ti passavo accanto e se proprio non riuscivo ad evitare tutte queste cose, ti chiedevo gentilmente di spostarti. Tu ovviamente te ne eri accorto e non avevi nessuna intenzione di continuare a farmi assumere quell’atteggiamento, per cui ti fermavi accanto a me di proposito sfiorandomi il gomito, mi spingevi quando ero davanti a te in corridoio, delicatamente, facendomi rabbrividire, mi toccavi i capelli rigirandoti le ciocche tra le dita, mi sfioravi prendendomi il telecomando dalle mani.
I tuoi atteggiamenti potevano certo essere facilmente fraintendibili, se qualcun altro al posto tuo si fosse comportato in quel modo avrei sicuramente pensato che avesse un qualche tipo di interesse verso di me, ma non tu. Tu lo facevi per puro spirito di contraddizione, per il gusto di ostacolarmi, per quel piacere perverso che provavi nel vedermi in difficoltà. I tuoi modi di esprimere interesse non erano certo quelli: erano molto più sottili ed enigmatici, fatti di frasi buttate lì apparentemente per caso, di occhiate di traverso e sorrisi storti. Io non riuscivo a capirlo, non riuscivo nemmeno ad immaginarlo, non avrei mai potuto pensare che il tuo interesse verso di me andasse oltre l’amicizia, oltre l’amore fraterno. Non riuscivo ancora a comprendere i miei sentimenti e quello che provavo per te all’epoca era una grande incognita, un punto interrogativo immerso in un mare di pensieri sconnessi; ancora più grande era, però, l’enigma che riguardava te e i tuoi sentimenti. Sapevo che quel mercoledì avresti voluto baciarmi, ma non mi spiegavo il motivo. Sapevo che se io non avessi detto nulla tu l’avresti fatto e sapevo che a quel punto le cose non sarebbero mai tornate come prima. E io non potevo fare a meno di te. Eri la costante e il pilastro della mia vita e senza di te sarei stata persa.
Per questo rischiai di svenire quando entrai in casa, quella domenica mattina.
Lei aveva i capelli biondi, quasi sul rossiccio, che le cadevano come spaghetti sulla schiena coperta da una maglietta che doveva essere tua, aveva le gambe lunghe e affusolate e nel complesso tutta la sua figura era delicata e armoniosa, perfino mentre armeggiava con la macchinetta del caffè. Anche se non si era ancora girata, avrei potuto giurare che avesse gli occhi chiari. Io invece li ho castani. E ho anche i capelli castani, e sono una via di mezzo fra mossi e ricci, con boccoli grandi e poco definiti lunghi fino al seno, e in quel momento dovevo sembrare un leone perché avevo lavorato tutta la notte.
Mi bloccai a fissarla. Rimasi immobile per un attimo interminabile, senza riuscire a fare nulla a parte farmi cadere la borsa per terra. Sentii un calore al livello della pancia, come se tutti i miei organi stessero cominciando a bruciare, e piano piano quel calore saliva fino ad arrivare al petto, al collo, alle guancie. Mi sentivo come se mi avessero tagliato un braccio. La mia reazione era del tutto insensata.
Tolto te, io mi annullavo. E il fatto che tu ti vedessi con qualcuna e che l’avessi portata in casa nostra mi turbava a tal punto che, se fossi stata più coraggiosa e meno orgogliosa, sarei venuta dritta nella tua stanza a chiederti che diavolo ti fosse saltato in testa, che cosa credevi di fare, a dirti che non era così che doveva andare, anche se in realtà non sapevo come dovesse andare. Stavo quasi vibrando di rabbia quando lei si girò sobbalzando per il rumore della borsa che mi era caduta e quando vidi i suoi occhi, ovviamente chiari, lo capii: tu non eri mio.
«Ciao» disse, e la sua voce limpida e melodiosa perforò le mie orecchie come un trapano. «Tu sei... abiti qui?»
«Esatto» dissi, noncurante del tono scontroso che assunsi. «Tu chi sei?»
Si morse il labbro inferiore. «Io sono...» cominciò, esitante. L’avevo messa in difficoltà e per questo mi ritrovai a sorridere. Tu non mettevi mai in chiaro le cose. Nessuna sapeva che cos’era lei per te e cosa tu fossi per lei. Non ti sbilanciavi troppo con le parole, non facevi false promesse né affermazioni compromettenti, facevi solo intendere che tu eri libero e tale saresti rimasto, senza vincoli né etichette. Non le prendevi per mano e non telefonavi per sapere se fossero arrivate a casa, non rimanevi a dormire, ma non ti importava se loro a casa tua ci rimanevano. Solitamente le sceglievi come te: acide e meschine, bellissime e arroganti, egocentriche e presuntuose, per dimostrare a te stesso che potevi avere sempre la meglio su di loro. Lei però era dolce. Lo capii quando la vidi arrossire furiosamente. «Sono un’amica di Demetrio» concluse, guardandosi i piedi nudi.
«Una sua amica» ripetei, cominciando a gironzolare nella stanza nell’infantile tentativo di farla sentire un’intrusa e metterla a disagio e alla fine mi appoggiai al tavolo accendendomi una sigaretta. Lei mi guardava visibilmente imbarazzata, come se volesse essere ovunque, ma non lì in quella stanza con me, la coinquilina e forse chissà cos’altro del ragazzo con cui aveva passato la notte.
«Come ti chiami?» chiesi, anche se non m’importava. L’unica cosa che mi interessava sapere era perché tu ti fossi portato a casa una ragazza che sembrava quasi un angelo talmente era bella, talmente era dolce. Mi interessava sapere perché per una volta non avevi rispettato i tuoi standard, perché avevi scelto una ragazza diversa, una ragazza con cui, mi ritrovai a temere, avresti potuto passare più che una semplice notte.
«Mi chiamo Marlene» disse. Anche il suo nome era dolce e melodioso. Avrei tanto voluto odiarla, ma sapevo che non ci sarei riuscita perché neanche la conoscevo, perché non sembrava presuntuosa né arrogante né stronza né meschina, perciò mi ritrovai ad odiare te, con tutte le mie forze, perché sapevi che io l’avrei vista e avrei sofferto, perché l’avevi portata in casa nostra col solo scopo di farmi del male.
«Tu...» continuò, imbarazzata. «Sei solo la sua coinquilina oppure…»
«E’ solo la mia coinquilina.»
La tua voce così fredda mi fece sussultare e mi voltai di scatto, trovandoti in piedi alla porta della cucina perfettamente vestito. Mi fissavi con un sopracciglio alzato, sicuramente chiedendoti che cosa diavolo stessi facendo, quasi come se fossi io l’intrusa e non lei, e a quel punto fui io a sentirmi tremendamente a disagio e imbarazzata. Lei invece era ritornata visibilmente tranquilla e aveva accennato un sorriso a cui non facesti caso, troppo occupato a scrutarmi torvo.
«Ti stava dando fastidio?» le chiedesti, senza smettere di fissarmi. «Nadia prova un gusto quasi sadico nel mettere in imbarazzo le persone che non conosce.»
Lei scosse la testa e provò a ribattere, ma io fui più veloce. «Non ho fatto niente» risposi. «Ci siamo solo presentate.»
«Lo spero» dicesti, girandoti verso di lei. «Lascia perdere il caffè. Vestiti, andiamo a fare colazione fuori.»
Lei annuì, mi fece un cenno timido con la testa e si diresse verso la tua stanza. Tu mi lanciasti un’altra occhiata che sembrò quasi una coltellata e te ne andasti.
Non le portavi mai a fare colazione fuori.



Ti rividi quella sera stessa, di fronte al portone del nostro palazzo. Io arrivavo da destra e tu da sinistra, io tornavo da una passeggiata e tu da chissà dove. Non avevo voglia di vederti né tantomeno di parlarti, perciò ti feci un cenno col capo ed entrai, pensando che non appena fossi arrivata al nostro piano mi sarei chiusa in camera per non uscire fino alla mattina successiva.
Cominciai a salire le scale precedendoti, ascoltando i tuoi sbuffi contrariati, finché non perdesti la pazienza. Dopo la prima rampa di scale dovevi esserti stancato del mio silenzio, perciò mi trattenesti per un braccio costringendomi a voltarmi.
«Non essere ridicola, Nadia» dicesti, penetrandomi con lo sguardo.
«Che ho fatto, stavolta?» ti chiesi, con un tono di voce piatto e apatico, forse perfino un po’ seccato.
«Cerchi di ignorarmi» spiegasti, con una semplicità e una tranquillità tali da sconvolgermi. «Ma dovresti affinare di più la tecnica. Se arrossisci o rabbrividisci quando ti tocco non dai proprio l’idea di una pronta a fare a meno di me.»
Trasalii. Con uno strattone mi liberai dalla tua stretta e continuai a salire le scale, finchè non arrivai di fronte alla porta di casa. «Sei squallido» dissi, aprendola con un giro di chiave.
Tu scoppiasti a ridere. Ti richiudesti la porta alle spalle e mi seguisti nella mia stanza, chiudendo dietro di te anche quella porta, in modo da non farmi scappare. Come al solito, se tu decidevi che dovevo parlarti, allora io ti dovevo parlare.
«Vattene» dissi, provocando di nuovo uno scoppio di risa.
«Me ne andrò quando mi dirai cosa ti ho fatto.»
«Non mi hai fatto niente» dissi evitando accuratamente di guardarti.
«Non prendermi in giro, Nadia» rispondesti, avvicinandoti a me e prendendomi il mento con le mani in quel modo odioso e prepotente, che mi faceva venir voglia mandarti al diavolo. «E’ da giorni che cerchi di comportarti come se non esistessi. E stamattina ti trovo pure a cercare di intimidire quella ragazza.»
«Non stavo cercando di intimidire proprio nessuno» borbottai, allontanandomi da te «Mercoledì mi hai quasi baciata.»
«Vuoi aprire il discorso mercoledì
Ti girasti improvvisamente a guardarmi, con un sorriso ironico che non mi piacque per niente. Io trasalii all’improvviso, rendendomi conto di aver appena aperto quel discorso. Mi feci coraggio e continuai a sostenere il tuo sguardo che si faceva sempre più pesante e insistente. «Sì, lo voglio aprire.» dissi.
«Mercoledì non è successo niente» rispondesti, freddo come il ghiaccio. «Forse sei tu che fantastichi troppo.»
Cercai di non scompormi troppo per le tue parole che, sapevo bene, erano state dette col solo scopo di ferirmi, come ogni cosa che avevi detto o fatto da quando ero tornata a casa. Mi domandai quando avresti smesso di punirmi per qualcosa a cui non potevo porre rimedio.
«Mi hai quasi baciata.» ripetei guardandoti negli occhi.
Il tuo viso rimase immobile, non sorridesti né facesti qualsiasi altra espressione. «E allora?» dicesti, con noncuranza. «Ti ho quasi baciata. Non verrai a dirmi che te la sei presa?»
Inarcasti la bocca in un lieve sorriso evidentemente sarcastico e io cominciai a sentire il sangue affiorare in viso e ribollirmi nelle vene. «Non me la sono presa» risposi, il più altezzosamente possibile «Ti sto solo chiedendo perché.»
«Non c’è nessun perché» dicesti, mentre il sorriso diventava sempre più evidente sul tuo volto. «Non tutte le azioni hanno una motivazione di fondo. A volte le persone fanno le cose semplicemente perché vogliono farle, senza motivo. Non è il mio caso, ovviamente: io mercoledì non ho fatto niente. Hai frainteso tutto.»
Non dissi niente e abbassai lo sguardo, punta sul vivo. Sapevamo entrambi che stavi mentendo e che ti facevi forte del fatto che io non avevo il coraggio di risponderti.
Mi appoggiai alla scrivania e presi una sigaretta dal pacchetto che avevo in tasca e tu mi imitasti. Tacevi e ti concentravi nell’ispirare e nell’espirare come non avevi mai fatto. Ogni tanto mi giravo a guardarti, ma tu fissavi il muro di fronte a te e non ti voltasti mai, neanche una volta. Quando finisti la sigaretta facesti per andartene, ma io non potevo accettare che la conversazione rimanesse così, sospesa, senza una conclusione.
«Spero che questo non cambi nulla» mormorai.
«Ovviamente» rispondesti. «Come non ha cambiato niente il tuo atteggiamento di stamattina, o il fatto che sei scappata di punto in bianco senza ascoltarmi, o ancora il fatto che tu stessi con il mio migliore amico.»
«Cosa c’entra lui adesso?» chiesi. «Stiamo parlando di me e te.»
«Non c’è niente da dire su me e te.»
Ti stringesti nel cappotto che avevi ancora indosso, girasti i tacchi e varcasti la porta della mia stanza, mentre io ti trotterellavo dietro come un cagnolino scodinzolante. Entrasti in cucina e ti seguii, chiedendoti se per favore potevi spiegarmi il significato di quell’affermazione. Non dicesti una parola e continuasti a camminare. Senza troppe cerimonie ti afferrai un braccio, costringendoti a fermarti.
All’epoca non avevo capito niente di te. Ancora oggi molto tuoi atteggiamenti sono per me totalmente estranei, ma almeno so che tu, come tutti, sei fragile. E vorrei potermi comportare di conseguenza, magari rimediando agli sbagli che ho fatto in passato. Prima ti vedevo come una specie di gigante forte e deciso, capace di resistere a tutte le sfide e le delusioni che la vita ti metteva davanti. Soffrivi, certo, ma riuscivi sempre a voltare pagina. Che anche tu potessi non farcela, ancora non lo sapevo.
«Parla» ti ordinai, quindi.
«Lascia perdere, Nadia.»
«Guardami.»
Mi guardasti. Nei tuoi occhi azzurri non riuscii a leggere niente. Era come se davanti ci fosse un velo.
Ancora oggi non riesco a capire perché lo feci. Non sono riuscita a dare una motivazione al mio gesto. Se ripenso a quei secondi, se provo a sforzarmi, a cercare anche solo di immaginare cosa passava per la mia testa negli istanti precedenti a quel gesto, mi viene in mente solo il nulla. Non ti avevo permesso di farlo qualche giorno prima e, alla fine, l’avevo fatto io.
Mi avvicinai, mi alzai in punta di piedi, chiusi gli occhi e ti baciai. In quel momento, mi sentii come se il mio cuore stesse battendo per la prima volta.
Non ti opponesti. Le tue labbra morbide rispondevano al mio bacio inizialmente in modo rigido, poi con passione. Mi prendesti la testa con le mani e inclinasti la tua, approfondendo il bacio. Sentivo il mio cuore battere talmente forte che pensai che avrebbe potuto scoppiare da un momento all’altro e il tuo respiro nervoso mi solleticava il viso. Neanche mi accorsi che avevo indietreggiato finchè la mia schiena non toccò il muro e sentii il tuo corpo che si appoggiava prepotentemente al mio, schiacciandomi.
Avevo cominciato io ma il gioco lo stavi conducendo tu: era come se fossi tu a baciarmi e non io a baciare te, decidevi tutto tu. E quando, dopo un secolo, decidesti che era giunto il momento di riprendere fiato, io lo capii. Capii che ti avevo perso.


«Dov’eri finita stamattina? Ti aspettavo per fare colazione.»
«Sì, scusa. E’ domenica, mi sono svegliata tardi.»
«Non dirmi stronzate, Nadia. Quando ho visto che non arrivavi sono venuto qui, a casa tua, e tua madre mi ha detto che eri uscita e che eri venuta da me.»
«Ah.»
«Allora?»
«Sono venuta, però non mi sembrava avessi esattamente bisogno di compagnia. Ho visto una ragazza uscire.»
«E ti sembra un buon motivo per tirarmi un bidone? I miei erano fuori per il weekend e ne ho approfittato. Qual è il problema?»
«Dormi con un’altra e poi vuoi fare colazione con me?»
«Come sarebbe “un’altra”? “Una”, casomai.»
«Hai capito cosa intendevo!»
«Sei arrossita?»
«Sei proprio uno stronzo, Dem, perché godi nel mettermi in imbarazzo?»
«Ti imbarazza parlare con me?»
«Basta, vattene da casa mia.»
«Non verrai mai scavalcata, Nadia.»


 

Avevo per l'ennesima volta pensato di cancellare questa storia, perchè purtroppo per un errore di condivisione su facebook (lo so, sono un'impedita) probabilmente la maggior parte dei miei contatti l'ha vista. Avevo anche pensato di cambiare account qui, dato che ormai mi sentivo "scoperta", ma qualcuno mi ha fatto cambiare idea. Insomma alla fine si è risolto tutto, e adesso finalmente ho capito che se mi ero fatta un contatto facebook a parte per EFP probabilmente c'era un motivo!
Sperando che non ci siano più inconvenienti di questo tipo, vi lascio! A presto!

   
 
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