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Autore: alaisse_amehana    29/03/2012    7 recensioni
C’è qualcosa di strano in me.
L’ho sempre saputo. Non è una cosa di cui si possa parlare. Non che debba vergognarmene, almeno non credo. E’ solo che non posso spiegarlo. Non più di quanto posso spiegare cosa c’è nella mia testa. Per quanto mi sforzi, le parole sono insufficienti.
L’ho sempre saputo.
Quando la gente parla non capisce mai davvero cosa vuole dire l’altro.
Con le parole si possono creare così tante realtà alternative, ma queste realtà non potranno mai superare quelle presenti dentro ciascuno di noi. Io lo capisco bene.
Mi chiedo se sono l’unica.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Volevo ringraziare tutti quelli che hanno lasciato una recensione al primo capitolo, e un grazie a chi mi ha seguito dall'altra storia commentando pazientemente anche questa!
Forse questo capitolo è un po' lungo, ma come potete notare dal titolo in realtà era insieme al primo e ho dovuto dividerlo, altrimenti era illegibile... Spero che la storia continui a intrigarvi, la parte più interessante sta arrivando! (spero...)





Arriva la prof di matematica. Avanza nell’aula come una balenottera che si trascina faticosamente sulla spiaggia. Come sempre, la prima cosa che fa è sbattere la borsa sulla cattedra come un tonno appena pescato sul carretto del pescivendolo. Poi si infila nello spazio tra lavagna e cattedra, troppo esiguo per la sua mole notevole, e comincia a spingere quest’ultima verso il centro dell’aula, costringendo i malcapitati in prima fila a battere in ritirata per non essere travolti. Uno spettacolo affascinante, non scherzo.
Dopo gli assestamenti tellurici dovuti a questo teatrino, la prof parte in quarta a disegnare strane forme e simboli alla lavagna, col gesso che si spande attorno a lei come una nuvola celestiale discesa dal cielo ad avvolgerla. In realtà è solo la sua mania di agitare il cancellino per enfatizzare i concetti, ma dirlo non era così d’effetto.
Perdo subito la concentrazione e mi limito a far finta di seguire scarabocchiando un angolo del quaderno. Accanto a me, Eleonora fa più o meno la stessa cosa, con l’unica differenza che lei si è impegnata abbastanza da scrivere il titolo.
Passo così le due ore di matematica successive, scampando per un pelo al tiro a sorte per stabilire chi debba fare gli esercizi alla lavagna. Stefano si offre come volontario prima che la prof possa puntare il dito sul registro e chiamare un povero sventurato. Quel ragazzo ha tanti difetti, ma in certe occasioni sa come farsi amare.  
Suona la campanella per il secondo intervallo. Non mi muovo dal mio posto, troppo sfinita anche solo per alzarmi. La classe si svuota e io mi tolgo per un attimo le cuffie. Sono rimaste solo Giulia, che se ne sta tranquilla al suo posto sfogliando una rivista e pensando a che smalto comprare, e Stefano, che ripassa per l’ora dopo. I loro pensieri sono abbastanza innocenti perché non mi debba preoccupare di doverli tenere a bada.
Chiudo per un attimo gli occhi posando la testa sul banco. Non riesco a tenere gli occhi aperti. Quando la campanella suona di nuovo e gli altri cominciano a rientrare, trovo ad aspettarmi la seconda (o siamo già alla terza?) brutta sorpresa della giornata. Mi sfrego il viso per essere sicura di essere del tutto sveglia, ma non cambia nulla.
Addosso a tutti quelli che stanno rientrando sono comparse delle enormi bolle gelatinose di un marrone sporco e nauseante. Sembrano uscire direttamente dalla loro pelle, ingrandendosi e rimpicciolendo, muovendosi sui loro corpi come enormi lombrichi. Non posso fare a meno di fissarle. Un paio dei miei compagni mi lancia delle occhiate perplesse. Ma l’entrata del prof di storia riporta l’attenzione alla cattedra. E giusto che parliamo del prof di storia, dalla sua testa spunta una bolla enorme. Sembra una palla di fango che gocciola sui suoi capelli. In mezzo a quella specie di gelatina marrone compaiono a tratti dei visi, irriconoscibili. Vorrei urlare, ma la voce mi rimane strozzata in gola.
< Che ti prende?> mi chiede Eleonora, di nuovo al mio fianco.
< N-niente…> riesco a borbottare distogliendo lo sguardo dal professore per posarlo su di lei.
Grazie al cielo non ci sono lombrichi marroni. Ne sembra immune.
< Ah!> mi lascio sfuggire, guardandola.
< Sicura di stare bene?> chiede corrugando la fronte.
< Ah-aaah> annuisco cercando di essere convincente.
Forse non ha bolle marroni che le spuntano dalla pelle, ma attorno a lei è sparita l’aura di serenità che ha di solito. Non ci sono insetti o animaletti simpatici che le si arrampicano addosso. Anche il colorito sembra più pallido.
Ora devo pensare a come superare le restanti ore senza farmi prendere da una crisi isterica o vomitare addosso a qualcuno. Delle due prospettive, non so quale sia la peggiore. Forse la possibilità che si verifichino insieme.
Il prof di storia apre il suo quaderno di appunti. Perché poi dovrebbe averlo? Non dovremmo essere noi quelli con gli appunti? Mi concentro su dettagli del genere per evitare di fissare direttamente i miei compagni o l’insegnante. Cosa più difficile a farsi che a dirsi. Provate a stare in una stanza piena di persone e a non guardare nessuno, dando però l’idea di essere concentrati sulla lezione. Pressoché impossibile. Per fortuna il prof di storia non brilla per attenzione nei confronti di chi l’ascolta. Più che fare lezione, si limita a raccontare con voce monocorde quanto ha scritto sul suo quaderno. Di solito alzo la mano e sparo una domanda a caso solo per interrompere quel monotono spreco di sillabe. Ma oggi non sono proprio in vena. L’unica domanda che mi viene in mente comporterebbe una sirena e tanti medici in camice bianco che mi dicono di calmarmi e non cercare di strappare a morsi la camicia di forza.
Fisso il foglio bianco che ho davanti, stringendo la penna fino a farmi sbiancare le nocche. Ho rimesso le cuffie e riesco a sentire la voce del professore sotto la musica dei Green Day. Nessun pensiero molesto. Per fortuna l’mp3 funziona ancora. Cerco di prendere appunti concentrandomi solo sulla lezione, senza alzare gli occhi dal banco. Non è facile. Soprattutto per la mia innata tendenza a distrarmi e evitare di ascoltare le lezioni. Troppe distrazioni. Questa volta l’unica salvezza è proprio seguire le parole del prof.
Riempio un foglio dopo l’altro con la mia calligrafia piuttosto disordinata. La verità è che non ho nemmeno una calligrafia che possa considerarsi mia. Scrivo almeno in una decina di modi diversi. Un esperto che si trovi davanti la mia scrittura da analizzare giungerebbe alla conclusione che si tratta di uno scherzo orchestrato da una ventina di persone diverse che hanno scritto a turno sul foglio.
Quando suona la campanella che pone fine anche alle due ore di storia, mi sembrano le campane del Paradiso. Sempre che in Paradiso ci siano campane che suonano. Guardo il prof uscire dall’aula portandosi dietro la sua massa di fango marrone sulla testa. Disgustoso.
Mentre aspettiamo che arrivi l’insegnante di scienze, accade di nuovo. Anche se ho lo sguardo puntato sul banco, avverto le immagini intorno ai miei compagni tremare e fondersi. Nelle orecchie sento il fruscio di un’interferenza radio. La gola mi si blocca in un grumo di panico. Questa volta dura più a lungo. Secondi eterni che gocciolano faticosamente nei miei polmoni bisognosi d’aria.
Sto per buttarmi a terra in cerca di ossigeno, quando le orecchie tornano a funzionare all’improvviso e posso di nuovo respirare. So di avere il viso paonazzo, perciò mi prendo un paio di secondi per calmarmi. Solo allora mi rendo conto dell’atmosfera di festeggiamento nella classe.
< Che succede?> chiedo a Eleonora.
< La prof di scienze non c’è. Ci fanno uscire un’ora prima> mi dice allegramente ritirando l’astuccio e il diario nello zaino. Metà dei nostri compagni sono già usciti, aggiungendosi alla massa di studenti che stanno tornando a casa.
Finalmente una buona notizia!
Ritiro tutta la mia roba nel tempo che una persona normale impiega per rimettere il tappo alla penna e mi avvio fuori seguita da Eleonora.
< Che entusiasmo! E non era nemmeno giorno di interrogazioni…> dice mentre ci inseriamo nel flusso di studenti che scendono le scale.
< Ho voglia di tornare a casa…> rispondo.
E dormire almeno per venti ore filate, aggiungo solo mentalmente.
Non voglio più vedere nessuno finché queste orrende bolle marroni non saranno sparite.
Insomma, deve esserci una fine alle schifezze che sono costretta a vedere.
Scendiamo i cinque piani di scale che ci separano dall’uscita alla velocità di un bradipo ubriaco. Sono arrivata a contemplare l’ipotesi di gettarmi da una finestra per fare prima. Ma temo che arrivare a casa con una gamba rotta sia piuttosto complicato.
Ci facciamo strada nell’entrata affollata di studenti usciti dal bar, corredati tutti da tante graziose bolle marroni che escono dalle parti più impensate, e nel cortiletto che dà sul marciapiede. Il cancello aperto è quasi ostruito dalla massa di ragazzi uscenti.
Mentre siamo in coda, Eleonora mi rifila una gomitata di tutto rispetto tra le costole.
< Hai visto quello?> chiede.
Mi volto in cerca di chi ha attirato la sua attenzione.
< Non mi sembra della nostra scuola, deve essere più grande> continua.
Finalmente capisco a chi si riferisce.
Accanto ad un albero, appoggiato al tronco con aria indifferente c’è un ragazzo alto e… beh, bellissimo. Sembra un modello da copertina.
< Deve essere alto un metro e novanta!> dice lei, con un bisbiglio eccitato.
Alle nostre spalle alcune ragazze hanno notato il tipo e commentano senza andare tanto per il sottile. Sono molto felice di non sentire i loro pensieri. Ho paura di cosa potrei trovare nelle loro menti.
< Non credo, al massimo uno e ottantacinque> dico tanto per dire qualcosa.
< Ma l’hai visto?> continua Eleonora mentre procediamo a passo di lumaca. Ancora un paio di anni e forse raggiungeremo il marciapiede. Coraggio, Alice, non mollare.
In effetti il ragazzo è molto bello, ma non è quello a turbarmi. C’è qualcos’altro. Mi costringo a osservare i capelli ricci che gli ricadono morbidi attorno al viso, della stessa tonalità ambrata della pelle. Un viso perfetto con incastonati due occhi azzurro cupo che brillano attenti mentre scruta la folla di studenti in uscita. Mentre scrutano me.
< Ti sta guardando> mi conferma Eleonora all’orecchio.
Il mio cuore salta un battito. Poi capisco il perché non posso fare a meno di osservarlo. Intorno a lui, ragazzi e ragazze si muovono portandosi dietro le loro orrende bolle marroni, e le immagini dei loro pensieri brillano come fuochi d’artificio. Lui invece è l’unico ad essere assolutamente privo di immagini. Appena me ne rendo conto i suoi occhi scivolano su di me, riprendendo a scrutare la folla. Tiro un sospiro di sollievo.
< Credi che stia aspettando qualcuno?> chiede Ele.
Siamo arrivate al cancello, grazie al cielo.
In mano il ragazzo tiene un cellulare argentato e gli lancia continue occhiate.
< Probabile> riesco finalmente a rispondere.
In quel momento noto anche la ragazza. Non deve avere più di vent’anni ed è anche lei molto bella. Il viso pulito, la carnagione pallida in contrasto con i capelli castani che tiene in parte legati in piccole treccine. I lineamenti dolci sono però tesi in un’espressione preoccupata.
Ormai sono diventata brava a leggere le espressioni. Anche su di lei non vedo traccia di bolle o altre immagini. La tentazione di avvicinarmi è fortissima.
La ragazza afferra il braccio del ragazzo e gli mormora qualcosa all’orecchio indicando verso il semaforo all’angolo. Guardo anche io in quella direzione e per poco non mi metto ad urlare. E’ come se un enorme buco nero avesse avvolto i ragazzi che stanno aspettando il semaforo verde. E capisco anche che le disgustose bolle sugli studenti, in qualche modo hanno origine da quella cosa. Intorno ad essa, infatti, le masse gelatinose sono più grosse e scure, mentre si diradano allontanandosi, facendosi anche più chiare e sbiadite.
Mi blocco in mezzo al cancello aperto e Ele è costretta a trascinarmi via prima che la folla mi calpesti.
Nel frattempo il ragazzo ha puntato il cellulare nella direzione indicatagli dalla ragazza e ha esclamato qualcosa che non sono riuscita a cogliere. Ma non sembra nulla di buono.
< Smettila di fissarlo, o se ne accorgerà> dice Eleonora.
< Come?> chiedo, ancora scioccata da quanto ho appena visto. Mi tremano un po’ le gambe.
< Il ragazzo. Lo so che è bello ma lo stai guardando come se non ne avessi mai visti in vita tua>.
E’ così! vorrei risponderle. Non ho mai visto niente di più orrendo in vita mia. Quella massa nera là in fondo, intendo. Non quel povero ragazzo dal viso da angelo che con ogni probabilità potrebbe spiegarmi che sta succedendo.
Devo almeno provare a chiedere.
Mi volto per tornare indietro, ma sono già spariti. Anche il buco nero non esiste più, ma alcune bolle marroni sono rimaste tutto attorno e volteggiano in particolare su alcuni ragazzi.
< Oh, è già andato via> dice Eleonora con un sospiro di rimpianto.
< Magari domani lo vediamo di nuovo!> dice speranzosa.
Non so se sperarlo anche io. Preferirei non rivedere né lui né le masse di gelatina marrone. Il mio stomaco ha dei limiti di sopportazione. E oggi sono andata pericolosamente vicino a superarli.
< Eccola!> dice Ele indicando il lato opposto della strada, dove sua madre la sta aspettando in macchina.
Loro abitano fuori città, perciò la madre viene a prenderla nella pausa pranzo per portarla a casa.
< A domani> mi urla mentre attraversa.
Rispondo al saluto e proseguo verso la fermata del pullman. Dall’altra parte della strada è parcheggiato un camper. Sembra che sopra non ci sia nessuno eppure avverto una forte energia provenire da lì. Sento una vibrazione interna, come se fossi troppo vicina alla cassa di una radio sparata a tutto volume. Non ci faccio troppo caso. Probabilmente sopra ci sono alcune persone e le vibrazioni che sento sono i loro pensieri che mi arrivano attutiti.
Raggiungo la fermata del pullman, strapiena di altri studenti in attesa. Anche oggi mi toccherà aspettare il secondo autobus per tornare a casa. Ma non importa. Sono fuori da quell’inferno e non ho intenzione di tornarci. Domani inventerò una scusa per restare a casa. Fossi anche costretta a ficcarmi due dita in gola e vomitare la colazione nel water, o sul tappeto del salotto. Dipende da quante storie faranno i miei per lasciarmi stare a casa.
Il primo autobus arriva e gli altri ragazzi ci si buttano sopra come se fosse l’ultima scialuppa di salvataggio durante l’affondamento del Titanic. Sono talmente pigiati l’uno sull’altro che mi chiedo se dentro al pullman è rimasto abbastanza ossigeno per tutti. Forse qualcuno perderà conoscenza prima che arrivino alla fermata successiva.
Il pullman riparte come un elefante obeso con due ippopotami sulle spalle. Una similitudine che, vi garantisco, è molto azzeccata.
Mi siedo sulla panchina rimasta vuota, in attesa. Grazie alla musica non sento i pensieri della ragazza di quarta ginnasio che è rimasta a terra insieme a me. La ricordo vagamente per averla incrociata un paio di volte nei corridoi. E poi è difficile dimenticarla visto che attorno alla testa ha sempre una coroncina di fiori cangianti. Ovviamente solo io posso vederli.
Per fortuna non devo aspettare molto prima che arrivi il secondo pullman. Nel frattempo è arrivato alla fermata un altro ragazzo, trafelato per la corsa. Non credo di averlo mai visto, anche se ha sulle spalle uno zainetto nero ed è quindi probabile che arrivi dal mio stesso liceo. Lo osservo di sottecchi mentre il pullman si ferma e apre le porte. Neanche su di lui c’è traccia delle bolle marroni. Mi blocco con un piede a mezz’aria quando mi accorgo che non c’è nemmeno traccia dello schermo piatto su cui di solito vedo i pensieri. Come i due ragazzi che erano fuori dal cancello. Spalanco la bocca per parlare, ma lui è già salito. Salto anche io dentro all’ultimo secondo, mentre le porte si chiudono.
Il ragazzo si è seduto sul fondo, in un angolo vicino al finestrino. Vorrei fiondarmi su di lui e chiedergli spiegazioni, ma mi rendo conto che sarebbe assurdo.
Nella mia testa si svolge l’intero dialogo che ne verrebbe fuori.
“Ciao, come va? Volevo sapere perché non hai nessuno schermo ultrapiatto su cui posso vedere i tuoi pensieri. Sai, di solito con gli altri funziona così”.
“?”.
“ Sì, insomma, cosa fai di particolare? Magari segui una dieta. Oppure non pensi. Dimmi, tu pensi?”.
“Ecco, a dire il vero…”.
Me lo vedo mentre si stringe al petto lo zaino prima di schizzare fuori dal pullman alla prima fermata.
Decido saggiamente di mantenermi a debita distanza e di osservarlo con attenzione. Non dimostra più di diciassette o diciotto anni. Ha i capelli biondi che si allungano in un sottile codino sulla spalla e il lineamenti ancora arrotondati, da bambino. Guarda fuori con le labbra socchiuse, tra cui si intravedono i denti davanti un po’ sporgenti. Dall’aspetto sembra un ragazzo normalissimo, addirittura banale. Tranne per il fatto che è l’unico in tutto il pullman che non ha immagini psichedeliche che gli volteggiano attorno.
Si porta un telefonino argentato all’orecchio e comincia a parlare. Ho come un dejà-vu, ma non riesco a capire perché. Tiene una mano davanti alla bocca, come se temesse che qualcuno gli legga il labiale.
Sono talmente concentrata su di lui che per poco non mi perdo la mia fermata. Me ne accorgo all’ultimo e salto giù con un balzo da atleta professionista. Solo quando sono sul marciapiede mi rendo conto di quanto sono stata stupida.
Avrei almeno potuto attaccare bottone col ragazzo per saperne qualcosa in più. Non che sia un’esperta del settore, ma non è che abbia una dignità da difendere, ormai. Quindi anche una figuraccia con uno sconosciuto non mi preoccupa più di tanto.
Il pullman però è già al semaforo, troppo lontano anche per un corridore della maratona.
Quando finirà questa giornata?
Arrivo al mio palazzo e prima di entrare devo tenere la porta alla signora del quinto piano. Quella che ha tre barboncini soffici come zucchero filato e simpatici come delle iene. L’ultima volta che ho dimenticato le scarpe sul pianerottolo le ho trovate fatte a pezzi della dimensione di coriandoli. La simpatica signora continua ad insistere che non possono essere stati i suoi angioletti, ma dato che sono gli unici animali del palazzo sono piuttosto propensa a non crederle.
< Grazie, cara> dice la signora Martini uscendo in strada con le sue tre belve al guinzaglio. In dieci anni che abitiamo nel palazzo non ha ancora imparato il mio nome.
Mi vedo riflessa nei suoi pensieri come una ragazzina spaurita che tiene gli occhi bassi. Il che, ad essere sinceri, è quello che sto facendo. Ma dura poco. Subito i suoi pensieri tornano alle sue adorate creature che le zampettano attorno. E’ una delle persone più ridondanti che mi sia capitato di vedere. Sembra che i cani attorno a lei siano moltiplicati. Ora ne vedo almeno una decina. E sono perfettamente sobria.
Finalmente raggiungo il quarto piano, dopo aver fatto- anche qui- le scale.
Cosa hanno oggi gli ascensori?
Apro la porta, entro nel salotto, e mi è subito chiaro che non dovrei essere lì.
Sul divano ci sono degli arti aggrovigliati e per un attimo penso che si tratti dei resti di qualche macabro scherzo. Poi gli arti si muovono, si ricompongono e si dividono nei rispettivi corpi. Si tratta di mia sorella e un ragazzo che ho già visto un paio di volte, mezzi nudi. Per fortuna hanno ancora i pantaloni.
Il viso di mia sorella è paonazzo. Il ragazzo- Matteo forse?- si sta infilando di nuovo la maglietta, ma anche così vedo che sta pensando ansiosamente a qualche giustificazione. Non si è nemmeno accorto che sono la sorella e non la madre della ragazza che si stava allegramente sbattendo sul divano.
< Che diavolo ci fai qui?> chiede Serena con voce acuta. Così acuta che credo abbia superato qualche legge fisica sui suoni.
Sono talmente sorpresa che non riesco a formulare una risposta di senso compiuto. Forse è dovuto al fatto che lei è in reggiseno e sta pensando a molte cose violente che vorrebbe provare, su di me. Provate voi a parlare con qualcuno che ha scritto in fronte che vi vuole uccidere.
< Uhm, finito prima la lezione…?>.
Ok, non è una vera risposta col punto interrogativo alla fine, ma non è che mi fosse rimasta molta prontezza di spirito per risultare convincente.
< Ma che finito prima!> urla lei alzandosi in piedi.
< Hai di nuovo saltato la scuola, vero? Aspetta che lo sappiano mamma e papà…> grida, il viso sempre più rosso.
Matteo ha finito di rivestirsi ed è già sparito nell’entrata. In un attimo ha guadagnato le scale.
< Ti chiamo dopo> sento che dice mentre è sulla porta.
Ma mia sorella sembra del tutto dimentica di lui. La sua attenzione è tutta per me.
Che fortuna!
< Sei la solita bugiarda!> sta urlando intanto mia sorella.
Lo so che non dovrei prendermela. In fondo li ho interrotti in un momento delicato. Ma non è nemmeno colpa mia se non hanno preso la semplice precauzione di chiudersi in camera. Si trattava di fare una decina di passi in più nel corridoio e girare una chiave nella serratura.
Vorrei farglielo notare, ma le parole mi si incastrano in gola mentre i pensieri di Serena si avventano su di me come corvi su un cadavere. Per i suoi occhi sono una figura patetica e maligna spuntata fuori per rovinarle la vita. L’immagine che ha di me è così miserabile che mi viene da piangere solo a guardarla.
Quindi è così che la mia stessa sorella mi vede. Un esserino patetico e ritardato con la bava alla bocca.
Beh, la bava alla bocca è un’invenzione mia, ma credo che non ci voglia molto perché faccia anche quell’aggiunta.
Mi tappo le orecchie con le mani per evitare di sentire i suoi insulti mentali, decisamente più numerosi di quelli che sta urlando. Lei lo prende come un affronto personale.
< Ascolta quando ti parlo!> urla sempre più infuriata.
A dire il vero ascolto anche quando stai zitta… vorrei dire.
< Almeno rispondimi, non stare lì muta come un pesce lesso!>.
Ci sono davvero tante cose che le direi, se solo smettesse per un attimo di martellarmi la mente con i suoi pensieri. Le immagini si espandono attorno a lei, invadendo l’intera stanza. Mi rivedo specchiata in una decina di posti diversi, come in una casa degli specchi. Ogni immagine più assurda. In un angolo vedo il mio viso con gli occhi spalancati e lucidi come quelli di un pesce palla.
< Rispondimi!> grida mia sorella.
Rispondimi. Di’ qualcosa!
Stupida! Stupida!
I suoi pensieri mi feriscono le orecchie come artigli.
Ritardata di una sorella!
Stronza!
Non posso più sopportare di starla ad ascoltare. Scappo in camera sbattendomi la porta alle spalle. Chiudo a chiave con il respiro affannato e mi butto sullo stereo alla scrivania. Lo accendo al massimo del volume e mi lascio scivolare a terra. Finalmente posso scoppiare in lacrime, sola con i miei pensieri che, a dirla tutta, non sono poi gran cosa.
Vengo scossa da dei conati e mi piego in due sul tappeto. Ho ancora lo zaino e la giacca. Mi libero di entrambi lasciandoli in mezzo alla stanza. Mi sento soffocate e mi libero anche della felpa.
La cosa peggiore è che, durante il litigio con mia sorella, ne ho avvertito distintamente il disprezzo. E’ stata come una doccia gelata, condita da un bel pugno nello stomaco.
Fa male.
Mi alzo e butto giù dalla scrivania tutto quello che c’è sopra.
Mi fa sentire meglio.
Il portapenne di latta rotola sul pavimento sparpagliando biro e pennarelli in tutte le direzioni. I quaderni cadono in un ammasso di fogli spiegazzati e un soprammobile orrendo che mi hanno regalato i miei va in pezzi. La musica copre il rumore.
Non è abbastanza.
Come una diga che comincia a cedere in un punto, la furia che sento non può più essere arginata. Il bisogno di distruggere tutto quello che mi passa per le mani è impellente. Mi piacerebbe avere una mazza da baseball. Allora sì che sarebbe divertente.
Prendo le coperte dal letto e le tiro fino a disfarlo del tutto. Non ha fatto nessun rumore.
Vado alla cassettiera sotto la finestra e apro il primo cassetto. Comincio a lanciare il contenuto in giro.
Sto diventando pazza, realizzo.
Chissenefrega.
Il vantaggio è proprio che non sono più responsabile delle mie azioni.
Mi dedico metodicamente al resto della camera. Con calma.
Quando mi fermo, sono sdraiata sul tappeto in mezzo alla stanza. Attorno a me c’è il caos più totale.
Ho il fiatone e alcuni graffi sulle braccia che non so come mi sono fatta.
E sto bene.
Benissimo.
Non conosco la musica alla radio. Ha un bel ritmo e mi metto a seguirlo con la testa, agitandola da un lato e dall’altro. Canticchio addirittura qualche strofa, stonando.
Intorno a me ci sono i resti del contenuto del mio armadio. Non c’è un solo soprammobile al proprio posto. I cassetti sono stati svuotati e il pavimento è coperto da uno strato di vestiti e biancheria, una volta puliti.
Mi sollevo su un gomito per ammirare l’opera appena compiuta. Un parte di me si chiede preoccupata come farà a mettere tutto a posto, ma non è quella predominante. Mi gira la testa per l’euforia.
La musica si ferma e sento bussare alla porta. A giudicare dalle grida è da parecchio che mia madre è arrivata e cerca di farsi aprire.
Mi alzo e spengo la radio. Ho i muscoli delle gambe irrigiditi, come quelli del collo e delle spalle. Mi guardo allo specchio appeso dietro la porta, rimasto intatto per miracolo. Nella mia momentanea pazzia forse ho preferito non attirarmi sette anni di sfiga. Non che le cose possano peggiorare più di tanto. Mi stupisco nello scoprire che il mio viso è normale, rilassato.
< Alice, apri subito questa porta!> sta urlando intanto mia madre.
Obbedisco socchiudendo la porta il necessario per affacciarmi in corridoio. Dietro mia madre, nella penombra, c’è mia sorella in lacrime.
< Che c’è?> chiedo impostando la voce sul tono più innocente che riesco a trovare.
L’euforia di poco prima non è ancora svanita. Mi sento forte, potente. All’improvviso mia sorella non mi fa più così paura. La guardo nell’angolo in cui si è messa, la faccia congestionata e gli occhi lucidi. Tira su col naso distogliendo lo sguardo. I suoi pensieri vorticano come una massa informe. Non ne distinguo nessuno in particolare e anche le sensazioni che sento provenire da lei sono così confuse che non riesco a capirle. E mi rendo conto che non le sento perché non voglio sentirle. E’ come se fossi riuscita a costruire un enorme muro che mi protegge dal resto del mondo.
Guardo mia madre e scopro che il muro tiene fuori anche lei.
E’ come se la vedessi per la prima volta. Solo il suo viso, le sue espressioni. Solo quello che anche gli altri possono vedere.
< Cosa stavi facendo?>.
La voce le trema. Anche lei ha gli occhi lucidi, ma è così pallida che sembra stia per svenire. Deve essersi precipitata a casa dal lavoro. Guardo di nuovo mia sorella. Si è ripresa abbastanza da ricomporre il viso in un’espressione calma.
< Niente> rispondo.
E’ meraviglioso sentire solo la propria voce.
< Fammi entrare> dice mia madre facendo un passo avanti.
Io mi metto in mezzo, chiudendomi la porta alle spalle.
< Lascia stare, mamma. Ho messo in disordine, dopo ripulisco> dico tranquilla.
Nemmeno io riesco a spiegarmi la pace che sento. Forse è per il mio mostrarmi così serena che lei non insiste. Esita e guarda mia sorella, come se non sapesse decidersi su cosa fare.
E capisco che non vuole altri problemi. Vuole credere con tutta se stessa che quello che è appena successo sia solo un banale litigio tra sorelle. Vuole credere che si è spaventata per nulla e che può tornare in ufficio. Non vuole pensare che sua figlia possa essere pazza, non dopo esserci passata tanto tempo prima.
Mi tornano in mente le numerose visite a tutti quei dottori. Così tanti…
Non ricordo i nomi di tutti, solo alcune facce. Ma mi basta quel pensiero perché la mia sicurezza vacilli, solo per un secondo.
< Ho fame, vado a prepararmi qualcosa per pranzo. Volete qualcosa anche voi?> chiedo avviandomi verso la cucina.
In questo modo so che sto lasciando la porta della camera incustodita. Ma non ho bisogno di leggere la mente di mia madre per sapere che tanto non ci entrerà. Perché ha paura di quello che potrebbe trovare. Ha paura che la sua vita vada di nuovo in pezzi.
Serena ci segue dopo una breve esitazione. Lei forse avrebbe controllato, ma non osa farlo con nostra madre lì presente.
E’ strano.
Non vedo più niente intorno a loro. Le immagini sono tutte sparite. Eppure mi sembra di poterle capire meglio di quando avevo libero accesso alle loro menti.
Forse perché prima ne venivo coinvolta. Ora c’è un muro che ci separa.
E pensare è così facile quando si è da soli nella propria testa!

  
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