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Autore: Acqua Efp    30/03/2012    5 recensioni
Jennifer Huxley è una donna felice e con un lavoro che la rende soddisfatta e, soprattutto, si è lasciata la scuola superiore e i compagni di classe alle spalle. Peccato che i suddetti compagni di classe abbiano organizzato una festa di carnevale con l'obiettivo di riunirsi e che lei sia stata invitata.
Chi tra i suoi ex compagni si celerà dietro la maschera del galante Zorro che la trascina sulla pista da ballo?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Guess who? - pubblicata
Questa storia è nata grazie al contest "Giù la maschera" indetto nel gruppo facebook "Tutte per una"; è una storia senza pretese ma che mi sono divertita a scrivere e che ho adorato in ogni momento.

http://img843.imageshack.us/img843/3732/guesswhoye.jpg

GUESS WHO?

 
 


A Lela, Elle e Cinzia
grazie per l'opportunità



 
È meglio essere odiati per ciò che siamo che amati per la maschera che portiamo.
[Jim Morrison]


 
 
        Il mio nome è Jennifer Huxley e sono allergica alle feste. Per essere più precisi sono allergica al clima di falso buonismo che si crea durante le feste e, quando vivi in una città come New York, è un po’ difficile fuggirne.
       Ho tirato un sospiro di sollievo quando anche quest’anno San Valentino ha lasciato il posto al quindici febbraio e credevo di non dover più far i conti con allegria e ipocrisia fino a Pasqua, ma chiaramente mi ero scordata di Carnevale. Sì, perché nel 2012, come del resto è successo negli ultimi anni, ogni scusa è buona per festeggiare e spendere soldi inutilmente.
        Carnevale, fino a qualche giorno fa perlomeno, era una delle poche feste che potevo far a meno di odiare; certo non sono mai stata tra le persone che andavano in giro in cerca di un costume per partecipare al party più ‘in’ dell’anno, ma non ho mai nemmeno provato per questo giorno il disprezzo che invece sentivo per le altre celebrazioni.
        Il cambiamento è avvenuto, come dicevo, qualche giorno fa.
        Come tutti gli altri giorni, mi ero alzata presto per andare a lavorare, ignara che la disgrazia mi aspettasse contenuta in una busta bianca davanti la porta di casa mia.
Dopo aver fatto colazione con il mio solito caffè nero e aver indossato divisa da infermiera e cappotto, aprii la porta pronta ad uscire: fu allora che lo trovai.
      La posta se ne stava, come tutte le mattine, in bella vista sul mio zerbino monocolore: la raccolsi tutta in un’unica bracciata e mi diressi alla macchina; solo dopo essermi seduta ed aver acceso motore e riscaldamento, mi decisi a sbirciare la mia corrispondenza. Tra le bollette da pagare e la pubblicità spiccava lei: la suddetta busta di carta bianca, sul cui retro, a mano e in bella calligrafia, erano stati scritti il mio nome ed indirizzo. L’aprii curiosa e piena di sospetto e ad ogni parola sentii il mio cuore gelarsi fino a raggiungere una temperatura che nemmeno avrei potuto immaginare.
        Non poteva essere. No, no, no, no, no!
Anni passati a nascondermi dai miei ex compagni delle superiori per poi ricevere un tale invito proprio quando pensavo di essermi lasciata tutto alle spalle.
        Il problema, però, non si poneva: potevo benissimo rifiutare e…
        «L’hai ricevuto?» la voce della mia migliore amica al telefono era talmente acuta che anche un sordo l’avrebbe sentita.
        «Sì, e non ho intenzione di andare!» misi in chiaro sin da subito.
        «Ma tu devi! Con chi andrò io, altrimenti?»
        «Non andrai?»
        «Smettila, Jen! È una bellissima festa e non possiamo perderla. Per di più è in maschera, nessuno saprà che siamo noi!»
        «Ash, per favore io…»
     «Ti passo a prendere oggi dopo il turno per andare a noleggiare il vestito! Baci!» prima che potessi protestare, aveva giù riattaccato ed io ero stata incastrata - dannazione!
 
       Il turno in ospedale fu terribilmente impegnativo e, sebbene quando riposi il camice mi sentissi stremata, ero grata che il tanto lavoro mi avesse impedito di soffermarmi a rimuginare.
          La sola idea di partecipare a quella festa mi dava il voltastomaco.
          Le superiori non erano state uno dei periodi più felici della mia vita, per nessuno lo sono, potreste contestare voi, ma la verità è che per me erano state assolutamente terribili. I capelli crespi, la bassa statura e i vestiti di seconda mano di mia sorella non avevano di certo aumentato la mia popolarità, anzi, avevano concesso ad Alexandra Smithson e alla sua squadra di cheerleader di avere una scusa in più per snobbarmi, come se la mia cotta per David, il fidanzato di Alexandra, non fosse bastata.
        Tutto normale fin qui, direte voi. Be’ non proprio, perché, in effetti, non finisce qui! Il mio vero problema alle superiori era Andrew Mason, il miglior amico di David. Se Alexandra era la perfidia fatta persona, Andrew era il diavolo. La serie di scherzi meschini di cui fui protagonista in quattro anni gli basterebbe per una condanna a vita all’inferno. Per citarne alcuni: capelli blu al campeggio del secondo anno; ragno da laboratorio nell’armadietto al primo anno; punch sul vestito al ballo del terzo anno; esplosione di un composto chimico in faccia durante il quarto, di anno.
        Capirete bene come l’idea di rivedere quegli esseri fosse a dir poco nauseante per la sottoscritta, soprattutto quando il biglietto d’invito giungeva proprio da David e dalla sua neo-sposa Alexandra.
        Un clacson mi suonò dietro, interrompendo i miei tristi ricordi: Ashley sulla sua decapottabile giallo limone mi faceva segno di sbrigarmi a salire.
        «Pronta?», mi chiese non appena fui seduta.
        «A dire il vero…»
        «Tranquilla, troveremo l’abito perfetto: sarai stupenda e li lascerai a bocca aperta prendendoti la tua vendetta!», mi disse strizzandomi l’occhio. Se c’era una cosa che Ashley sapeva fare era persuadere le persone. Detta in quel modo era decisamente più allettante, peccato che io non fossi così sicura di apparire stupenda. Certo negli anni il mio fisico si era modellato sulle forme di una donna e non di un asse per la sfoglia, e i miei capelli erano diventati meno crespi, per lo meno quando l’umidità lo permetteva, ma continuavo a non vedermi come questa gran bellezza.
        Come sempre mi sbagliavo; tre ore e non so quanti negozi dopo, avevo trovato l’abito perfetto. Era formato da un semplice corpetto dorato ricamato con minuscole perline nere e da pizzi del medesimo colore; al di sotto di esso, la gonna si apriva a corolla continuando il motivo di pizzo sopra la stoffa dorata. Vi avevo abbinato un paio di decolté sempre nere dal vertiginoso tacco e una maschera, anch’essa di pizzo nero, per nascondere gli occhi.
        «Perfetta!», mi sorrise Ashley da dietro il suo vestito da matrona romana, «Ora non ci resta che pensare ai capelli».
 
        Passai i giorni successivi a cercare di distrarmi e di evitare i vari cataloghi di acconciature che Ashley continuava a mettermi sotto il naso; fu tutto inutile perché più il giorno si avvicinava più l’agitazione e la paura si facevano spazio in me.
        «Andrà tutto bene, vedrai», cercò di rassicurarmi la mia miglior amica il pomeriggio della festa.
        «No, che non andrà bene! Non andrà bene per nulla!», le risposi continuando a camminare avanti e indietro, preda di una crisi isterica.
        «Smettila di agitarti o ti spettinerai e ti romperai un tacco», mi rimproverò guardandomi tramite lo specchio davanti a cui era seduta mentre sua madre, la parrucchiera a cui aveva rubato tutti quei cataloghi, le acconciava i capelli in una morbida coda boccolosa al lato del collo.
        «Io non vengo!», urlai.
     Ashley alzò gli occhi al cielo: «Tu verrai, a costo di portartici a forza dopo averti sedata!», la sua minaccia mi spaventò, anche perché, fino a prova contraria, l’infermiera sono io, lei è una contabile: figurarsi se sapeva sedare una persona!
        «Okay, ma se è terribile possiamo fuggire subito?», chiesi con l’aria da cucciolo che sapevo l’avrebbe fatta capitolare.
        «D’accordo», acconsentì, infatti, ed io sorrisi soddisfatta.
 
        «I vostri nomi, prego?», chiese il portinaio all’entrata del palazzo e io rivolsi uno sguardo irritato in direzione di Ashley.
       «Nessuno saprà che siamo noi, eh?», le dissi ironica rinfacciandole le parole che mi aveva rivolto solo qualche giorno prima. Per tutta risposta lei si limitò a sorridere mestamente prima di girarsi e fornire i nostri nomi.
       «Oh. Mio. Dio! Non credo ai miei occhi: Ashley Davy e Jennifer Huxley, non avrei mai pensato di vedervi qui!», la voce di Alexandra, l’avrei riconosciuta ovunque, ci fece voltare verso di lei dando dimostrazione che la sfortuna non arriva mai sola.
       «Non avremmo mai potuto perderci una festa simile», Ashley non sembrò trovare problemi a risponderle.
      «Sono davvero contenta che siate venute! Venite vi faccio strada», la padrona di casa, nel suo bellissimo abito rosso alla Jessica Rabbit - c’erano forse dubbi? - ci diede le spalle e si avviò verso il grande ascensore che occupava tutta la parete di fronte a noi. Quando fummo salite, pigiò il numero corrispondente all’ultimo piano: un attico, - naturalmente!
        La sala principale dell’attico si palesò davanti a noi in tutto il suo splendore non appena le porte dell’ascensore si aprirono. Era addobbata con ogni tipo di festoni e stelle filanti e qua e là, riposti su alcuni tavoli dalle tovaglie di colori sgargianti, facevano bella mostra di sé piramidi di calici di champagne. Al centro, un tavolo ovale era imbastito con cibo di ogni genere, dagli antipasti ai dolci tipici.
        La musica risuonava nell’aria insieme al chiacchiericcio degli invitati, ma la cosa che saltava maggiormente all’occhio era la varietà di costumi presenti. Le donne si erano decisamente sbizzarrite e in sala si potevano ammirare grandi personaggi femminili di tutte le epoche storiche oltre alle più classiche infermiere, diavolesse e indiane. Gli uomini, al contrario, erano rimasti più sul classico, la maggior parte indossava completi scuri e aveva come unico travestimento una maschera a coprire il viso.
        Per un momento dimenticai dove fossi e soprattutto chi avessi di fianco e mi godetti l’atmosfera e il panorama, poi la voce della padrona di casa interruppe il mio idillio dando aria alla bocca.
        «Non avete davvero idea di come mi faccia piacere rivedervi, ve l’ho già detto, vero? Oh, ma chi se ne importa? Venite vi faccio salutare David, sono sicura che anche lui sarà entusiasta!» afferrò me ed Ashley per un braccio e ci trascinò verso un gruppetto di persone che parlava a ridosso dell’ampia finestra che dava sul balcone.
        «David, tesoro, guarda chi è arrivato! Ashley Davy e Jennifer Huxley, ci avresti mai scommesso?» David, che nonostante la maschera lasciava intravedere come la sua bellezza non fosse stata intaccata dagli anni, ci sorrise e strinse la mano ad entrambe.
        «No, davvero! Sono contento siate venute», ringraziai il pizzo che mi celava parte del volto o tutti avrebbero potuto notare il mio orrore davanti alla scelta di parole che lui aveva usato - aveva veramente detto ‘no, davvero’? - stare con Alexandra doveva averlo fatto cambiare parecchio se il giocatore della squadra di football della scuola si metteva ad usare termini come ‘no, davvero’. Non dovetti essere l’unica a pensarla in quella maniera perché riuscii a intravedere Ashley che cercava di celare una risata.
        «A dire il vero nemmeno noi pensavamo di venire, ma visto che siamo qui ne approfittiamo per fare un giro e guardare chi c’è! Grazie mille ancora per l’invito, è stato splendido rincontrarvi», tagliò corto la mia amica, imitando il loro modo di parlare per poi trascinarmi via mentre se la rideva sotto i baffi.
       «Sei tremenda, Ash!» le dissi quando fummo abbastanza lontane.
      «Questa serata si prospetta decisamente divertente amica mia!» mi rispose con un sorriso molto eloquente, porgendomi un calice di vino che fissai indecisa. Iniziare subito a bere e rischiare di dare spettacolo alla festa in cui potevo riscattarmi non sembrava essere una buona idea.
       «Andiamo, sciogliti. Vedrai che un bicchiere di spumante non ti farà nulla e poi hai bisogno di essere meno inibita per far vedere a tutti che non ti importa più nulla di loro e di quello che pensano», mi incentivò lei, quando vide il mio tentennamento.
       «Hai ragione, sai?», inghiottii il sorso di spumante, «ora vado a fare un giro, ti dispiace?», Ashley si limitò a farmi un cenno con la mano prima di sparire lei stessa in mezzo ai vari costumi.
       Mi concessi un minuto, giusto il tempo di prendere in mano la situazione, poi mi mossi per la sala guardandomi intorno. Nonostante, le maschere riuscii a riconoscere diversi compagni di scuola e mi fermai a chiacchierare con più di uno di loro. Frasi di cortesia, per lo più, ma niente male per una ex reietta come me.
       Quando poco più tardi vidi avvicinarmisi Zorro, di certo non avrei mai potuto pensare che tutto nella mia vita stava per cambiare.
       «Posso chiedere alla più bella della festa il prossimo ballo?», mi chiese, porgendomi una mano guantata di nero.
       «Seriamente?» chiesi, aggrottando le sopracciglia, incredula e sospettosa al medesimo tempo.
      «Penso davvero tu sia la più bella della sala, ma, se non ti va di ballare, possiamo sempre andare sul terrazzo a scambiare due chiacchiere», il sorriso malizioso mi disse che non aveva nessuna intenzione di arrendersi.
       «E sia. Lo sai, però, che Zorro non è biondo?» domandai mentre prendevo la sua mano e mi lasciavo trascinare sulla pista da ballo. La musica di sottofondo era un lento che non conoscevo e per di più non ero mai stata brava a ballare; così, quando mi mise un braccio intorno alla vita, mi limitai a seguire i suoi movimenti in modo un po’ impacciato.
    «Rilassati, è solo un ballo…» quelle parole mi fecero capire che doveva essersi accorto di quanto mi sentissi a disagio; per quanto avessi cercato di celarlo, evidentemente non ero una brava attrice.
       «Non sono abituata a ballare…» buttai lì, sperando che cambiasse argomento in fretta o non parlasse affatto.
       «Lo so!» mi stupì, invece, con la sua risposta.
       «Come?»
      «Ricordo che non c’eri mai ai balli di fine anno, Jennifer», mi allontanai bruscamente. Pensavo che il mio travestimento fosse riuscito bene, ma a quanto pare mi ero sbagliata e ora quell’uomo si rivolgeva a me rivangando un passato del quale non ero orgogliosa e che avrei preferito sotterrare sotto metri e metri di terra.
       «Mi hai riconosciuta…»
      «Ho fatto fatica inizialmente ma sì, poi ti ho riconosciuta», mi rispose, attirandomi di nuovo contro il suo petto e obbligandomi a continuare la danza, «cosa c’è di male?»
      «C’è che ora non so se mi stai prendendo in giro o sei serio quando parli con me», mi lasciai sfuggire e me ne pentii nell’esatto istante in cui le parole lasciavano la mia bocca. Gli avevo appena rivelato che non ero sicura di me stessa - pessima mossa Jennifer!
      «Ero serio quando ti ho detto che credo tu sia la più bella della sala», mi sussurrò talmente vicino al mio orecchio che potei sentire il suo fiato caldo sul collo.
      «Come posso esserne certa?»
     «Perché non ho chiesto di ballare a nessun altra donna in tutta la sera e non intendo ballare con nessun’altra all’infuori di te, quindi spero tu abbia messo delle scarpe comode».
      «Sei bravo con le parole, devo ammetterlo, ma ho smesso di farmi incantare anni fa».
      «Mi dispiace…», fece lui, di nuovo sussurrando.
      «Per cosa?»
    «Per i brutti momenti alle superiori», i suoi occhi, contro ogni mia aspettativa, mi dissero che era sincero, davvero sincero e dispiaciuto e io dovetti arrendermi all’evidenza che quell’uomo mi stava lasciando senza parole ogni volta che apriva bocca.
     «Grazie…» ci muovemmo insieme, coordinati per il resto della canzone e le due successive poi, sempre tenendomi per mano, mi condusse sul terrazzo; lontani dalla musica e dalla confusione potei notare solo in quel momento quanto l’uomo che era con me fosse affascinante.
      «So che sei un’infermiera ora. Ti piace il tuo lavoro?»
     «Lo adoro, davvero. Tu cosa fai?», non ero ancora pronta a domandargli chi fosse e sinceramente speravo che prima o poi si togliesse la maschera rivelandomi lui stesso la sua identità.
      «Sono un avvocato. Lavoro per lo più nei casi in cui sono coinvolti dei minori. È un lavoro che, se sei bravo, sa dare le sue soddisfazioni».
      «E tu sei bravo?»
      «Uno dei migliori a quanto dicono», ridemmo assieme di quella falsa modestia che, tuttavia, non era nemmeno presunzione.
      «Ti ho rubata alla tua amica, spero non me ne voglia», riprese poco dopo mentre, appoggiati al davanzale, prendeva le mie dita e iniziava a giocarci, continuando, però, a guardarmi negli occhi: un gesto che mi procurò brividi lungo tutta la spina dorsale e che mi obbligò a qualche secondo di silenzio prima di riuscire a mettere insieme le parole in una frase che fosse quanto meno coerente.
     «Credo non ricordi nemmeno di essere venuta con me», ridendo, gli indicai Ashley che stava flirtando in modo decisamente spudorato con un ragazzo molto avvenente.
       «Se lei è troppo impegnata posso darti un passaggio io a casa, più tardi».
       «Ci penserò, magari dopo che mi avrai detto chi sei», suggerii visto che lui continuava a non far cenno al fatto di volersi svelare.
       «Non credo sia una buona idea».
       «Perché no?»
       «Perché potrei non rivederti più».
       «Cosa intendi?»
       «Non ti sono mai stato molto simpatico», rispose, abbassando lo sguardo sulle nostre mani intrecciate.
       «Non ho mai odiato nessuno senza motivo. Come mai non mi stavi simpatico?»
       «Se te lo dicessi potrei non rivederti più».
      «Continui a dirlo ma Jim Morrison diceva che è meglio essere odiati per ciò che siamo che amati per la maschera che portiamo», commentai e in quel momento mi accorsi che volevo sapere terribilmente chi fosse, non importava se lo avrei odiato in seguito perché quella sera spesa con lui era stata magnifica e in un modo o nell’altro non avrei potuto dimenticarla. Glielo dissi e lui mi sorrise tristemente, come se non mi credesse.
      «Posso toglierla dopo averti accompagnato a casa?» domandò e io annuii. Guardai l’orologio e mi accorsi che comunque si era fatto tardi; gli chiesi di aspettarmi mentre informavo Ashley della mia decisione e che lo avrei poi raggiunto all’entrata del palazzo. Mi salutò con un bacio sulla guancia che mi lasciò ammutolita e con il volto arrossato.
       «Tesoro, vedrò di non telefonarti presto domani mattina, così potrai riposare dopo una notte di sesso sfrenato!» fu il commento della mia amica quando le dissi di non aspettarmi; non sprecai nemmeno fiato a cercare di spiegarle che non intendevo andare a letto con il primo che capitava e mi limitai a sorridere, allontanandomi.
       Il mio cavaliere mi aspettava appoggiato a una macchina lussuosa con il sorriso stampato in volto. Si era tolto il mantello da Zorro ma sembrava non avere freddo vestito semplicemente di una camicia di seta nera; io, egoisticamente, mi godetti il panorama dei muscoli che la stoffa pregiata metteva in risalto.
        Durante il tragitto verso casa continuammo a parlare del più e del meno. Mi raccontò che - anche se non lo avrei creduto dopo che lo avessi visto in volto, a detta sua - usciva da una storia d’amore piuttosto lunga e tormentata in cui lui sembrava essere vittima e non carnefice: la ragazza di cui era innamorato lo aveva tradito con uno dei suoi amici più cari e lo aveva fatto nel loro letto.
        «Mi dispiace», commentai, «deve essere stato terribile scoprirlo».
        «Non quanto è stata terribile la mia rabbia per loro. Lui si è trovato con il naso rotto e da ricostruire, lei con un sacco di gioielli in meno: mi sono ripreso tutto ciò che le avevo regalato per poi venderlo».
        «Sei vendicativo».
        «Lo sono, e sono anche molto geloso», suonò come un avvertimento e glielo feci notare.
        «Potrebbe esserlo».
        «Abbiamo condiviso una serata…»
      «Una serata decisamente piacevole alla quale spero seguirà una cena», era diretto e sfacciato e per l’ennesima volta rimasi senza parole, «sempre che tu non mi tiri dietro una scarpa quando vedrai chi sono», rise e solo a quel punto mi accorsi che eravamo fermi di fronte a casa mia. Decisi di non rispondere e alzai le mani verso il suo volto accarezzando i bordi della maschera, tentennando prima di decidermi a levarla. Lui venne in mio soccorso posando le sue mani sulle mie e aiutandomi a compiere quel movimento, tuttavia, mentre lo facevo, chiusi gli occhi. Lasciammo cadere la maschera poi lui mi prese il viso tra le mani.
        «Guardami», mi soffiò e io mi obbligai ad aprire gli occhi. La bocca mi si seccò e nessun suono uscì dalla mia gola quando lo riconobbi. Come avevo potuto essere così stupida da non riconoscere la sua voce? La stessa voce che per anni mi aveva tormentata.
       «Andrew Mason…» fu tutto ciò che riuscii ad articolare e lui si limitò ad annuire. Non potevo farcela, nonostante quello che avevo detto sul non scordare la magnifica serata insieme, non potevo uscire di nuovo con Andrew Mason, l’uomo che mi aveva rovinato l’adolescenza. Prima che lui potesse dire qualsiasi cosa aprii la porta della macchina e mi fiondai giù, una mano nella borsetta alla ricerca disperata delle chiavi di casa che non sembravano voler venire in mio soccorso. Udii lo sbattere anche della sua di portiera e i suoi passi che mi seguivano affrettati.
        «Jennifer, Jennifer per favore aspetta un momento!» mi urlò prima di raggiungermi ed afferrarmi un polso, obbligandomi a voltarmi nella sua direzione.
        «Cosa? Cosa vuoi? Sentirti dire che non fa differenza? Lo sai benissimo anche tu, invece, che è cambiato tutto!»
        «Appunto, Jen, è cambiato tutto. Io sono cambiato. Hai passato una serata con me, devi aver capito che non sono più il ragazzino coglione che ti ha fatto tutto quel male! Jen, Jen ascoltami», mi disse, asciugandomi con il pollice una lacrima che non mi ero nemmeno accorta di aver versato e alzandomi il volto perché i nostri occhi fossero alla stessa altezza, «se potessi cancellare ciò che ho fatto, non esiterei un solo istante. Non voglio che mi odi. Sono anni che spero di incontrarti per chiederti scusa, ma non avrei mai immaginato che un giorno sarei stato di fronte a te a implorarti di perdonarmi e di concedermi una possibilità, perché questa sera, con te, sono stato bene come non stavo da mesi; perché tu sei una persona fantastica ed io vorrei poterti conoscere davvero, frequentarti».
        «Non posso, scusa». Mi liberai della presa delle sue mani e lo lasciai lì mentre veloce me ne rientravo dentro casa.
        Quando finalmente fui sola, scoppiai in singhiozzi. Piansi perché non volevo fosse lui, l’uomo fantastico con cui avevo passato la serata; perché il rivangare il passato faceva male ed ogni volta che ripensavo ai suoi occhi uno dei suoi scherzi idioti e crudeli mi tornava alla mente, impedendomi di guardare avanti; eppure lo volevo, con tutta me stessa desideravo poter dimenticare, perdonare, dare una seconda occasione, conoscere l’uomo che era diventato e che più volte durante quella serata mi aveva fatto battere il cuore e provocato brividi alla schiena.
 
      Per una settimana ricevetti ogni giorno un giacinto color porpora; io che conoscevo il linguaggio dei fiori non potevo non sapere che era una chiara richiesta di perdono alla quale non detti mai risposta.
      Il settimo giorno, mentre mi trovavo con Ashley a casa mia, intente a preparare la nostra serata film e pizza il citofonò suonò di nuovo. Questa volta il fiorista portava un ciclamino ed io seppi che si era arreso. Con uno strano sentimento nel cuore rientrai posando il fiore sulla tavola consapevole dello sguardo curioso di Ashley.
      «Cosa significa questo?»
      «Rassegnazione, addio», spiegai senza togliere lo sguardo dal vaso.
    «C’è un biglietto, però», mi disse, prendendolo in mano e leggendo: «Un uomo deve saper capire quando le sue attenzioni non sono desiderate. Faccio un ultimo tentativo: questa sera alle otto vieni all’indirizzo che ti ho scritto dietro, se non ci sarai, non sentirai mai più parlare di me». Il cuore mi martellò furiosamente nel petto e alzai gli occhi istintivamente verso l’orologio: le sette.
     «Scorda il passato. Va da lui e scopri se ne vale la pena», mi sorrise la mia amica, poggiandomi una mano sulla spalla.
     Prima ancora che lei parlasse, sapevo già cosa avrei fatto: sarei andata.
 
   
 
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