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Autore: Titinina    30/03/2012    2 recensioni
Eccoci qui! So che non mi sopportate più!
"Remind Me" è una fanfiction dai toni più cupi rispetto alle precedenti, è stato faticoso scriverla, ma mi ha dato la soddisfazione con la S maiuscola. Forse perché c'è tantissimo di me qui dentro! Spero davvero che vi piaccia!
La storia si svolge a conclusione del manga, ma vedremo che un episodio davvero tristissimo sconvolge la vita dei nostri eroi. p.s. Per chi ha visto il drama coreano basato su City Hunter noterete che ho utilizzato alcune location e nomi riferiti proprio al drama, erano lì ed era impossibile non sfruttarlo! A prestissimo! Titinina ^__________^
Genere: Azione, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kaori/Greta, Ryo Saeba/Hunter, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: City Hunter
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Tutti intorno era silenzioso, la sala era buia, sembrava abbandonata. Nessun rumore proveniva da quella casa, solo quel silenzio assordante, così terrificante, così triste.
La luce fioca dei lampioni della strada illuminavano, in piccola parte, le stanze di quella casa vuota, le ombre si stagliavano sul pavimento, creando un gioco di linee scure date da i mobili silenziosi, fermi; ma ad un occhio attento, l’ombra che davvero inquietava di più, era quella massa informe, curva, chiusa.

C’era una donna in quella casa, una donna raggomitolata su se stessa , con un dolore lacerante nel cuore, nell’anima.

Quella posizione era l’unico modo di proteggersi dal proprio inferno personale, stando raggomitolata su se stessa cercava di credere che un minimo di calore, proveniente da se stessa, potesse darle conforto, ma la sua battaglia era persa in partenza, quel suo esile corpo piegato dalla sofferenza, non riusciva a darle nessun calore, solo la consapevolezza di essere sola.

Stringeva a sé una foto, lei con i capelli corti, sorridente, felice. Lui che l’abbracciava e sorrideva di rimando.
Ricordava perfettamente quel momento, impresso a fuoco nella sua memoria.

FLASHBACK
Tutti insieme, come una famiglia, si erano ritrovati a festeggiare Natale a casa di Doc. Ovviamente la neve aveva coperto tutta la città, il giardino di Doc era completamente bianco. Senza pensarci un attimo quel giardino divenne un campo di battaglia, le palle di neve arrivavano su tutti creando momenti di vera ilarità.
La battaglia era senza sosta, neve ovunque, Mick stava prendendo la pala per lanciare la neve su Umibozu. Umibozu non fu molto contento di quella valanga di neve, prese il biondino americano e, con una gomitata ben assestata, lo fece affondare nel terreno, non contento, gli rovesciò altra neve addosso.
Kaori guardava la scena divertita e lui in uno slancio, ridendo come un matto, l’aveva abbracciata davanti a tutti, ridendo di Mick. Lei gli accarezzò il viso, mentre lui la strinse. Intanto si alzò una folata di vento che fece volteggiare la sciarpa di Kaori, sembrava che quel vento fosse lì per loro esclusivamente, che li avvolgesse con quella brezza per essere partecipe, anche lui, di quell’energia che emanavano, forte e allo stesso tempo pacifica. Miki immortalò quel momento così speciale, così semplice, così prezioso.

FINE FLASHBACK

Erano passati quasi due anni da quel Natale, l’ultimo che avevano passato insieme.
Kaori guardò ancora quell’unica foto. E le lacrime continuarono a scendere sul suo viso, singhiozzi a non finire le sconquassavano il petto, dondolava disperata e raggomitolata. Niente poteva lenire il suo dolore, la solitudine del suo cuore non si colmava e la notte la passava in bianco attaccata alla finestra, con la piccola speranza di vederlo spuntare da qualche parte.
Due anni dolorosi. Due anni impossibili. Due anni senza di lui. Senza Ryo.

Rabbia, sconforto, angoscia, disperazione albergavano in Kaori, tutte le notti le sfogava piangendo quelle lacrime così amare.
Due anni in cui tutta la sua esistenza prese una piega sconfortante, aveva perso tutto. Tutto ciò che conosceva e ciò che gli era più caro. I suoi occhi erano spenti, senza vita, tutta la luce era andata perduta, solo degli occhi vuoti.
Kaori era solo un corpo che funzionava biologicamente. Si respirava, si dormiva, si camminava, si parlava, ma era fatto tutto per inerzia, per sopravvivere al dolore. Aveva sopportato tutto con stoica fierezza, ma questo brutto tiro mancino che il destino le aveva dato, non riusciva a reggerlo.
Pensò che il destino si stesse accanendo con lei, le portava via tutti quelli che amava.
Fece una risata amara, pensando che, per otto anni, Ryo aveva cercato di allontanarla per la paura di perderla, e, per gioco del fato, era stata lei a perdere lui.
Forse aveva toccato la felicità con mano e allora le era stata inflitta questa ennesima botta. Felicità pura da quando Ryo si era dichiarato alla raduna. Quell’abbraccio aveva suggellato il loro amore. Quel giorno si erano promessi di vivere l’uno per l’altra senza più muri, senza più paura. Quella notte si erano amati per la prima volta, come non era mai successo prima per nessuno dei due. Finalmente avevano fatto il salto. Si scoprivano giorno dopo giorno, momento dopo momento, tra urla, sguardi magnetici, martelli, baci furtivi, carezze e polvere da sparo. Il loro paradiso.

E poi quel maledetto giorno. Lui sulla soglia della porta. Si erano salutati a loro modo, tra un urlo e un lancio di martello.
Ryo aprì la porta di casa, girato con la borsa sulla spalla. Kaori gli corse dietro e lo abbracciò possessivamente.



Queste parole sussurrate, la promessa di tornare presto a casa.
E la porta si chiuse.
E un brivido freddo le attraversò la spina dorsale.
Le loro ultime parole,l’ultima volta che si erano visti, l’ultima volta che il loro abbraccio li aveva confortati.

Ma non aveva mantenuto la sua promessa. Lui non era tornato.

La bile, per l’ennesima volta, le si rivoltò e rigurgitò di nuovo il suo dolore. Nessuna traccia di lui, sembrava sparito dalla faccia della terra.
Rimase lì ferma, nel suo dolore, ad aspettare l’alba, un nuovo giorno sarebbe arrivato, doveva ricominciare a fare la sua pantomima di fronte agli altri, far finta di vivere.
Senza Ryo.



In quella mattina di metà marzo, Mick Angel decise di uscire di buon’ora, aveva un appuntamento di lavoro, una nuova cliente che chiedeva il loro aiuto. Prima di uscire di casa, baciò Kazue, che gli passò la sua tazza di caffè. Finalmente aveva trovato la donna che lo completava, Kazue dava un tocco di serenità alla sua vita, vederla al suo rientro dopo una giornata faticosa, era il premio che si era giustamente meritato. Dopo una vita passata a combattere per la sua sopravvivenza, era finalmente giunto ad un equilibrio interiore, non più la legge del taglione, ma vivere con gioia, con voglia di dare, con voglia di amare. E la donna che lo aspettava a casa era ciò che di più prezioso aveva al mondo in questo momento.

Scese velocemente le scale di casa e aprì il portone. Ma il suo sguardo celeste si incupì, davanti a lui una palazzina bianca. Ecco lo schiaffo mattutino, il ritorno alla realtà, quella palazzina non era più una casa accogliente, ma un rifugio dal mondo per un’anima perduta. Un’anima che aveva amato e che da due anni non riusciva a darsi pace. Abbassò lo sguardo e cercò di scacciare in qualche modo quel pensiero. Si sentiva in colpa. Si in colpa, lui era stato fortunato, dopo tanto cercare aveva finalmente trovato il suo posto, la sua dimensione.

Ma gli abitanti della palazzina di fronte non erano stati così fortunati, quella palazzina bianca conteneva solo dolore ora, e allora sentiva quel senso di colpa afferrargli lo stomaco nei confronti di coloro che gli avevano dato il dono di vivere con la loro amicizia, e lui non aveva potuto contraccambiare.

Mick accese nervosamente la prima sigaretta della giornata, camminando lentamente, nella brezza mattutina, cercò di darsi una scrollata da quei pensieri, aveva una nuova giornata da affrontare.
Si incamminò con passo deciso nelle vie di Shinjuku, andando verso il Cat’s Eye.



Miki Injuin stava spazzando l’entrata del suo bar, gli ultimi clienti di quella mattinata stavano uscendo dal bar. Quella mattina il bar era stato affollato, come del resto le altre mattine. Gli impiegati degli uffici della zona avevano scoperto il Cat’s Eye e avevano preso l’abitudine di fermarsi al bar per un caffè prima del lavoro. Nella zona, la fama del Cat’s Eye era decisamente migliorata. Tutti ne parlavano molto bene, tutti dicevano che la proprietaria era gentile, educata e molto bella. Ogni tanto compariva il marito della proprietaria, ma, quell’uomo gigante e pelato, si vedeva sempre molto poco, stava nel retrobottega, non spaventando i clienti come prima.

Miki Injuin non poteva lamentarsi. Lei e suo marito si amavano, gli affari andavano bene, si desiderava tanto un bambino, ma se in quel momento non arrivava, non era un problema. La sua vita scorreva serena, come aveva desiderato. Si fermò alzando lo sguardo verso l’insegna del suo bar. Cat’s Eye. Ma il sorriso di Miki non arrivava davvero ai suoi occhi.
Il suo bar aveva cominciato ad andare bene da quando non veniva più distrutto, da quando le vetrine erano intatte, da quando i suoi vassoi non venivano lanciati, da quando suo marito non piantonava più il bar per fermare lo stato di lubricità del maniaco, da quando la sua migliore amica non andava in giro con un martello di enormi dimensioni per fermare il maniaco.

Miki fece un ghigno, il maniaco, lo Stallone di Shinjuku. Il suo bar andava meglio. Ma la sua famiglia, i suoi amici, si erano diradati. Non perché non si volessero bene. No. Perché la loro unione si era appesantita a causa si una perdita a cui non riuscivano a dare una spiegazione. Niente più scherzi, niente più risate, niente più calore.

Kaori e Ryo. Ryo e Kaori. I due nomi le rimbalzavano nella testa . Strinse più forte con le mani il manico della scopa. Una lacrima le scivolò sulla guancia senza che se ne accorgesse.

- Oh Darling, le belle donne come te non dovrebbero piangere, ma solo sorridere.

Mick porse il suo fazzoletto a Miki da vero galantuomo, come nel suo stile.


Umibozu nel retro del bar stava scaricando la merce, le casse di caffè, i liquori, le vivande.

Pagò il fornitore del bar e firmò la bolla.

- Signor Ijuin, sbaglio, o è da un po’ che non fa gli ordini per le tazze nuove?

- Mh non ne abbiamo bisogno.

E si voltò portando con sé la merce.
Riuscì, senza grandi sforzi, a portare tutto all’interno del bar. Con la sua meticolosità sistemo tutto in ordine. Finito il suo lavoro, la sua mano si posò per aprire la botola interna, e lì tastò delle scatole impolverate. Tazze e piatti inscatolati, nuovi. Umibozu sapeva da quanto tempo erano lì, sapeva benissimo perché non avevano bisogno di tazze, non c’è ne era bisogno perché nessuno più le rompeva.

Umibozu strinse forte la mano in un pugno. Quel figlio di puttana non poteva essere morto. La pelle doveva fargliela lui. Non poteva essere morto, avevano ancora una sfida in sospeso.

Il tintinnio del campanello del bar risuonò e Umibozu riconobbe immediatamente il passo di sua moglie e di Mick che entravano nel bar.

Mick aprì la porta a Miki e la fece entrare.

- Kaori è arrivata?
- Non ancora Mick. Ma vedrai che non ritarderà. Lei non è mai in ritardo.
- Già.

Mick accese ancora una sigaretta, si sedette su uno degli sgabelli del bancone e accavallò le gambe. Umibozu uscì dal retro e, dopo aver salutato con un cenno della testa, cominciò a preparare il suo famoso caffè, ma questo era per lei, che stava arrivando.

Kaori era a pochi passi dal Cat’s Eye. Camminava lenta in quella mattina di marzo. Cercava di respirare e di camminare. Questo era l’input che dava il suo cervello. Respirare e camminare. Il senso di angoscia che l’aveva attanagliata per tutta la notte doveva rimanere a casa. Cercò di sorridere, di trovare il modo di sorridere. Ma non ce la fece. Aprì la porta del bar.

Miki guardò Kaori, i capelli che le arrivavano sotto il collo, il viso bianco e smagrito, le occhiaie. Era dimagrita e anche tanto, sembrava il fantasma di quella donna che aveva conosciuto e che amava come una sorella.

- Buongiorno a tutti.
- Buongiorno Kaori, siediti, Umi ha preparato il tuo caffè.
- Grazie Miki, grazie Umibozu, non so che farei senza il tuo caffè.
- Mangia anche questo pezzo di torta Kaori, è appena sfornata.

Umibozu porse la tazza davanti a Kaori e versò il caffè con cura.

- No grazie Miki, non ho molta fame.
- Dai sicuramente non avrai fatto ancora colazione. Mangiane almeno un pezzetto.

Kaori scosse ancora la testa, ma si sforzò di mettere almeno in bocca un cucchiaio. Sapeva che era dimagrita molto, di certo anche gli altri se ne erano accorti, e si preoccupavano per lei. Mettendo il boccone in bocca, guardò Miki.

- E’ squisita! Grazie. Allora Mick, quando arriva la cliente?
- Tra mezzora, Darling, abbiamo il tempo di rilassarci.
- Bene. E poi mi sembra che questo caso sia molto semplice.
- Si, dobbiamo solo scortarla al tribunale venerdì mattina.
- La porta direttamente Saeko qui, vero?
- Si, certo.
- Bene.

Mick guardò Kaori vestita di un maglioncino bianco e di jeans semplici. Più la guardava più cercava di capire dove trovava, in quel corpo esile, la forza e la volontà di lavorare. Quella donna, che una parte del suo cuore amava ancora, indossava una maschera, ma riusciva a vedere comunque la sua sofferenza e avrebbe voluto davvero abbracciarla, ma non lo avrebbe fatto. Non voleva compatirla, il suo modo di starle vicino era continuare a lavorare con lei, per lei, per City Hunter.


Una porsche rossa sfrecciava tra le vie trafficate di Tokyo, Saeko Nogami dava gas alla sua auto facendo slalom tra le macchine, guidava sicura verso il distretto. Era ormai pomeriggio, la mattinata l’aveva passata al Cat’s Eye con una testimone che aveva affidato alle cure di City Hunter, ovvero Mick e Kaori. Un caso molto semplice, dovevano solo scortarla il giorno dopo al tribunale, niente di eccezionale.

Correva ancora forte, tutto era più difficile in verità, ogni caso tortuoso diventava abbastanza difficile da superare, quel maledetto non poteva aiutarla, scomparso da due anni. Giurò su se stessa che se fosse ritornato gli avrebbe impiantato uno dei suoi coltelli nei gioielli di famiglia.

Parcheggiò la sua porche sotto la questura ed entro nell’edificio. I poliziotti le fecero il saluto al suo passaggio, ma non li guardò neanche, abilissima nei suoi tacchi alti, Saeko, si chiuse nell’ascensore e salì al penultimo piano dell ‘edificio. Si inoltro nel corridoio e fece cenno di saluto alla sua segretaria. Entrando nel suo ufficio, si sedette sulla sua poltrona di pelle comoda.

Con mille pensieri per la testa fece per tirare fuori la sua agenda da un cassetto in modo da vedere quali altri appuntamenti aveva per la giornata. Improvvisamente la sua attenzione virò sulla foto. Lei, Maki e Ryo. L’occhio cadde su Ryo, per la rabbia chiuse il cassetto con troppa forza e si alzò a prendere un bicchiere di scotch, se ne versò nel bicchiere e si girò verso la vetrata del suo studio. Bevve tutto d’un fiato. E il suo senso di colpa si propragò nel profondo del suo essere come l’acol. Era colpa sua, se non gli avesse parlato di quel caso, se non avesse detto di Maki, lui non sarebbe partito. Scacciò quel pensiero, l’aveva promesso a lei, lei le aveva detto che quello era il loro mestiere e che non era colpa sua. Erano i rischi del mestiere.
Ripercorreva con la mente la figura di Kaori, i suoi occhi gonfi di pianto ma una forza sovraumana nel cercare di farle capire che non la riteneva responsabile di quello che era accaduto. Le aveva ricordato lei e il suo dolore di anni prima alla scomparsa del suo Maki. Sapeva benissimo che Kaori sfogava la sua rabbia e la sua frustrazione la notte, da sola, come del resto faceva lei da dieci lunghi anni.
Si rimise al lavoro, sapeva che la notte sarebbe stata lunga in ufficio, e tirò fuori le carte del processo del giorno dopo.

***********************************************************************

Quegli occhi scuri, castani, luminosi, lo stavano fissando. Pieni di vita, pieni di luce per lui. Non riusciva a vedere i tratti di quella donna, ma poteva vedere la sua bocca muoversi. Sembrava dirgli qualcosa. Ma lui non sentiva, non sentiva niente, glielo ripeteva - non sento quello che dici- e lei gli sorrideva, allora non importava ciò che diceva, quel sorriso era così rassicurante, così bello, così caldo che il resto non importava.
Ma quel sorriso si allontanava, cercava in tutti i modi di raggiungerla, gli urlava di fermarsi, di aspettarlo. Intanto una strana angoscia gli serrava il cuore. Correva, ma tutto veniva annebbiato. E ogni volta rimaneva solo, con la strana sensazione di aver perso qualcosa di importante, di fondamentale per lui.

Un tuono fece un enorme boato, lui si svegliò di colpo dalla sua branda, madido di sudore.

Ancora una volta quel sogno lo perseguitava, una donna che gli sorrideva, ma lui non sapeva chi fosse. E quell’angoscia continuava a serragli il petto. Si strofinò gli occhi energicamente. Pensò fosse una stupidata farsi soggiogare così da un sogno. Eppure continuava a farlo tutte le notti.

Un uomo aprì la tenda dove lui riposava.

- Ehi Steve, tocca a te la ronda.

Steve si alzò, infilò gli stivali e accese una sigaretta.

- Si, sto arrivando.

Tra una boccata di fumo e l’altra, allungò le braccia. Gli aspettava un’altra nottata sotto quell’acqua torrida. Era da circa un anno che ormai faceva il mercenario insieme a quel plotone nella giungla thailandese. Non ricordava chi fosse, sapeva soltanto che una mattina si era svegliato pieno di fasciature e di bruciature e non ricordava assolutamente nulla, la sua testa era vuota, nessun ricordo. Lo aveva trovato il plotone in cui era stato ingaggiato. Avendo solo con sé una pistola e un anello, aveva dedotto che, forse, rimanere con loro, era il modo migliore per sopravvivere.

Nella sua testa solo un nome: Steve Lee.

Il suo plotone pattugliava la giungla, e quell’ambiente militaresco e infido gli era familiare, forse era nato in quel posto, visto l’agio con cui si muoveva, forse aveva sempre vissuto lì e non se lo ricordava. Ma gli sembrava il posto più congeniale per lui, perciò non si fece troppe domande,si sentì nei panni giusti nel ruolo di mercenario.

Steve si guardò allo specchio, passò la mano tra i suoi capelli neri, ormai lunghi che teneva legati. Immerse le mani nell’acqua del catino di fronte a lui e si rinfrescò il viso energicamente, la barba era ormai lunga, gli copriva il viso, ma decise di lasciarla così ormai da qualche mese. Indossò la giacca della sua tuta mimetica e gettò il mozzicone a terra. Uscì dalla sua tenda, non senza aver preso con sé l’anello, che teneva attaccato al collo con un laccio e che nascondeva sotto la maglia, e la sua pistola, una Colt Python 357 Magnum, decisamente una bella pistola.

Fece cenno al suo compagno e cominciò il suo giro di ronda.

La pioggia lo bagnava da capo a piedi, ma non se ne curava, con la mente sempre attiva, scrutava la zona, attento ad ogni minimo rumore che la giungla faceva di notte.
Steve Lee, però, non riusciva a togliersi dalla testa quel sorriso che tutte le notti lo perseguitava.
   
 
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