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Autore: Love_in_London_night    27/03/2012    11 recensioni
Un ballo particolare. Un lui e una lei che si incontrano guidati da forze superiori, perchè non sono semplici persone, ma Dei.
Lui ha bisogno di un alibi, lei di ritrovare se stessa. Scopriranno che uno ha ciò che l'altro sta cercando.
Antico e moderno si fondono creando due storie parallele e impossibili.
Il destino li mette sulla stessa strada per motivi diversi, la realtà pensa a fare il resto, specialmente se uno dei due nasconde più di quello che si possa immaginare...
«Come hai fatto a riconoscermi subito?» Doveva cercare di concentrare l’attenzione su di lei, in modo da sviare qualsiasi discorso personale.
«Ricordo sempre la faccia degli uomini con cui giaccio.» Si era fatta più cupa e maestosa, sembrava rubare luce al vestito. Era una perfetta Afrodite.
«Vorrei ricordarmene anche io.» Rispose malizioso, molto più Mercer che Ermes.
«Potrei offendermi, dato che hai appena ammesso di non ricordarti di aver concepito con la dea della bellezza».
«So quanto tu sia suscettibile a riguardo.» [...] «Ma posso garantire che nelle mie parole non c’era offesa, solo rammarico.»"

Prima classificata al contest "Frammenti di feste" di _MoonBeam e Lutea Eos.
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Siete cortesemente invitati sull’Olimpo.
Dei e dee, sacerdotesse e vergini, guerrieri ed eroi, riunitevi.
L’appuntamento divino si terrà dalla settima ora dopo il rintocco del mezzogiorno, fino a che il banchetto non sarà interrotto dalla mancanza di Apollo per guidare il carro che porterà il sole in cielo.
Il giorno del ritrovo sarà il ventunesimo del terzo mese.
Ricordatevi le sacre vesti.
Confermate la vostra partecipazione,
Zeus”

Continuava a fissare l’invito, avvilita. Nonostante non volesse prendervi parte, la sua partecipazione era stata garantita dai genitori. Ecco uno dei tanti contro dell’essere la figlia dei proprietari della galleria d’arte più importante della Grande Mela: presenziare ad ogni tipo di serata, sempre e comunque, che fosse socialmente utile o meno. E quel ballo non faceva eccezione, anzi. Era tenuto dai Bushell, altolocati e influenti nella New York dei pesci grossi, i migliori clienti dei genitori.
L’intento di quella festa era mostrare l’appartamento fresco di ristrutturazione. Anche se appartamento come descrizione era assai riduttiva, visto che era una piccola reggia su più piani, dove l’opulenza la faceva da padrona, mostrando a tutti quanto misere potessero essere le loro abitazioni in confronto anche solo all’imponente scalinata che campeggiava maestosa nell’atrio. Senza contare le due scalinate minori che le stavano ai lati.
Pareti rosse, pavimenti bianchi e neri che rimandavano agli scacchi, colonne sfarzose color burro e lampadari di cristallo rendevano caldo l’ambiente, dando l’idea di appartenere a un’altra epoca, addirittura a un altro mondo.
Jacqueline era capitolata. Il ventun marzo sarebbe andata dai Bushell per portare alto l’onore degli Harrington.
Era davvero arrivata a quello?
Mascherarsi per essere se stessa perché nessuno le permetteva di esserlo davvero? Sì.
Perché, nonostante suo padre le avesse sempre insegnato che ogni cosa andava meritata e conquistata, grazie all’influenza del suo cognome Jackie aveva di fronte a sé solo porte aperte. Ma questo non bastava perché, nonostante avesse mille possibili strade davanti, i genitori avevano già deciso per lei. Avrebbe continuato a gestire la galleria insieme a loro prima e al posto di questi poi, tralasciando i propri sogni e le attitudini. Aveva già detto addio all’editoria da più di un anno.
E dopotutto cos’è una bugia? Solo la verità in maschera.
Nel mascherarsi per essere se stessa, si sentiva sconfitta. Ancor peggio, si ricordava quella maschera intarsiata con maestria ed eleganza che campeggiava sul proprio letto: senza identità.
 
Mercer era stato chiamato per svolgere quel lavoro. Era difficile, ma sapeva di essere l’uomo adatto.
Aveva preso informazioni riguardo molte cose, nessun aspetto poteva essere tralasciato. Se c’era una cosa che aveva imparato con l’esperienza, era quella che il destino non aiutava mai.
L’invito alla festa non era un problema, il bancario di Los Angeles gli aveva fatto avere il proprio, dato che non sarebbe mai volato a New York per uno stupido party in maschera. Nonostante avesse incontrato i Bushell una volta soltanto, questi ultimi si erano premurati di contattarlo per il buon nome che aveva, perché a New York funzionava così: era solo una questione di potere.
Avere un ingresso garantito anche per Matthew non era stato difficile. Il signor Duhamel aveva confermato la propria presenza, garantendo a Mercer l’entrata su presentazione dell’invito, mentre Matthew sarebbe passato grazie alla partecipazione richiesta da Duhamel in persona per il nipote, tale Alexander Pratt.
Mercer era soddisfatto, ogni cosa si stava sistemando nel migliore dei modi. Si rese conto in tempo che in quel momento gli mancava solo una cosa: il vestito adatto.
Anzi, due.
 
Il vestito era magnifico: riluceva in modo unico; era lungo e bianco, con un drappeggio a circondare la scollo profondo sulla schiena. La madre le aveva prestato quel pezzo unico che un noto stilista una volta aveva creato apposta per lei. Janine le aveva suggerito – o gentilmente imposto – di rappresentare Afrodite, la Dea della bellezza e dell’amore: almeno di quello carnale.
Jackie aveva così raccolto i lunghi capelli biondi in uno chignon alto, lasciando solo qualche ciocca libera. Gli occhi erano truccati con colori scuri, per far risaltare il colore chiaro delle iridi. Non si sentiva molto diversa dal solito, non percepiva quella libertà che doveva concederle il travestimento, la vera bugia o la finta verità che la rappresentava. Prese la maschera, che sembrava realizzata in pizzo rigido, e la pose sul viso. Non le permetteva di non essere riconosciuta, ma le dava la possibilità di non essere ricordata da nuove persone, dagli estranei a cui avrebbe potuto mostrarsi davvero e, a quel pensiero, sentì un brivido di libertà impossessarsi di lei.
Una volta pronta prese l’auto, rigorosamente guidata dall’autista di famiglia, in compagnia dei genitori. Arrivati a destinazione ed entrati, dopo aver mostrato l’invito alla sicurezza che controllava i nominativi su una lunga lista, Jacqueline si congedò dai famigliari. Doveva raggiungere i propri amici, figli di gente altolocata di Manhattan, ma non ne aveva affatto voglia. Blair, Serena e i ragazzi erano sempre coinvolti in intrighi che loro stessi creavano per sopperire alla noia delle loro vite perfette; Jacqueline invece apprezzava il quieto vivere che la posizione di famiglia offriva. Salutò gli amici e dopo aver ricevuto complimenti e scambiato i soliti convenevoli si allontanò, lasciandoli a inventare piani improbabili e machiavellici contro il malcapitato di turno.
Si aggirò nella sala nella più fedele delle rappresentazioni della Dea, lasciando che l’aura di mistero l’avvolgesse malinconica e seducente.
La serata era appena iniziata ed era ancora lunga, tutto poteva succedere.
 
Matthew indossava il proprio chitoniskos, il tipico abito greco maschile, con grande imbarazzo. L’idea di avere addosso una gonna non lo elettrizzava per niente. Davanti all’entrata dell’imponente palazzo si passò una mano tra i capelli abbastanza lunghi e mossi, a metà tra il biondo e il castano, con fare agitato. Si mise in coda sotto gli occhi di Mercer che, dall’altro lato della strada per non essere notato, doveva vedere da quale dei due uomini della sicurezza il fratello si sarebbe diretto. Matt scelse quello di destra, mostrando l’invito di Alexander Pratt. L’uomo pelato con il completo nero cercò sulla lista, controllò l’invito, spuntò il nome e lo fece entrare. Era dentro, questo era l’importante.
Mercer aspettò una manciata di minuti, facendo passare davanti alla sicurezza una buona dose di facce, maschere e travestimenti, cercando così di garantirsi una certa immunità.
Sistemò al meglio il suo chitoniskos bianco con i bordi oro, elegante nella sua semplicità, infine mise in ordine il piccolo borsello appeso alla cintura da dove estrasse l’invito.
«Nome?», domandò l’uomo sulla sinistra, con i capelli fermati all’indietro da una massiccia dose di gel.
«Duhamel, Josh». Mercer gli sorrise cortese, mostrando poi l’invito per fargliene verificare l’autenticità con una luce ultravioletta.
L’uomo appose un segno accanto al nome «Prego Signor Duhamel, entri pure. Le auguro buon divertimento», disse, ma non ne era completamente sicuro. Lo sguardo confuso che si scambiò con il pelato fece capire a Mercer che la sua sembrava una faccia famigliare, una già vista.
Quella di Matthew.
Entrò senza indugi, ignorando gli sguardi ambigui dei due buttafuori. Loro non gli dissero niente e lui non cercò un motivo per essere fermato.
Una volta nel mezzo della festa, tra un’Atena e un Poseidone, si rilassò il giusto. Non poteva permettersi distrazioni, il lavoro era tutt’altro che in discesa.
Era giunto il momento di cercarsi un alibi.
 
Jacqueline era salita al piano di sopra passando da una scalinata laterale perché si sentiva troppi occhi addosso, ma essere Afrodite comportava questo genere di rischi, specialmente se il travestimento era ben riuscito.
Dopo aver utilizzato la toilette delle signore, uno dei molteplici servizi domestici riadattati per l’occasione, decise di appoggiarsi all’elegante balaustra per osservare dall’alto la festa. L’orchestra – composta soprattutto da archi e suoni morbidi – era un ottimo sottofondo per balli improbabili che venivano abbozzati dai partecipanti. Era un Olimpo affollato ma assai veritiero. Gli dei dell’occidente erano tutti rinchiusi lì e, nonostante molti si fossero presentati come aspiranti Zeus o Marte, in quel momento assomigliavano molto di più a Dioniso. Le maschere che indossavano non impedivano loro di dare libero sfogo al loro io più nascosto.
E dopotutto cos’è una bugia? Solo la verità in maschera.
Jackie sospirò, combattuta tra il suo travestimento e la voglia di essere se stessa, non capendo che la maschera era il mezzo tramite cui avrebbe potuto dare libertà al suo estro. Perché quell’Afrodite era la dea più Jacquilinizzata che ci fosse sulla terra e, proprio per questo, la più adatta a rappresentare la divinità personificata.
«Cos’è che ti turba?» la domanda le fu rivolta di sorpresa, tanto che si trovò a sussultare involontariamente.
L’essere imprigionata in me stessa, rispose tra sé.
Il silenzio di lei, accompagnato dallo sbigottimento, lo costrinse a continuare a parlare.
«Scusa, mia… Dea? Non volevo spaventarti.»
Ora che aveva rivolto l’attenzione all’uomo dietro di lei, lui si prodigò in un lusinghiero inchino.
Era fiero e bello, ma non di una bellezza banale come la maggior parte degli uomini. Sembrava degno di far parte dell’Olimpo, di quello sotto di loro, come di qualsiasi altro.
I capelli abbastanza lunghi e mossi, a metà tra il biondo e il castano, gli incorniciavano il viso spigoloso e austero, rendendolo davvero immortale, almeno nella memoria di Jackie.
Stette al gioco. «Dubiti di essere al cospetto della dea della bellezza? Potresti pagare cara la tua impudenza, Ermes».
L’aveva riconosciuto subito. Le piccole ali sui calzari, il borsello del viandante, il caduceo con i due serpenti incrociati; tutto le faceva credere che colui che le stava davanti fosse proprio il dio messaggero.
Non lo conosceva, non sapeva chi fosse e, soprattutto, non le importava.
L’unica cosa che le stava a cuore in quel momento era il brivido che provava, quello che aveva cercato tutto il tempo dietro la propria maschera, trovandolo infine davanti a sé. Il fremito della libertà di essere se stessa anche nelle sembianze di qualcun altro.
Forse, solo nella maschera che pensava di indossare.
E dopotutto cos’è una bugia? Solo la verità in maschera.
 
Ecco davanti a lui il pretesto perfetto. E bellissimo.
La ragazza si aggirava da sola, sfoggiando il meglio di sé. Impossibile non notarla. Era davvero Afrodite. Mercer era sicuro che quello non fosse il suo nome, ma aveva la certezza che fosse una dea della bellezza.
E poi era sola. Sperava solo che non fosse stata abbandonata momentaneamente. L’unico modo per saperlo era informarsi. Se c’era una cosa che aveva imparato era proprio quella di non perdere tempo e volgere così a proprio favore ogni situazione.
Gli ricordava qualcuno. Aveva una faccia famigliare. Il fatto che partecipasse a una simile festa le faceva rientrare nelle persone di spicco, però non si ricordava il viso o il nome. Questo voleva dire solo una cosa: era figlia di qualche magnate newyorkese, e di quello sì che avrebbe riconosciuto la faccia, associando un nome, un cognome e un conto in banca. A casa avrebbe controllato su quella specie di database che si costringeva a tenere e ad aggiornare di continuo.
La fortuna gli voleva bene, Mercer se ne rendeva conto. Se la ragazza era al piano di sopra era per usufruire della toilette, i suoi motivi invece erano ben diversi.
«Dov’è il tuo consorte, il divino Efesto?», chiese, avvicinandosi. Le baciò la mano, nonostante non fosse usanza del tempo. Lei era la dea della bellezza, doveva mostrarle di essere sotto il suo volere.
E vedeva quanto lei volesse essere conquistata e sedotta da lui.
«Nelle sue fucine, il suo vero amore», rispose lei, non troppo dispiaciuta. Dunque non c’era nessun accompagnatore, ma doveva assicurarsene.
«Ares non è con te?» nonostante Afrodite fosse sposata con Efesto, aveva sempre amato il possente e collerico dio della guerra, senza mai farne mistero.
«Il divino Ares non è mai con me, dovresti saperlo.» Era sempre più divertita.
Voleva giocare? Aveva trovato pane per i suoi denti, nonostante Mercer dovesse tenere ben presente il motivo per cui si trovava lì. Ma lei stessa faceva parte di quel disegno più grande, solo che non le era dato saperlo.
«Come hai fatto a riconoscermi subito?» Doveva cercare di concentrare l’attenzione su di lei, in modo da sviare qualsiasi discorso personale.
«Ricordo sempre la faccia degli uomini con cui giaccio.» Si era fatta più cupa e maestosa, sembrava rubare luce al vestito. Era una perfetta Afrodite.
«Vorrei ricordarmene anche io.» Rispose malizioso, molto più Mercer che Ermes.
«Potrei offendermi, dato che hai appena ammesso di non ricordarti di aver concepito con la dea della bellezza».
«So quanto tu sia suscettibile a riguardo.» Conosceva tramite gli studi le intemperanze della divinità. «Ma posso garantire che nelle mie parole non c’era offesa, solo rammarico».
Poi ragionò su ciò che la ragazza gli aveva detto «Concepito? Chi?»
«Leggende narrano che il nostro frutto sia Eros, il dio dell’amore. Le ali sono l’indizio che portano a te», disse lei indicando i calzari e i piccoli lati piumati del caduceo.
In effetti era l’unico dio dotato di ali.
Notò quanto fosse strana la cosa. Erano forse stati spinti l’uno verso l’altra da una forza più grande, chiamata dai più destino? Il risultato della loro unione era stato l’Amore. Possibile che fosse solo una coincidenza?
«E lasciamo che la gente creda siano leggende?», domandò ormai accanto a lei, affacciato alla balaustra.
Averla vicina lo fece vacillare. Stava davvero esercitando su di lei quello che era solito fare con altri? Lo stava facendo davvero?
Non solo era bella come poche ragazze potevano permettersi di essere senza diventare volgari o stupide. Afrodite aveva un che di struggente e fragile che lo turbava nel profondo, come se stesse decidendo se fingere o mentire, piuttosto che svelare la sua vera natura.
Proprio come succedeva ogni volta a lui. Come gli stava succedendo in quel momento.
Fingere di essere quelli che gli altri si aspettano o essere se stessi mentendo?
«Dipende soltanto da noi», rispose lei, maliziosa e tentatrice. Lo era sempre stata, ma solo allora Mercer se ne accorse.
E dopotutto cos’è una bugia? Solo la verità in maschera.
 
La maschera non le permetteva di confondere nemmeno in superficie il turbamento che la agitava nel profondo. Specialmente allo sguardo di Mercer, così simile a lei.
L’aveva capito fissando quegli occhi tristi che gli avevano rubato qualche battito, e non solo.
Incatenato in un ruolo che non gli spettava; forse, che non voleva soltanto.
«Balliamo?» e allungò una mano fino a toccare quella di lei, che non la scansò.
«Speriamo che Apollo sia benevolo riguardo le note.» Il dio della musica avrebbe dovuto impegnarsi per produrre un qualcosa di vagamente decoroso.
Nel dirlo fece scivolare la mano in quella di Ermes, che iniziò a condurla lentamente verso la gente.
 
Mercer era soddisfatto.
Mostrare ciò che le persone volevano gli garantiva l’alibi perfetto.
Scesero la scalinata con agognata lentezza. Gli occhi persi in quelli dell’altro, le mani intrecciate a mezz’aria. La gente aveva iniziato a guardarli, incuriosita da quel gioco amoroso tenuto sul filo del rasoio, a metà tra inganno e realtà. Perché Mercer agiva per finzione, ma un fondo di verità – ben più ampio di quanto si fosse mai aspettato – c’era, data la scelta accurata della divinità con cui mostrarsi in pubblico.
Era la sua unica via di fuga, la sola salvezza e se la stava giocando al meglio. Il vizio del baro, la faccia da poker che ormai indossava sempre e comunque.
In cima alla scalinata Jacqueline gli si rivolse spinta da una fiamma diversa, una scintilla che aveva dato vita ad un incendio nel suo cuore «Una maschera dice di più di una faccia, diceva Wilde».
«Dove vorresti arrivare?» una domanda che pretendeva una risposta più importante di quel che volesse dare a vedere.
«Perché Ermes?» la curiosità era tipicamente umana. Niente di divino.
Rispose continuando a condurla lungo i gradini «Perché è il dio dei messaggeri, dei ladri e dei viandanti».
«Cosa mi dice la tua maschera su di te?» la poteva vedere mentre cercava di carpire dal volto di lui ogni sfumatura umorale, avida di conoscenza.
«Molto più di quanto pensi» rispose lui affascinante e seduttore, come ci si aspettava che fosse «E tu, perché Afrodite?»
Jacqueline rise, alleggerita dal peso del suo ruolo. «Perché mia madre aveva questo vestito nell’armadio».
 
Ballarono un po’, entrando nel vivo della festa.
Piroette delicate, lenti sinuosi e poco altro. Jackie era aggraziata e poco aveva a che fare con la propria maschera, era una leggiadria che le apparteneva a prescindere dal suo essere divina.
«Penso che Ermes ti si addica», le sfuggì durante una giravolta che la portò tra le braccia del dio messaggero.
«Perché?» Mercer non si aspettava una tale esternazione, frutto più del pensiero di Jackie rivolto a uno sconosciuto piuttosto che quello di Afrodite rivolto a Ermes.
«Perché Ermes è il dio dei ladri, l’hai detto tu stesso, e tu sei un ladro di cuori», rispose lei avvicinandosi al suo, finendo tra le sue braccia, un vago rossore che spuntava dalla maschera preziosa.
E non solo, concluse lui nella propria mente.
«Ho rubato il tuo?» sfoggiò la faccia del baro, la sua vera maschera. Quella sfrontata e sicura, che lo rappresentava nonostante la usasse per scopi che odiava sempre più, di giorno in giorno.
«Non appena ho capito di essere la tua Afrodite, mio Ermes.» Si allontanò un poco, per riprendere a ballare come se niente fosse.
Difficile però, dato che la confessione aveva scosso entrambi, perché sapevano di essere incappati in qualcosa di totalmente inaspettato e travolgente. Una situazione difficile a cui era impossibile sottrarsi in un momento simile, a cui non volevano sottrarsi: scappare da emozioni così forti da stordire non era affatto facile, perché quando si era schiavi di qualcosa, diventava maledettamente difficile liberarsi.
Entrambi lo sapevano bene, essendo succubi di maschere che pensavano non li rappresentassero a dovere.
E dopotutto cos’è una bugia? Solo la verità in maschera.
Mercer era lì per tutt’altri motivi, ma la sua umanità ebbe il sopravvento, facendogli rischiare molto, se non addirittura troppo.
«Come ti chiami davvero?»
«Jackie», rispose, dopo un’iniziale incertezza. Fu il suo momento di raccontare una bugia dal sapore di verità. Un ruolo che, inconsciamente, era sempre toccato a Mercer.
Jackie non era Jacqueline. Non del tutto. Era solo una parte. Se si fosse presentata come Jacqueline avrebbe corso il pericolo di farsi riconoscere, mandando in fumo ciò che aveva cercato di ostentare con la maschera: la vera se stessa, quella non così lontana da quel mondo, ma abbastanza da non voler essere ricordata soltanto per il cognome che portava.
«Perché?»
«Perché devo sapere a chi ho rubato il cuore.» A parlare fu ancora Mercer, non Ermes. L’uomo che si nascondeva dietro un costume che urlava tutta la realtà che lo riguardava.
«Qual è il tuo vero nome?» fu il turno di Jackie di sondare un po’ più a fondo dietro il travestimento. Perché era facile mettere un viso qualsiasi dietro una maschera, ma ci si dimenticava di dover fare attenzione, perché ognuno poteva pretendere di fare la stessa cosa, lo sapeva bene. Però per lei era troppo tardi per commettere un simile errore. Doveva sapere con esattezza a cosa stava andando incontro, soprattutto con chi.
 
Mai rivelare il vero nome. La prima regola di Mercer.
Era lì come Josh Duhamel e tale doveva restare.
Mai rivelare il vero nome. Mai rivelare il vero nome.
«Perché lo vuoi sapere?» una domanda atta a fargli guadagnare tempo. L’avrebbe fatto sembrare una donnetta in cerca di attenzioni, probabilmente, ma non era riuscito a inventarsi di meglio. Jackie era diversa dalle altre. Umanamente divina nel suo essere divinamente fragile. Questi suoi aspetti lo avevano colpito nel profondo, crepando la facciata da baro che ostentava sempre e andando oltre essa.
«Devo sapere a chi l’ho dato», rispose lei sempre più libera da imposizioni, così simile alla sua maschera da non percepirne più la differenza.
Mai rivelare il vero nome. Un po’ come le reali intenzioni.
«Mercer, mi chiamo Mercer», ammise sconfitto, dovendo combattere contro se stesso, continuando a incrinare la facciata, tanto la sua quanto quella del dio Ermes.
Ma non prestò reale attenzione alle parole di Jacqueline. Non avrebbe colto la differenza tra dato e rubato, il dono del primo gesto contro l’aggressione del secondo. Sarebbe successo dopo, quando un processo ben più ampio e sconosciuto l’avrebbe fatto scivolare in un oblio inesplorato.
Sentiva il bisogno di cambiare discorso. Si sentiva esposto e nudo davanti a lei, nonostante l’abile e accurato travestimento.
«Quale canzone vorresti ascoltare, Jackie?»
Si era ricordato il vero motivo per cui era lì, ed era subito tornato ad agire per il proprio tornaconto.
L’interessata ci pensò qualche istante, circondata dalle braccia del suo dio. Nemmeno si erano accorti di essere al centro del trambusto e fissati da mille occhi, sconosciuti e non.
«Enjoy the silence. La conosci?» era stato strano per lei pronunciare parole simili, le era sembrato di spezzare una magia.
Aveva detto una cosa talmente moderna da stridere con l’antico splendore che li circondava e che si era impossessato del loro stesso animo, rendendoli davvero quegli dei che una volta popolavano il monte greco con i loro sotterfugi e le loro tresche. Sembrava tutto lontano anni luce, ormai.
Mercer annuì e sfoderò un sorriso accattivante «Vado a prendere da bere. Aspettami qui, torno il prima possibile».
Non si era nemmeno accorta di come fossero finiti ai piedi della scalinata centrale, accanto all’elegante corrimano in marmo. Un buon posto dove ritrovarsi e sorseggiare qualcosa da bere, vista la gola secca. L’emozione giocava brutti scherzi.
Si appoggiò alla massiccia ringhiera, facendogli capire che l’avrebbe aspettato.
Mercer si congedò, scomparendo subito dopo inghiottito dalla folla festante; facendosi perdere completamente di vista.
Una volta al sicuro, in mezzo a facce ignote di cui non avrebbe saputo dire quanti volti e quante maschere, estrasse dalla piccola sacca appesa alla cintura il proprio cellulare.
Un mimosa. Enjoy the silence, chiedila all’orchestra. Tocca a te, sai cosa devi fare”. Non digitò altro, ma con lo sguardo percorse l’immensa sala scrutandone i punti d’ombra, trovando chi stava cercando. Quell’immagine, così uguale alla sua, l’avrebbe riconosciuta ovunque. Il riflesso peggiore che la vita potesse offrigli, il riverbero della sua faccia da baro che poco aveva a che fare con un dio, tutto con Ermes.
 
Jacqueline attese impaziente, aggirandosi negli stretti dintorni della scalinata. Aveva salutato amici di famiglia e conoscenti vari, aspettando Ermes. O Mercer.
Quel posto, più che ricordarle l’Olimpo, assomigliava sempre di più agli Inferi. Peccato che Ade, in quel momento, fosse più vitale di lei. Le sembrava di scorgere il volto del suo dio tra la folla mentre la ammirava beffardo, ma succedeva solo per un attimo, il tempo di uno sguardo languido e poi sfuggiva. Che Ermes fosse stato solo un sogno o, peggio, una leggenda?
Poi, d’improvviso, le apparve poco distante. Si stava dirigendo verso di lei con un bicchiere in mano. Lo guardò frastornata, come se lo stesse osservando per la prima volta, o stesse osservando qualcun altro.
Ermes era quello di sempre, ma era più… goffo. O meno elegante e sicuro di sé. Meno accattivante. Più impedito. I modi di dire nella testa di Jackie si sprecarono, ma il concetto era sempre lo stesso. Era come se gli mancasse qualcosa.
Lui arrivò e le porse il bicchiere.
«Ermes, non resti?», gli domandò, non appena capì la sua intenzione di andarsene di nuovo.
Il dio, che in quel momento sembrava solo un messaggero, le fece cenno di non muoversi fermandola con la mano aperta, in un gesto che la intimava ad aspettare. Si mise l’indice sulle labbra e sorrise, le fece un inchino e se ne andò.
Ogni tanto riusciva a scorgerlo tra la folla sempre più inebriata dai frutti di Dioniso, ma era questione di un attimo, un momento a cui Jackie si appigliava con tutte le sue forze.
Lo vide nei pressi dell’orchestra, o almeno così le sembrava, chinato su uno dei musicisti. Parlarono un po’ e se ne andò, soddisfatto.
Dopo poco gli archi si prodigarono nel mettere in scena una stupenda versione della canzone di cui Mercer le aveva chiesto il titolo poco prima.
Eppure di lui non c’era traccia, se non in mezzo alla folla, ai bordi della pista o davanti al bar.
Infine sparì. Ricomparve dopo qualche minuto al suo fianco, scendendo dalla scalinata principale.
Era di nuovo lui, il dio forte e sicuro di sé di inizio serata, quello che aveva fatto perdere la testa ad Afrodite, e non solo.
 
Scese le scale senza risultare sbrigativo, in modo da non destare occhiate interessate su di sé. Si apprestò a raggiungere la sua dea, che lo aspettava speranzosa là in fondo. Prima però fissò il fratello nella penombra, vicino all’uscita, e, dopo essersi scambiati un gesto d’assenso, lo vide recarsi fuori dall’edificio, per poi tornare a concentrarsi sulla ragazza.
Doveva solo completare l’opera ed era pronto a farlo.
Ora tutti avrebbero dovuto guardarli, era il momento di attirare l’attenzione.
La ritrovò e d’impeto le fece fare una giravolta ampia e lenta, prendendola infine tra le proprie braccia. Le sorrise contento e malizioso, animato da una nuova forza.
Con la coda dell’occhio vide la gente intorno a loro fissarli incuriositi da tutto quel volteggiare.
Prese Jackie e accompagnò il suo busto all’indietro, in un perfetto casqué. Avendo attirato a dovere l’attenzione su di sé, fece ciò che doveva. Ma che soprattutto voleva.
Si avvicinò alla bocca di Afrodite, saggiandone il sapore con bramosia. Era l’ambrosia del loro piacere, quel contatto, meglio di ogni nettare di loro immortali.
Jacqueline gli cinse il collo con un braccio, accogliendo quel gesto con passione. Non le importava di dar spettacolo, voleva solo che il suo divino amante la soddisfacesse come aveva desiderato per tutta sera.
E in quel momento mostrarono alle persone che quella di Ermes e Afrodite non era solo una leggenda, ma una piccola verità dimenticata dai più.
Entrambi si ricordarono come avevano concepito Eros. Il bacio era la sua forma più antica e platonica, l’unione di due anime legate insieme. Era la nascita di Amore.
Appena nato ma già fiorito da tempo, prima dell’avvento di Cristo, perché di quell’Amore si era già parlato e scritto, senza mai averne avuto reali prove.
 
Il giorno dopo, Mercer comprò il “New York Times” senza che il cuore gli esplodesse nel petto, nonostante l’ansia e la tensione accumulate.
Come previsto, il titolo riportava la notizia che si aspettava: “Rubato il famoso gioiello ‘lacrime preziose’ a casa Bushell. Il furto effettuato durante la lussuosa festa di ieri sera.
Fece scorrere tutto l’articolo. Furto su commissione… Opera di un ladro esperto… Le autorità brancolano nel buio.
Tutte le informazioni che gli interessavano erano nelle sue mani, pronte a fargli tirare un sospiro di sollievo.
Davanti al caffè in cui aveva l’appuntamento, si scontrò proprio con il diretto interessato: suo fratello. Matthew lo guardò interrogativo, cercando di capire l’esito della loro operazione. Per invogliare il gemello a parlare, indicò con il mento il giornale.
«Cosa dicono, Mercer?»
La sua esatta copia gli sorrise soddisfatto «Nessun sospetto e nessuna prova. Siamo salvi».
«E la collana?» Matt era abituato a lavorare col gemello – il proprio riflesso – e sapeva quanto era scrupoloso riguardo gli affari.
«È in viaggio verso il suo nuovo proprietario. È al sicuro. Ce l’abbiamo fatta».
Peccato non fosse vero. Perché in quella serata aveva messo in gioco molto più di se stesso. Non era stato Ermes, era stato Mercer travestito da dio greco, aveva mostrato quella parte di sé che pensava sempre di nascondere agli altri. Ma Jackie, con la sua Afrodite, aveva minato le basi di quel gioco pericoloso, trasformandolo in qualcosa di più profondo e lacerante.
La sregolatezza interiore di lei, mista alla sua fragilità, l’avevano portato ad avvicinarsi, a rimanerne colpito e folgorato. Non era stata solo Afrodite, aveva avuto la prontezza di usare le stesse armi di Mercer su Mercer stesso.
Un totale connubio tra la dea dell’amore e il dio dei ladri, in una perfetta esplicazione di se stessa.
Così era stato anche per lui, un po’ ladro e un po’ abile nell’usare il gioco amoroso.
E dopotutto cos’è una bugia? Solo la verità in maschera.
Il cuore, quella mattina, non poteva esplodergli nel petto perché lì non risiedeva più, aveva trovato una nuova proprietaria a cui rispondere.
Anche Jackie era una ladra, ma non l’avrebbe mai saputo.
Era stato uno scambio equo. Predoni d’amore entrambi.
Ladri di cuori.

 

Sarò breve, non posso mettere note chilometriche anche alle OS. Questa shot ha partecipato al "Contest multifandom - Giù la maschera" indetto su Facebook da Lela, Elle e Cinzia.
Un grazie particolare va a Trappy e uno a Trigger Happy per il bellissimo banner.
A presto, Cris
Edit 13/07/2014: La storia si è classificata prima nel constest:

   
 
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