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Autore: Arlic Do Rei    30/03/2012    0 recensioni
La famiglia non la puoi scegliere. Ci nasci dentro e basta. Gli amici te li puoi scegliere. Gli amori te li puoi scegliere. Ma i parenti sono come gli stivali: più sono stretti più fanno male. Questa è la storia di un ragazzo non ordinario, e di una famiglia altrettanto non negli schemi.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Chiamarono per la cena intorno alle otto di sera.
Mi alzai dal letto. Cercavo di variare ma ogni volta i miei movimenti era pari a quelli di una mummia. Quelle dei film dell'orrore. Dei film dell'orrore che non fanno paura. Mi misi a sedere. D'istinto posai la mano sul mio occhio destro. Non mi serviva uno specchio per capire che la fasciatura era nuovamente intrisa di sangue. La ferita era ancora aperta. O si doveva essere riaperta durante la notte. I dottori dicevano che nel sonno mi muovevo molto. Avevo un sonno agitato, turbato da incubi che non ricordavo. 
Mia madre aveva voluto che tutta la mi stanza fosse immersa nel buio più pesto: sosteneva che nel buio avrei ritrovato la pace dei sensi e che avrei potuto meditare sui miei gesti sconsiderati da adolescente. Io pensavo che non faceva altro che aumentare le mie angosce notturne, di cui i dottori sostenevano fossi affetto. Nella testa di mia madre non mi sarei mai allantonato dallo status di "bambino". Non importa quanti anni avessi. Per lei sarei rimasto un neonato per tutta la vita. E le condizioni fisiche in cui ero costretto non rendevano tale idea tanto diversa dalla realtà. Non dibattevo mai contro mia madre; non ne valeva la pena. Solo una cosa mi ero riuscito a guadagnare nei nostri scontri senza regole né quartiere: l'indipendenza per andare al bagno.
Mi alzai spingendo con le mani sul materasso. Mi sembrava che le mie ossa cedettero per lo sforzo. Barcollai. Lentamente posai un passo dopo l'altro, Beethoven e la sua malinconica Sonata di Mezzanotte avrebbero accompagnato i miei passi. Uno dopo l'altro. Senza fretta. Ai malati poteva essere perdonato un minimo di ritardo. Infilai i piedi rinsecchiti nelle pantofole. Erano di un azzurro orrendo e impolverate. Le strisciai con non curanza e con un arroganza propria di me. Avrei dovuto spiegare alla cameriera che le ciabatte le volevo rosa. Un po' di colore avrebbe giovato.
 
Spostai la sedia provocando un insopportabile stridio. Composto al mio posto. La sala da pranzo era stata adattata alle mie "esigenze", predisposte ovviamente da mia madre. Si cenava a luci abbassate e a tende tirate. Le lampadine fioche erano fuochi fatui immersi in un banco di nebbia. la mia famiglia aveva un curioso senso dell'umorismo. Con metà delle mie capacità visive i pasti divenivano un interessante tiro al bersaglio nel piatto. Senza contare che mi mancava il senso della profondità e a tentoni impugnavo il bicchiere e le posate come una pinzatrice. Mia madre si sedette a capo tavola (non v'erano dubbi a riguardo), ma per sottolineare la cosa, lanciò uno sguardo fulminante Robert come per dire "Questo è il mio posto". Mia madre non era una casalinga, lavorava e guadagnava bene perciò ci teneva a mentenere all'interno della famiglia una certa posizione di rilievo. Suo marito invece le sorrideva quando lo punzecchiava con certe stupidaggini, di lui sapevo molto poco e non ho idea perché non me ne fossi mai interessato, forse perché non mi aveva mai obbligato a provare lo stesso piacere che aveva lui nello svoglere il suo lavoro o intraprendere i suoi hobby. Robert era un uomo tranquillo. Lui lasciava vivere me e io lo lasciavo in pace. Una convivenza più che sopportabile, non potevo dire lo stesso per mia sorella. Ma non accelleriamo i tempi. Robert si sedette senza proferire una sola parola. I due coniugi si presentavano elegantemente in nero, parevano in visita ad un malato terminale o alla celebrazione di un funerale. La cosa mi divertiva. Dopo tutto quel tempo passato lontano da casa la mia ammorbante famiglia continuava a preoccuparsi per me. Con l'alito sul collo. 
Con un fragore le porte del salone si spalancarono. Il rumore di tacchetti sul pavimento risuonò a tempo di marcia. Quando era nervosa mia sorella si vestiva come una sgualdrina, con pantaloni neri attillati e maglietta strappata per lasciar scoperta la spalla e mettere il laccetto di pizzo del reggiseno in bella vista. trucco ancora spiaccicato sulla faccia. Chioma rigorosamente laccata e ribelle. Probabilmente non aveva nemmeno passato la notte in casa. Era furibonda, e da come si muoveva si capiva. Tuttavia teneva gli occhi bassi per dissimulare. Era una che si faceva trasportare dalle cose, come tutti in famiglia d'altronde.
- Buon appetito - Robert spezzò il ghiaccio.
In tavola il cibo era già stato portato ed era rimasto fermo, a raffreddarsi, ad aspettare i commensali. Misi il piatto di carne davanti agli occhi, anzi davanti all'occhio, e lo scartai. Feci lo stesso con la pasta, il pesce, e tutte le porcherie che mi servivano. Mia sorella continuava a scrutarmi; ma appena i nostri sguardi si incrociavano fingeva la calma assoluta e tornava a ruminare la sua triglia marinata. Lei era strana. A volte più di me. La mattina presto mangiava aringhe affumicate e cenava con una tavoletta di cioccolato colombiano importato e un bicchiere di latte freddo. Non ci stava con la testa, suppongo che questa sia la peculiarità degli artisti, e lei era l'artista di famiglia, e io non ero un granché come critico d'arte.
Mi misi sulla sedia a gambe incrociate, rischiando di cadere un paio di volte: il mio corpo non si era ripreso. Certo, una posizione da seduto, come andava "normalmente" su una sedia, mi avrebbe permesso maggiore stabilità e comodità, ma non me ne fregava. Poi allungai il braccio destro, e afferrai una foglia di insalata, la decorazione dell'agnello arrosto che la servitù accuratamente adagiato su un piatto d'argento. La infilai compeltamente in bocca, prestando la massima attenzione nel non sporcarmi di salsa, e presi a masticarla, con gusto. Subito dopo afferrai un tovagliolo e mi pulì frenaticamente le mani. Lo sporco era una delle mie fobie maggiori. Se mi fosse stato permesso avrei volentieri indossato dei guanti in lattice per tutto il giorno. Ma alcuni dottori sotenevano che questo mio disturbo psicologico non andava assecondato. La casa diveniva un problema ogni giorno di più: era vecchia, in altre parole cadeva a pezzi; le mura si sgretolavano ma i padroni avevano ben pensato di nascondere tutto con arazzi abnormi e tende di velluto rosso. Poi bastava aggiungere qualche divanetto, qualche mazzo di fiori e una statuetta in marmo bianco per spostare l'attenzione dei visitatore e nessuno avrebbe fatto domande. Se fosse stato per me avrei avvolto tutto quanto nella pellicola trasparente e poi avrei dato fuoco alla casa. All'intera casa. Conteneva tutti i miei ricordi e la mia strepitosa infanzia. Si avrei potuto darle fuoco. Non ci voleva molto. Una tanica di benzina bastava. Il resto lo avrebbero inghiottito le fiamme.
- Puoi smettere di masticare quella fottuta foglia di insalata?
Era consuetudine che mia sorella adoperasse intercalari come "Stronzo" o "Testa di cazzo". Non c'è che dire: lei sapeva decisamente come farsi notare, in modo barbaro e di poca classe, ma in fondo non le importava se gli altri conservassero di lei un ricordo positivo o negativo. La cosa importante era che si parlasse di lei, era pur sempre pubblicità. 
Continuai a masticare fissandola con il mio occhio buono. Poi deglutì la mia saliva.
- E' sempre un piacere averti a tavola sorellina. - E, come se le mie dita fossero pinze, strappai un petalo di margherita dal centrotavola e presi a masticarlo.
- Smetti di fare il cretino.
Volevo vedere fin dove la sua pazienza poteva spingersi. Anche se in verità lo sapevo fin troppo bene. Adoravo stuzzicarla. Lei era una che se la prendeva per niente e reagiva melodrammaticamente, sbottava, urlava, malediva e spariva per un periodo indeterminato di tempo, quell'intervallo lo chiamavo "Momento di sbollizione". Anche se non ero sicuro che "Sbollizione" fosse corretto come termine. Sapevo benissimo che se l'avessi fatta alterare troppo avrebbe stretto il coltello della frutta tra le dita e avrebbe cercato di cavarmi il secondo occhio. Aveva una potenza mostruosa in quelle braccine. Non pensavo che agitare pennelli tra la tavolozza e la tela fosse così proficuo come attività.
- E tu smetti di vestirti come una che si farebbe un obeso per soldi - Sogghignai mostrandole i troppi denti affilati che conteneva la mia bocca.
- Ragazzi per cortesia. - mia madre mediò la questione con la compostezza e l'eleganza di una duchessa inglese e allo stesso tempo con la precisione di un generale tedesco nazista del secondo Reich - Siamo a tavola.
Giusto. Mi ero dimenticato le regole della casa. Gli unici posti in cui erano rigorosamente vietati gli spargimenti di sangue erano la sala da pranzo, la cucina (troppi oggetti pericolosi), e il bagno, perché era la stanza sacra e devota all'intimità del corpo. In alcuni momenti mia madre l'avrei mangiata. l'insensato terrore per la sporcizia e la mia continua ossessione per l'igiene me l'aveva trasmessa lei. Era una cosa insopportabile con cui dovevo fare i conti ogni giorno nella mia vita. Non che si stesse poi così male. Anzi in alcuni momenti mi veniva voglia di ringraziarla.
- Insomma - fa mio padre - Sally è di nuovo in città.
- Chi? - rispose mia madre posando il bicchiere di vino stracolmo - La figlia dei De Rossi?
- Proprio lei - ammise lui sogghignando tra i baffi. Anche se i baffi non li aveva.
- Ho sempre trovato una stupidaggine. Perché cambiare nome da "Sara" a "Sally"? Solo perché ha trovato fortuna in America ora pensa di potersi atteggiare come una diva. Lo sai che non sopporto delle persone del genere.
- Tuo figlio però lo sopporti ancora. 
Mia sorella si sentiva sempre in dovere di sputare del veleno.
Io mi asciugai le labbra con il tovagliolo, avevo appena inghiottito un bel sorso d'acqua frizzante per scacciare il senso di nasuea che mi era salito sino al palato. Non mi scomposi e fortunatamente il mio stomaco non ne risentì. Ma la nausea aveva raggiunto la punta della lingua.
- Serena. - feci io. Lei alzò lo sguardo spostando da un lato la matassa di capelli fulvi - Sei una sadica puttana.
A tavola l'atmosfera si congelò. Mia madre sbuffò e si riempì il terzo bicchiere di vino, mentre Robert faceva scivolare le posate accanto al piatto perchè non era decisamente più dell'umore di ingurgitare qualcos'altro. Lei invece sedeva alla mia sinistra, dove potevo osservarla con il mio occhio buono. Era rimasta pietrificata con la forchetta a metà traiettoria tra le sue fauci e la sua amata triglia marinata. Aveva gli occhi spalancati e le labbra appena dischiuse.
Lo avevo detto con un sorriso, con una gentilezza sincera e acida allo stesso tempo, quasi avessi pietà di lei. In famiglia detestavamo la pietà. Era un sentimento intollerabile. Avere pietà di qualcuno significava porsi su un piano superiore a quello, sapere di essere migliori o più importanti. Noi, la mia famiglia, non avevamo bisogno proprio della pietà di nessuno.
Serena sollevò la mano in aria stringendo la posata e picchiò con forza il tavolo: la forchetta si conficcò nel legno e si piegò sotto il suo gentile tocco di donna come un qualsiasi pezzo di plastica, infine si spezzò e cadendo a terra produsse un delicato tintinnio metallico. La cosa non mi sorprese per nulla, forse avrebbe sorpreso qualcun'altro, ma non me. Ne mia madre. Ne Robert.
- Ripeti se hai il coraggio dannato finocchio!
- Serena! - Mia madre sbraitò alzandosi da tavola e sbattendò le mani sul legno: accentuava decisamente la sua entrata nello scontro - Siamo a tavola.
La sala da pranzo era uno dei pochi luoghi dove fosse tassativamente vietato mettersi le mani addosso, pena la morte per mano di mia madre. Era una donna tutto sommato ancora molto giovanile, ammetterlo mi disgustava parecchio ma dovevo pur concederle questa soddisfazione, capelli di un argento sgargiante e occhi determinati e precisi, come il mirino di un fucile; erano rari i momenti in cui mangiava qualche cosa, si limitava a cibi che non proiettavano ombra. Supponevo che il suo corpo fosse posseduto da chissà quale spirito maligno. Avevo fantasticato spesso sulla morte di mia madre: in un primo momento non riuscivo a realizzare tale avvenimento, forse si sarebbe dissolta nella polvere e nella cenere, sarebbe ritornata alla terra e allo sporco contro cui combatteva da tutta una vita nel nome della Rupofobia che la assaliva, successivamente però concepì il giorno della sua morte come un incontro di lotta libera, lei in un angolo avvolta impeccabilmente nei suoi vestiti di seta che le scendevano graziosamente sui fianchi (devo avere un qualche complesso di Edipo), e dall'altra parte il cupo mietitore nascosto sotto una cappa grigio scura e la nebbia, i servitori infernali e i demoni che lo incitavano fanatici. In entrambi i casi lei avrebbe sicuramente vinto, ma si sarebbe lasciata portare via con umiltà. Riconoscendo che alla fine era un essere umano. L'avrebbe lasciata vinta alla morte per pietà insomma.
 
Mi sedetti sul letto. Era domenica. Io odiavo le domeniche soprattutto quelle di inverno: l'aria si faceva pesante e noiosa, l'unico mio desiderio era quello di mettermi a dormire e non svegliarmi fino al giorno dopo. Detestavo i fine settimana e i pranzi in famiglia, detestavo mangiare ai pranzi di famiglia ma sul momento non saprei dire sinceramente il perché. Al mio psicologo la buttai come un dramma adolescenziale di passaggio, lui aveva potuto interpretarlo per bene e guadagnare i soldi che si era meritato rimanendo seduto su una poltrana a farmi domande invece di darmi delle risposte. Non potevo nemmeno lamentarmi tanto, mi aveva fatto un pò pena, nelle prime sedute non era riuscito ad estrapolarmi nemmeno una parola dalla bocca. Si era sentito come uno zingaro.
Mi passai una mano tra i capelli. Odiavo mettermi a lavorare la domenica pomeriggio; era decisamente un lavoro ingrato il mio, e mi domandavo sempre più frequentemente perché lo stessi facendo.
Mi diressi verso la porta della mia stanza. Non mi degnai nemmeno di una risposta.
Strattonai la maniglia verso di me con tutto il menefreghismo che era possibile, misi un passo uno davanti all'altro nel corridoio. Mi passavo la mano tra i capelli, ne ero ossessionato, sentirli sporchi al tatto, o umidi, oppure appiccicosi, erano tutte immagini che prendevano vita nella mia testa, ma per me erano reali. Era un altro problema che dovevo aggiungere con un po' di coraggio alla lista. Presi l'ascensore della villa e spinsi il bottone del terzo piano con il dito medio della mano destra. L'indice lo usavo solo in presenza di estranei, per il resto preferivo adoperare tutte le dita nel modo più diverso possibile.
- Merda.
Me lo lasciai scappare con un po' di perfidia. Mi ero reso conto di essere completamente fuori di testa. Ogni giorno quando mi svegliavo la mattina me lo dimenticavo, e se durante la giornata me ne ricordavo rimanevo di cattivo umore sino al momento di coricarmi.
- Dannatamente merda.
Forse il mio linguaggio era troppo sboccato e volgare, ma mi sfogavo il più possibile quando ero solo: gli ospiti erano sacri. L'ascensore si fermò alle cantine della casa, stavano diversi metri sottoterra, le porte si aprirono accompagnate dal suono metallico di bulloni e viti cigolanti e cinghie del motore che si deformavano. Feci un passo in avanti. Aspettai con pazienza con lo sguardo fisso che le porte si richiusero dietro di me automaticamente, che la lucetta dell'abitacolo si spense e che la macchina smise di funzionare. Mi avvolse il buio.
Misi un passo davanti all'altro. Sapevo la strada a memoria. Strinsi la maniglia della prima porta che mi trovai dinnanzi e la girai lentamente, godendomi ogni dettaglio di quel suono. A illuminare la stanza c'era solo una lampadina che pendeva dal soffito, il pavimento era ricoperto di paglia e contro il muro, opposto all'entrata sedeva un uomo. Era un uomo vecchio, solo, sporco, grasso, peloso.
Mi fermai.
Il mio unico occhio funzionante era spalancato come un predatore alla ricerca di cibo me ne stavo buono buono al mio posto, pronto a scattare all'attacco appena possibile. Osservai quella creatura ancora una volta. Il suo corpo era ricoperto da ferite, era stato martoriato da lame di tutti i tipi, era stato pestato e gli avevano rotto il naso con il collo di una bottiglia, gli avevano strappato i capelli con le mani e staccato il lobo dell'orecchio con un morso.
Chiesi perdono a Dio per cinque volte. Non mi ascoltava, non lo faceva mai.
Io fremevo, il mio corpo era pervaso da brividi di freddo e scariche elettriche, e io ero eccitato come un lurido maiale.
- Buongiorno Olaf.
Olaf alzò lo sguardo. Aveva gli occhi di chi aveva abbandonato ogni speranza già da tempo.
- Non è il mio nome.
Rispose con un filo di voce.
Io tirai le estremità delle labbre per mostrargli tutti i miei splendidi denti.
- Lo so. Ma adoro dare nuovi nomi alle cose. Perché sono mie.
Chiusi la porta dietro di me.
  
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