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Autore: Ely79    01/04/2012    5 recensioni
Cosa ci può essere di meglio, dopo una dura giornata trascorsa nella creazione di un gioiello curativo, che sedersi nel proprio locale preferito, con la sola compagnia di una buona tazza di caffè? Era questo ciò che agognava Lavinia, l'orafa taumaturga, ma non aveva idea di dove l'avrebbe portata il profumo di quella scura bevanda.
Storia prima classificata al contest "Profumo - Storia di... un'originale" indetta da Perla_Nera92 e giudicato da Ria-chan.
Genere: Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Indaco Café
Storia prima classificata al contest "Profumo - Storia di... un'originale" indetto da Perla_Nera92 e giudicato da Ria-chan, la cui valutazione è riportata nelle recensioni.


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Ely 79 / Ely79  
Titolo storia: Indaco Café
Profumo: Caffè
Citazione: Se un po' di sincerità è pericolosa, molta sincerità è addirittura fatale. (Oscar Wilde)
Rating: Arancione
Genere/Avvertimenti: Fantascienza, Introspettivo.
Note: La città di Namur esiste realmente in Belgio, ma non le vie indicate. L’ambientazione è steampunk e Kli è un mio tributo al personaggio di Yagarek, creato da China Miéville. Ci sono riferimenti alla cromoterapia ed alla cristalloterapia.

Ria

Tra le mie mani non accadeva nulla e lui lo vedeva. O meglio, credeva di vedere, mentre io potevo scorgere distintamente l’aperto scetticismo che animava la sua espressione. Avrei voluto ridere, ma rimasi concentrata sulla litania che stavo mormorando a mezza voce, percependo il fluire della corrente taumaturgica. Lo sentivo scorrere dai polsi lungo i palmi, simile ad un piccolo torrente che intorpidiva i muscoli e faceva formicolare i polpastrelli. Dietro le palpebre socchiuse intravedevo un tremulo alone propagarsi attorno alla lamina d’oro, risvegliando le forze celate all’interno.
«Dovreste allontanarvi, monsieur. La luce è fondamentale al mio lavoro».
Vidi le mani guantate stringersi a pugno e posarsi spazientite sui fianchi.
«Ma avete due lampade ad illuminarvi! Che fastidio vi dovrei dare?» protestò.
La cera che rivestiva la foglia dorata s’increspò in piccole onde per un eccesso di corrente taumaturgica.
«Nessuna lampada può riprodurre la luce solare e senza il suo apporto il gioiello sarà inefficace» replicai aspra. «Volete davvero mettere a rischio il lieto evento? Se è così ditelo subito, non mi prenderò responsabilità con la vostra sposa» soggiunsi piccata.
Intuii dai suoni strascicati che non si era solo spostato: doveva essersi allontanato dal tavolo da lavoro. Probabilmente aveva raggiunto la teca espositiva vicino alla porta.
Trassi un profondo respiro e ricominciai la salmodia induttiva.
Un soffice tonfo disse che qualcosa era sprofondato nel divanetto accanto all’entrata.
Trascorsero copiose manciate di minuti, lente, infinite, scandite da frasi e tocchi delicati. L’oro e la pietra verde sembravano appisolate nelle mie mani. Le ombre si allungarono da sotto i mobili.
Il lieve tamburellare di un tacco e lo strofinio nervoso sulla stoffa mi dissero che l’uomo stava diventando impaziente e ciò rappresentava un’ennesima distrazione.
«Per favore» domandai con un filo di voce, la concentrazione portata al massimo. «Per favore, calmatevi. Mi state disturbando».
Sbuffò e borbottò qualcosa d’incomprensibile. Non gli diedi peso e continuai a lavorare.
Accelerai il ritmo delle sillabe, cambiai la posizione delle falangi ed avvicinai ulteriormente le mani alla piastra. Sentii distintamente l’aria indurirsi e pizzicare la pelle. Punture di aghi aerei ai polsi mi costrinsero a mordere il labbro inferiore. Era il lato spiacevole del lavorare metalli: maggiore era la loro purezza, maggiore era l’“effetto specchio”, ovvero la riflessione di brandelli di flusso taumaturgico verso chi lo emetteva. Affatto pericoloso per quantità ridotte di materiale, ma di sicuro parecchio seccante.
Anticipato da un tremito impercettibile, il metallo prese a muoversi sotto la cera. Ora seguiva le direttive che gli impartivo con la punta delle dita e le giuste parole, docile e malleabile. Lo allungai in alcuni punti, creando volant, occhielli e anse; in altri lo resi sottile ed affusolato, lo ripiegai e l’intrecciai attorno alla malachite1. Per i dettagli più minuti mi servii di pinze, bulini e tronchesi dalla punta minuscola. Poco a poco, forme floreali sbocciarono attorno alla pietra. Pampini avvilupparono con spirali dorate la sfera, solcando la cera come serpi affamate.
Presi un beccuccio collegato ad un piccolo generatore che ronzava sotto al ripiano. Controllai la quantità d’acqua nella caldaia e regolai la pressione al minimo. Una sottile nube di vapore sibilò tra i decori, sciogliendo l’involucro trasparente e rimuovendo le pagliuzze derivate dalla lavorazione. L’asciugai con attenzione, controllando la precisione dei dettagli e l’assenza di sbavature. Depositai il gioiello in una piccola scatola e con una punta di ossidiana battei leggermente la superficie della malachite, risvegliandone definitivamente le proprietà benefiche. Ora la ghirlanda brillava in tutto il suo delicato splendore.
Un’esclamazione sollevata e carica di meraviglia mi disse che l’idea che il cliente aveva avuto di me era mutata nuovamente.
«È bellissimo! È come lo immaginavo!» esclamò il giovanotto, incredulo.
Portò la confezione accanto alla vetrata, per osservare meglio il gioiello che aveva tanto atteso.
«Splendido. Splendido» ripeteva strabuzzando gli occhi sopra ad un sorriso ebete.
«Felice d’aver creato quanto chiedevate» risposi, mettendo ordine sul tavolo da lavoro.
«Dunque, mi assicurate che funzionerà?» domandò, levando lo sguardo su di me.
Gli rifilai un’occhiataccia. Non tolleravo si mettesse in dubbio la mia professionalità, in particolare in casi come quello.
«Se non siete convinto, lasciate qui il ciondolo e andatevene. Ma sia chiaro che esigerò comunque il pagamento della mia prestazione» sibilai offesa.
«Vi prego, non fraintendetemi. È che… è il nostro primo figlio e la mia Marthe è così delicata…» sospirò abbattuto. L’ansia traspariva dal volto segnato dal poco sonno. «Siete la nostra sola speranza perché vada tutto bene. Madame Rousseau mi ha assicurato che siete la miglior biotaumaturga di Namur, ma cercate di capirmi… ho così tante paure addosso! Ho bisogno di garanzie, di certezze».
Aveva gli occhi dilatati a dismisura dall’apprensione.
Mi avvicinai e chiusi la scatola, facendogli stringere le dita attorno.
«Ne avete una in mano. La migliore che possa offrirvi. E non vi deluderà» lo rassicurai.
Sbrigate le formalità del pagamento, mi ritrovai sola. Oltre i vetri dell’ingresso, il giorno andava scemando. Ombre azzurre e violette si srotolavano nella strada.
Tirai le tende e voltai la targa che segnalava la chiusura del negozio.
Nello stanzino sul retro tolsi l’abito grigio2 che indossavo e l’infilai sul manichino tempestato di cristalli purificatori. Sciolsi con calma le cinghie che assicuravano i catalizzatori. Le impronte arrossate lasciate dai tondelli di cuoio e metallo sulle articolazioni sarebbero scomparse entro un paio d’ore.
Indossai la blusa e la gonna color terra d’ombra3 che avevo sistemato lì quel mattino, allacciandole a fatica. Ero esausta, ma non abbastanza da rinunciare al mio rituale quotidiano. Riposi le pantofole di pelle d’agnello per infilare un paio di bassi stivali.
Persi qualche istante di fronte allo specchio, cancellando la stanchezza con un trucco leggero negli stessi toni degli abiti. Sistemai capellino e veletta. Frugai nel cofanetto, traendone una spilla, in assoluto il mio gioiello preferito. Si trattava di un semplice disco di metallo dai bordi leggermente rialzati ed ondulati, entro cui avevo incastonato una corniola4. Non aveva la superficie perfettamente liscia come ci si sarebbe aspettati da una pietra ornamentale: pur essendo lucida e levigata, era percorsa da rilievi e ammaccature. La sua forma naturale possedeva un fascino arcano, degna di un rigurgito dell’inferno o di una lacrima del sole. Stringendola potevo sentire chiaramente le vibrazioni che emanava: calde, dense, vischiose, vive. Era come stringere un cuore ancora palpitante.
Avvolsi la mantella attorno alle spalle, chiudendola con la spilla, ed uscii.
Un vento gelido spazzava la neve ammonticchiata ai margini della strada come polvere scintillante. Stalattiti di ghiaccio pendevano dai bracci delle lampade a gas e dai cornicioni: gelide decorazioni del Natale ormai passato. Qualche insegna dondolava cigolando pigra sopra la mia testa, dissipando gli sbuffi di fumo che salivano dalle grate di alcune cantine, dove macchine a pressione lavoravano per riscaldare abitazioni e negozi.
Incrociai poca gente per strada. Era tardo pomeriggio ed il sole basso sull’orizzonte, unito all’intensificarsi del freddo, aveva spinto gran parte della popolazione di Namur a rifugiarsi in casa.
Camminavo in fretta, le braccia strette attorno al corsetto, i ciondoli agganciati alla borsetta che tintinnavano allegri ad ogni passo. L’aria mi sferzava le labbra con le dita impietose di un amante rude e voglioso. Faticavo persino a tenere gli occhi aperti per l’intensità del gelo. Adoravo il caldo, il sole, persino l’umidità appiccicosa della Pianura Padana, eppure avevo imparato ad apprezzare il clima di quella cittadina belga, più freddo e rigido anche durante l’estate, ma non per questo meno poetico e affascinante.

***

L’Indaco Café5 si trovava ad una decina di minuti di strada dal mio negozio, all’angolo tra Rue du Jardin e Fond Saint Greco. Era una piccola costruzione di mattoni rugginosi, con il tetto basso e spiovente, che pareva essere stata appiccicata a forza alle facciate degli edifici adiacenti. Porta e finestre erano di legno dipinto con il colore da cui prendeva il nome il locale. Anni fa mi ero stupita d’incontrare una parola italiana nella ridda di insegne francofone della città, salvo poi venire a conoscenza delle origini liguri del proprietario. Il mondo appariva sempre molto più piccolo di quanto immaginassi.
All’interno, l’indaco era ovunque: spruzzato sull’intonaco pallido delle pareti, declinato in ogni stile artistico sulle stoviglie, pennellato con discrezione sugli arredi, intessuto delicatamente su tende e tovaglie, spezzato in sottili listelli che s’intervallavano al rovere del parquet. Graziose lampade a gas in ottone anticato spandevano luce sui tavolini. L’ambiente che ne risultava era sobrio e tranquillo, raffinato, tutt’altro che monotono. Su tutto aleggiava un aroma gradevole e familiare, dovuto ai dolci ed alle bevande che venivano servite, e che contribuiva a rendere l’Indaco Café uno dei locali più apprezzati del quartiere, se non della città.
Dietro al bancone, Kli asciugava le stoviglie appena lavate. Le dita lunghe e munite di artigli si muovevano agili all’interno del vetro, passando lo strofinaccio fin sul fondo. Le piume grigio cenere ricadevano ai lati del becco scuro, senza nascondere i tondi occhi da rapace. Da ragazzino – o l’equivalente fra i garuda – aveva avuto uno scontro con un’aeronave da corsa, che gli aveva mozzato parte dell’ala sinistra. Venne fin qui sperando che la taumaturgia o una qualunque scienza gli restituissero il cielo, tuttavia ogni chirurgo, mago, meccanico o ciarlatano levò le mani in resa prima ancora che lui potesse avanzare la propria richiesta: le ali erano organi troppo complessi per essere ricreati. Fu costretto da un destino beffardo a reinventarsi una vita a terra.
«Buon giorno, Lavinia» gracchiò, senza degnarmi d’uno sguardo.
«Salve, Kli» risposi. «Ancora non sei migrato al sud?» scherzai, trafficando con quella dannatissima tornure6 per potermi sedere.
Era tanto graziosa ed elegante, quanto scomoda. A volte mi domandavo perché noi donne dovessimo torturarci allo spasimo con le sottovesti, specie chi, come me, non aveva avuto in sorte un fisico filiforme. La risposta però mi faceva dimenticare il fastidio di stecche, lacci e crinolina: mi vedevo splendida. Una donna che sapeva il fatto suo, padrona della propria vita e che non esitava a sottolinearlo anche nel vestire: lo diceva il luccichio degli ornamenti sul cappellino, sulle calzature e sulla borsa, non troppo vistosi ma capaci di catturare l’attenzione. Molte donne li avrebbero evitati per timore dei giudizi altrui.
«Manca poco a primavera. Perché dovrei darmi tanta pena per poi tornare indietro?» replicò pacato il barista, scrutando il bicchiere in controluce. «Cosa ti porto?»
Sollevai il pizzo della veletta, indugiando. Non avevo appetito, benché le comprensibili ansie del futuro genitore mi avessero spinta a dar fondo ad ogni stilla d’energia.
«Un Forêt d'Ébène7. Liscio e molto lungo» specificai.
Kli si volse appena. Scorsi l’iride argentea guizzare interrogativa nella mia direzione.
«Non un Orangerie8?» chiocciò.
«Forêt d'Ébène, liscio» confermai con un sorriso.
La mia passione per quel caffè restava un mistero per il garuda. A suo giudizio era una bevanda troppo dura, robusta, amara. Mascolina. Insomma, trovava non mi si addicesse affatto.
Tuttavia c’erano molte cose, nella mente dell’uomo-uccello, che parevano prive di senso e non certo perché fosse uno sciocco. Semplicemente, le sue radici culturali erano saldamente ancorate alle terre da cui proveniva, troppo lontane per aiutarlo a comprendere la società in cui si muoveva.
Prese una misura di chicchi scuri da un contenitore di ceramica, facendoli piovere nel cono metallico del macinacaffè. Al raspare dei grani che venivano polverizzati, ben presto si sostituì un borbottio invitante.
Kli si avvicinò silenzioso, porgendomi l’ordinazione. Mi chinai un poco sulla tazzina, inspirando con profonda gratitudine l’aroma che saliva in lente spirali dalla porcellana. Le prime note dure e decise affondarono prepotenti nel mio respiro, facendo strada alla scia di profumi che sarebbe seguita.
L’assenza di riflessi sulla superficie scura mi fece sentire libera di dedicarmi a me stessa. Allontanai la zuccheriera con la punta delle dita e quel gesto mi fece ripensare al baciamano del cliente, fatto quando era già sulla porta, all’espressione trepidante che l’aveva accompagnato. Apprezzavo quei gesti carichi d’ammirazione e rispetto. Nella cittadina dove ero nata non sarei stata oggetto di simili onori.
Un sorriso tirato mi salì alle labbra, amaro quanto il caffè che sorseggiavo.
Per la mia famiglia rappresentavo quanto di peggio si potesse essere per la società. Qualcuno mi aveva definito una zitella, una squinternata; altri, credendosi non uditi, parlavano di me come di una poco di buono. Altri ancora, infine, mi vedevano come una “donna perduta”.
Non avevo mai nascosto le mie capacità o i miei poteri, come li chiamavano loro. Avevo studiato più di qualunque altra donna del circondario e con ottimi voti. Avevo iniziato a lavorare, sfruttando la taumaturgia. Avevo cominciato a guadagnare. A guadagnare bene, soprattutto. Stavo costruendo un futuro ed un piccolo patrimonio con le mie sole mani, pur essendo una donna sola. Tutte cose che nell’atmosfera bigotta di una cittadina di provincia mi avevano reso una degenerata. Soprattutto, avevo passato da un pezzo l’età da marito. Avevo frequentato uomini senza legarmi a nessuno. Ci ero andata anche a letto. Ma la mia vergogna, la colpa più grave ai loro occhi, era che non avessi figli. Una ragazza madre si poteva tollerare, un’ostinata nubile no.
Avevo sempre detestato le etichette ed avrei fatto orecchie da mercante come al solito, ma gli appellativi arrivavano da persone a cui volevo bene e che in quel momento mi osservavano con alterigia da piedestalli di perbenismo e ottusità. Mi avevano ferita profondamente, negandomi il diritto d’essere una loro pari, perché non avevo seguito le orme prestabilite da generazioni di predecessori.
Persino chi mi aveva sempre sostenuta, chi mi era stato vicino e con cui avevo condiviso molte delle mie battaglie, alla fine aveva gettato la maschera per mostrarmi cosa nascondeva: cliché, stereotipi, trite banalità. Biasimo. Era tanto semplice e comodo uniformarsi alle richieste della “gente per bene”, perché io le rifiutavo? Perché non potevo gettare al vento tutto ciò per cui avevo combattuto e sputato sangue? Quella gente mi aveva pugnalata a morte. Ricordavo i nomi, i volti atteggiati ad una bonaria accondiscendenza, passare ad una smorfia di arresa pietà per divenire malcelato disprezzo.
Non sarai mai come noi. Rifiuti di esserlo. E noi ti rifiutiamo, perché siamo migliori di te.
Parole che avrei portato impresse a fuoco nella mente. Parole di persone che avevo amato, la cui ipocrita cecità mi aveva addolorata oltremisura. Non corrispondevo ai canoni della società in cui ero cresciuta e non facevano altro che buttarmelo in faccia. Alcuni senza nemmeno accorgersene, altri invece con la chiara intenzione d’ammonirmi o mettermi alla gogna. Tutti però pronti ad additarmi come una presenza indesiderabile, ad espellermi dal loro mondo perfetto.
Per questo me ne ero andata.
Ma proprio come la mia storia, che pareva essere precipitata in un abisso amaro e ingrato, ecco che il profumo della bevanda fra le mie dita si dischiuse in qualcosa di meraviglioso e inaspettato. Pennellate di noce moscata e malto fecero virare il nero dei ricordi nelle tinte sgargianti del presente. La punta d’aspro lasciò il posto ad una venatura di caramello. Il passaggio attraverso quelle intime tribolazioni mi aveva temprata, o meglio, mi aveva tostata come i grani che avevano prodotto il caffè che centellinavo, mettendo in luce i miei pregi, le mie potenzialità. Mi aveva resa capace di liberare i doni che portavo in me. I gioielli curativi che creavo, l’energia e l’eleganza di cui erano infusi, inebriavano la gente, rendendola in qualche modo dipendente da me, da colei che altri avevano ripudiato. Namur mi donava a piene mani quel che la mia terra aveva cercato di negarmi. Mi sentivo felice, appagata, realizzata.
«Sei una miscela eccellente, Lavinia Bracca» mi congratulai sottovoce, portando nuovamente la tazzina alle labbra.
Inseguii il dissolversi dei profumi nel tepore del liquido. Persisteva una certa ruvidezza nelle volute invisibili che salivano ancora dalla tazza, un che di impreciso e indomabile, il ricordo delle piantagioni e dei viaggi per mare o aria che il caffè aveva compiuto per giungere alla torrefazione. Una memoria di cui non poteva privarsi, che non poteva odiare né nascondere, per poter rimanere fedele a sé stesso.
Mentre riflettevo, un volto comparve davanti ai miei occhi. Apparteneva ad un ragazzino, di quelli che s’incontravano abitualmente nei vicoli, nei crocicchi secondari o lungo le alzaie della Mosa. Iridi grigie balenarono sotto la visiera del cappello, che ricadeva floscio sui lunghi capelli biondi. A differenza di altri monelli, i vestiti gli stavano a pennello, nonostante fossero lisi e scoloriti. I bottoni della giacca erano tutti spaiati, segno dei continui rabberci. Boccheggiò un saluto agitando la mano sudicia.
Gli feci cenno di entrare ed i suoi occhi s’illuminarono.
«Bonsoir, Rat» salutai.
Tutti lo conoscevano con quel soprannome, affibbiatogli per ignoti motivi dal suo tutore civico, monsieur de Gerlache, un farabutto approfittatore della peggior specie.
Il ragazzino s’inchinò rapido, mancando di un soffio lo spigolo del tavolino.
«Come stai? È da un po’ che non c’incontriamo» chiesi, riavendomi dal mezzo spavento.
Si raddrizzò con fare teatrale, ficcando il berretto nella giacca sdrucita.
«Vero, vero, mademoiselle. Ma che volete farci? Sono un uomo di mondo. Ho affari da seguire» si pavoneggiò, infilando i pollici nelle bretelle.
Cercai di non ridere del suo atteggiamento spavaldo, visto che in realtà non doveva avere più di tredici anni. Mi nascosi dietro la tazzina e l’aroma forte del caffè come dietro una spessa tenda di velluto. Mai mi sarei permessa di ledere la sua dignità di figlio della strada, ma quando il suo ventre proruppe in una sonora protesta, dovuta certamente ai profumi invitanti che s’addensavano nel locale, non potei esimermi dal parlare.
«Direi che i tuoi affari ti tengono digiuno… oltre che impegnato» osservai divertita. «Vorresti farmi compagnia, Rat? Non è molto divertente starsene qui soli, ad osservare il mondo congelare» proposi.
Detestavo saperlo a stomaco vuoto. Era uno scavezzacollo di prima categoria, ma di buon cuore.
In risposta, lui strisciò un piede sul pavimento di legno, tracciando una linea umida con la neve sciolta dalle suole.
«Ehm… ecco, io… rimarrei volentieri. Adoro far compagnia ad una bella mademoiselle, non c’è nessuno più adatto di me, ma sto andando da monsieur. Sa, quel monsieur» replicò, alludendo ad una nostra comune conoscenza che nulla aveva a che vedere con quella canaglia del tutore.
Mi limitai ad un semplice assenso, comprendendo l’importanza della rivelazione, tuttavia lui proseguì, curvandosi verso il mio orecchio, quasi volesse rivelarmi un segreto. Segreto che ebbe la balzana idea di pronunciare con un tono di voce assolutamente normale.
«Roba importantissima dal Quartier Generale!» e si ritrasse con un’espressione di assoluta gravità sul viso, battendosi il petto ad indicare dove teneva il dispaccio.
Se un po' di sincerità è pericolosa, molta sincerità è addirittura fatale. Purtroppo, Rat pareva non conoscere quest’adagio. Non tanto perché non fosse avvezzo ai guai – ne aveva giornalmente e a più riprese -, quanto perché incapace di riconoscere la grandezza di un pericolo finché non ci si trovava immerso fino al collo. E quella sua uscita non faceva eccezione.
«Allora, visto che stai andando da monsieur,» dissi, abbassando la voce, «credo non se ne avrà a male se tarderai qualche minuto per riscaldarti un po’. Qualunque incarico tu abbia per lui, glielo consegnerai meglio con la pancia piena e le dita attaccate alla mano».
La titubanza evaporò rapida, simile agli sbuffi di una locomotiva sotto le arcate della stazione. Rat prese posto di fronte a me, scrutando di sottecchi Kli mentre si avvicinava per l’ordinazione. Nutriva profonda antipatia per i garuda, ritenendoli dei “polli infingardi e traditori”. Ciò nonostante, mascherò bene la propria insofferenza e il giustificato timore per i lunghi artigli.
«Quello che ha preso mademoiselle Lavinia e…»
All’udire la pausa, ebbi un tremito. Avevo visto nella vetrina dei dolci una serie di costose paste al cioccolato e temevo volesse assaggiarne una. Per quanto il denaro non rappresentasse un problema per le mie tasche, cacao e cioccolato restavano comunque un bene di lusso estremamente esoso.
«Una fetta di quella là in fondo» concluse, additando la Tarte au sucre9.
In capo a pochi minuti, le fragranze delle ordinazioni facevano a gara a stuzzicarci l’appetito.
Rat buttò giù una lunghissima sorsata, accorgendosi dell’aroma impresso nelle narici e nel palato solo quando posò la tazzina. Niente a che vedere con burro, zucchero o vaniglia. Cominciò a tossire.
«Come fa a berlo?! È… » annaspò.
Per un attimo, Kli, dietro al bancone, drizzò iroso le penne del capo. Rat vide nel vetro il moncherino d’ala agitarsi e si morse la lingua per trattenere quella che pareva essere un’offesa particolarmente pesante.
«È cosa?» lo provocai, invitandolo a spiegarsi.
Ero curiosa di scoprire come si sarebbe salvato. E la risposta non mi deluse.
«È roba da uomini! Pour les vrais hommes10! Non va mica bene per una mademoiselle! É… troppo forte! Vi farà sicuramente male. Dovete lasciarlo a chi può berlo» si schermì, trangugiando il resto del Forêt d'Ébène senza respirare.
La torta sparì in quattro morsi, soffocando l’intensa amarezza del caffè. Masticò a lungo, godendosi l’improvviso quanto agognato eccesso di dolcezza.
Parlammo del gelo, dei suoi capelli troppo lunghi e dei miei ricci scomposti, di eventi di poco conto della vita della città e delle carrozze a vapore che erano circolate per il centro, sostitute di alcuni vecchi omnibus a trazione animale.
Quando la sagoma di un lampionaio si allungò oltre le finestre del locale, Rat decise fosse giunta l’ora di terminare il proprio servizio. Mi salutò educatamente e si avviò alla porta.
«Eugène?» chiamai, usando per la prima volta il suo vero nome.
S’immobilizzò stupito, la mano sospesa a mezz’aria. Una ciocca sottile gli cadeva sull’occhio destro. Non era abituato a quel genere di confidenza.
«Oui, mademoiselle? Posso esserle ancora utile in qualcosa?» rispose con una smorfia malandrina.
«No, ti ringrazio, ma vorrei mi aspettassi» dissi pagando il conto.
Kli contò scrupolosamente le monete, facendole scorrere tra le unghie ricurve. L’ingombrante registratore di cassa sferragliò emettendo un biglietto stampigliato con il logo dell’Indaco Café e l’avvenuto pagamento. Salutai il garuda e raggiunsi il mio ospite.
«Credo ti farò compagnia. È da un po’ che non faccio visita al nostro monsieur».
Uscimmo su Fond Saint Greco, sotto un cielo notturno. Il vento sferzava il selciato sollevando neve polverosa. In breve cancellò il ruvido profumo del caffè e il tepore che portavamo addosso.
Tenendoci sottobraccio, puntammo in direzione del fiume.


1 Malachite: rafforza gli organi sessuali femminili e aiuta a guarirne le affezioni. Agisce contro la sterilità. Lenisce i dolori mestruali e rende più facile il parto. Favorisce l’aumento della produzione del latte dopo la nascita del bambino.
2 Grigio: colore privo di stimoli e tendenze psicologiche, neutro. Chi lo impiega vuole separare tutto con un muro, rifiuta di impegnarsi per proteggersi da ogni stimolo e dalle influenze esterne, non desidera lasciarsi coinvolgere.
3 Terra d’ombra: simboleggia mancanza di radici e al contempo aiuta ad essere pratici e non dispersivi. È il colore delle persone forti e solide con grande capacità di resistenza e pazienza.
4 Corniola: pietra carica di un'energia molto forte, conferisce vitalità, ottimismo, allegria, coraggio e forza. Elimina sentimenti negativi come odio, invidia e gelosia. Mette in contatto stretto con la terra e trasmette gioia di vivere.
5 Indaco: legato a persone riservate e molto chiuse che vogliono vivere nel loro mondo; è adatto anche a chi è particolarmente teso e nervoso, in quanto rappresenta un colore astringente, che rilassa, purifica sangue e mente.
6 Tornure: sellino di crine rigido.
7 Forêt d'Ébène: ovvero “Foresta d’Ebano”, è un nome di mia invenzione per identificare questa particolare miscela.
8 Orangerie: è il nome che ho dato qui ad una preparazione a base di caffè, cognac, scorza d’arancia e panna montata.
9  Tarte au sucre de Namur: torta tipica della città di Namur, a base di pate levée e farcita con una crema di zucchero, latte e uova.
10 Pour les vrais hommes: per veri uomini.



   
 
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