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Autore: Ortensia_    01/04/2012    2 recensioni
Dodici, e le lancette scorrono.
Qualcosa li ha condotti al numero 50 di Berkeley Square, e non vuole più lasciarli andare.
Vive nelle fondamenta, nel vuoto. Si nutre della paura e spezza quei sentimenti che riescono a toccarsi con dolcezza nella casa spettrale di Londra.
...
Cos'è? Chi è?
...
Genere: Dark, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Altri, Austria/Roderich Edelstein, Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Can you hear the World?'
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VII - Rimorsi



In un’epoca imprecisata, ma presumibilmente antecedente al 1700, la figlia di uno dei proprietari della casa venne torturata e barbaramente uccisa nella nursery, da un servitore della famiglia particolarmente sadico.
Spesso si sentono i pianti, i sospiri e le richieste di aiuto della piccola, la quale si palesa nelle stanze dell’ultimo piano in lacrime, disperata, torcendosi le mani.



Gli occhi del russo si aprirono a fatica, in una lieve fessura dove già la luce era penetrata e feriva le iridi d’ametista lucida.
Le palpebre, quasi paralizzate dal sonno, fremettero appena, quando le pupille di pece intravidero quel velo argenteo che fluttuava silenzioso davanti ai suoi occhi, in un sinuoso movimento quasi rilassante.
Era quasi come se riuscisse ad accarezzargli il viso paffuto con carezze vellutate ed attente, invogliandolo ad aprire gli occhi ancora un poco.
Le iridi e le pupille parvero ampliarsi improvvisamente sulla sclera bianca e gli occhi si sgranarono terrorizzati: un abito da sposa fluttuava fluidamente nello spazio davanti a lui, con i veli e gli strascichi del vestito ad accarezzargli il viso, come sospinti da una fredda aria inesistente.
Non bastava terrorizzarlo con richieste dalla voce spiritata o con i coltelli affilati puntati alla gola: ora lo torturava anche con pomposi vestiti da sposa sospesi in aria.
L’urlo del russo risuonò soffocato nella stanza, e in qualche frammento di secondo già la gola aveva iniziato a bruciare terribilmente.
D’un tratto, i vestito bianco, smise di fluttuare, e gli occhi spauriti del russo si soffermarono sul pugnale argenteo che, trafitto l’elegante corpetto in pizzo bianco, lo teneva ora immobilizzato alla parete della stanza.
Il viso del russo si fletté in un movimento lento e meccanico, con gli occhi terrorizzati ad osservare l’inquietante maschera indifferente della donna, immobile fra le coperte.

«Ah! Finito!» l’inglese diede un lieve colpetto alla macchinetta del caffè, facendo scontrare il dorso della mano alla struttura pesante, appena sporca di polvere, ripulita poco prima con un panno bianco che ora giaceva sulle ultime scale.
La vecchia macchinetta del caffè, con misere scelte -macchiato, espresso e cappuccino-, era poco lontano da quella porta che pareva dormire, chiusa infondo alle scale, rivolte ad un piano sotterraneo, cioè al di sotto del bagno, del salotto e di tutto ciò che si trovava al primo piano.
«Vediamo se funziona …»

L’americano annuì con un sorriso, mentre l’inglese teneva premuto il polpastrello dell’indice sul pulsante del caffè macchiato, in attesa che la macchinetta decidesse di dare anche il minimo segno di vita.
«Ahahah! Arthur, io lo toglierei il dito!»
«Pft. Non va e basta.» sibilò l’inglese, togliendo il dito con sdegno.
L’americano si chinò appena in avanti e premette il pulsante velocemente, senza tenerlo premuto, ed ecco che un lieve rumore all’interno della macchinetta la fece appena tremare davanti a loro.
«…»
«Sono l’eroe~☆!»
«Tsk …» il britannico afferrò quasi svogliato il bicchiere all’interno dell’imboccatura stretta della macchinetta e sentendolo pieno e caldo lo portò alla bocca senza far caso al contenuto.
Tutto fu abbastanza esplicito non appena quel liquido piacevolmente tiepido, ma orrendamente disgustoso, gli invase la bocca.
L’inglese spalancò gli occhi e senza farsi pregare sputò schifato ciò che stava per bere.
Quando osservò riluttante la macchia che il suo sputo aveva appena creato sulla parete frontale della macchinetta, si ritrasse velocemente, mentre l’americano attonito, alle sue spalle, riuscì appena a pronunciare qualche balbettio.
«S-sangue …» senza perdere tempo, Arthur, fregò il dorso della mano appena sotto le labbra, ripulendo quella leggera traccia di sangue rosso e tiepido che si era impregnata nella pelle pallida.
Era andato troppo vicino dal berlo.
Davvero troppo vicino.

«Feliciano, è ora di pranzo.»
Quando la voce grave del tedesco arrivò a stuzzicargli le orecchie, l’italiano, brontolò debolmente, rigirandosi su un fianco e tirandosi le coperte fin sopra la testa.
«Devi mangiare qualcosa …»
“Non ho fame …” Feliciano non fu sicuro di aver pronunciato queste parole, quanto coscienzioso era della sua debole voce. Forse erano rimaste lì, nascoste fra i pensieri, e non erano arrivate all’orecchio del tedesco che però sembrò comunque capire ed uscì dalla stanza in austero silenzio, arrendendosi a quello dell’italiano.

«Feliciano non mangia neppure oggi …?» alla domanda flebile proveniente appena più lontano dal suo posto, il tedesco alzò lo sguardo ed incontrò la testa china ed abbattuto dello spagnolo, gli occhi vitrei nascosti dai capelli castani.
«Neppure oggi …» si limitò a ripetere con un sospiro rassegnato.
Feliciano era il primo ad essersi convinto del fatto che il corpo di Romano dovesse essere fatto sparire, ma ora sembrava quello più propenso alla resa, ad abbandonarsi senza cibo, senza aiuto: subito dopo pranzo, Antonio, sarebbe andato a parlargli.

«Io non mi spiego tutti questi fenomeni, davvero.»
«Pft, ma è ovvio: c’è un assassino, i fantasmi non esistono!»
«Su ciò potrei darti ragione …» l’austriaco quasi si stupì delle sue parole, quando concordò con il prussiano quella piccola teoria «ma … un assassino? Fra noi? Mi sembra così esagerato …»
«A me invece non sembra esagerato per niente.» il prussiano sembrò sicuro delle proprie parole, e a passo deciso fiancheggiò la porta dell’austriaco, dirigendosi verso la propria.
«Sarà, ma-»
Gilbert non si accorse neppure che Roderich, adesso, era immobilizzato davanti alla porta della propria camera, e vi guardava attraverso, con il respiro morto in gola.
«G-Gilbert-?» al richiamo flebile e tremante dell’austriaco, la mano del prussiano, si paralizzò sulla maniglia della propria porta, ed il viso si fletté, permettendo agli occhi di scorgere lo spazio oltre la spalla destra.
Gilbert non osò nemmeno un sussurro e senza scostare il viso da quello fin troppo scosso dell’austriaco, decise di raggiungerlo con passi felpati, fermandosi alle sue spalle.
Un panno bianco stava fluttuando al centro della stanza, con movimenti circolari ed improvvisi, quasi fossero scatti nervosi.
Rimasero entrambi raccolti nel silenzio, increduli, davanti a quella trasparenza, a quell’irrealtà sinistra ed inspiegabile.
Gli occhi ametista dell’austriaco, e quelli di sangue del prussiano, seguirono il movimento del panno, che cadde improvvisamente a terra, come se la “vita” che lo aveva posseduto fin poco prima si fosse esaurita di colpo.
Nello stesso tempo, un suono profondo, si diffuse nella stanza.
I pulsanti ingialliti del pianoforti si erano abbassati e rialzati da soli, sotto chissà quale peso invisibile, protagonisti di chissà quale stregoneria.
Roderci sgranò gli occhi incredulo, arretrando velocemente e finendo quindi con la schiena aderente al petto del prussiano, che gli adagiò le mani sui fianchi.
Ancora una volta, i tasti, si abbassarono e, con dolci movimenti, sembrarono seguire una melodia, mentre gli sguardi attoniti di Roderich e Gilbert divenivano di secondo in secondo più scossi ed increduli.
«Che … che melodia è …?» Gilbert si permise questa domanda, con voce tremante, in cuor suo rinascendo che l’austriaco sarebbe sicuramente riuscito ad identificarla molto più rapidamente di lui, sin dalle prime note.
«Il … il Requiem …» Roderich sussurrò appena, al cospetto di quella melodia paradossalmente povera, perché sguarnita di una vera e propria orchestra e di voci, ma dipendente da un unico pianoforte.
«È il Requiem di Mozart-» pronunciò con un pizzico di sicurezza in più, e sentendo la melodia divenire più alta, percependo i tasti premuti con impeto e violenza, fece per entrare nella stanza.
«Così lo rovinerà!» quando il piede di Roderich varcò la sua soglia, il suo polso, fu stretto da una morsa forte e quasi possessiva, salda e sicura.
«No, Roderich! Sei impazzito forse? C’è un fantasma lì dentro!»
L’austriaco osservò incredulo il prussiano alle sue spalle, che a denti stretti si preoccupava di stringergli il polso con forza e bloccarlo sulla porta.
In un primo momento, Roderich, sembrò quasi convincersi del divieto del prussiano, ma quando la melodia si fece ancor più forte, negò e fece forza contro l’altro.
«Non posso!»
«Tsk! È solo uno stupido pianoforte!»
«Gilbert, l’hai detto tu poco fa che i fantasmi non esistono, ja?» l’austriaco arrestò la forza esercitata contro l’altro, guardandolo negli occhi e stringendo i denti quasi in una faticosa resistenza, ascoltando la melodia divenire quasi assordante: a fatica poteva udire la voce dell’albino di fronte a lui.
Sì, l’aveva detto: e allora? Magari aveva appena cambiato idea.
«Si tratta di un entità innocua!» l’austriaco fece nuovamente forza, ma il prussiano continuò ad opporsi.
«E tanto, poi, anche se dovesse succedermi qualcosa, non ne dovresti gioire, tu?» alla flebile domanda di Roderich, Gilbert deglutì appena: era preoccupato, ma opporsi ancora, soprattutto dopo quelle parole, avrebbe sminuito seriamente la sua Magnificenza. Sì, chi se ne importava di Roderich.
«Mhpf! Ti aspetto qui.» l’albino sbuffò appena, lasciando improvvisamente la mano dell’austriaco.
Roderci gli rivolse un’occhiata silenziosa, e poi, con un cenno sicuro della testa, varcò la soglia della stanza.
Quando la porta si chiuse, impedendo all’albino di tenere sotto controllo l’austriaco, Gilbert rimase immobile per qualche ottimo, poi, quando scoccarono le quattordici e la melodia si spense, lo chiamò.
«Roderich?»
Nessuna risposta.
Gilbert afferrò la maniglia con entrambe le mani, e tirandola trovò la porta serrata.
«… Roderich-?» lo chiamò ancora una volta, poi un’altra, più forte, tirando la maniglia con le punte dei piedi in una disperata presa sulla porta.
«Scheiße-» il prussiano sibilò appena, con i denti stretti in sospiri angosciati, il viso basso e gli occhi serrati, almeno finché, non muovendo appena i piedi, sentì qualcosa di insolito sotto la suola delle scarpe, e tutto intorno.
Aprì gli occhi.
«… C-cazzo!»
E se ne pentì subito, quando vide la grossa chiazza di sangue intorno alle sue scarpe e poi avanzare verso di lui quando arretrò velocemente fino a finire con la schiena aderente al corrimano impolverato delle scale.
«Gilbert!» Ludwig fu il primo a percorrere le scale per ritrovarsi davanti quella grossa pozza di sangue che, sinuosa, era scivolata sotto la fessura della porta, quasi raggiungendo nuovamente i piedi del fratello.
«Chi c’è lì dentro?» il tedesco adagiò una mano sulla spalla esile del prussiano, che negò con gli occhi fissi sul sangue, ed un fremito nel viso.
«Gilbert?» lo chiamò ancora, ma il maggiore non rispose.
«Lascialo, è troppo scosso.» Arthur immerse le proprie scarpe nel sangue, mentre Natalia ed Alfred, che insieme a lui avevano percorso le scale, si erano fermati vicino ai Beilschmidt senza però togliergli gli occhi di dosso.
Arthur afferrò la maniglia fra le dita, abbassandola lentamente: in un click appena udibile, la porta si aprì e cigolò rumorosamente.
«Mhn …» Arthur mugugnò appena, facendo segno agli altri di entrare, ma solo la bielorussa e l’americano lo seguirono, notando Ludwig troppo occupato con il fratello, ancora immobilizzato contro il corrimano e con gli occhi fissi sul sangue rosso acceso.
Roderich era seduto sullo sgabello, e parte del corpo giaceva riversa sul pianoforte insanguinato, dove il vecchio nero si era imperlato di un caldo rosso che adesso gocciolava sul parquet in un docile suono inudibile, anche per le orecchie più fini.
«Come diavolo ha fatto a …?»
Arthur colse subito ciò che Alfred stava per chiedere: come aveva fatto a morire in quella posizione, con un coltello da cucina piantato nel petto e la punta d’acciaio a trafiggere la colonna vertebrale e trapassarla, fino a trovare la propria uscita fra le scapole?
Un marchingegno, sicuramente.
Il britannico rimase in silenzio ed osservò con attenzione all’interno della cassa del pianoforte, dalla quale estrasse pezzi di filo trasparente.
«Probabilmente un collegamento fra i tasti e l’interno della cassa con questi fili …»
Si limitò a trarre questa scarna conclusione, rivolgendo un’occhiata all’americano «aiutami a portarlo giù …»
«Ok.»
Uscita dalla stanza, Natalia, si arrestò di fronte ai due tedeschi, senza scostare lo sguardo da Gilbert e lasciando poi che l’albino incontrasse i suoi occhi.
«Rimorsi? Magari gli volevi troppo bene …?»
Sorrise, poi, andandosene sotto lo sguardo confuso di Ludwig: cosa significavano quelle parole?
Rimorsi?

«La mia conclusione potrà sembrare stupida, ma l’unica cosa che dovremmo fare sarebbe trovare al più presto un modo per uscire dalla casa.» Alfred si pronunciò davanti al piatto della propria cena, punzecchiato subito dall’inglese, che approfittò di un certo aggettivo molto adatto, secondo il suo parere «le tue conclusioni sono sempre stupide, America.»
«Ok, ma come lo troviamo il modo per uscire? Non abbiamo neppure un telefono funzionante, qui dentro non ci sono né fax né computer, le finestre e le porte sono chiuse e, per di più, tutta la gente che passa qui davanti sembra non vederci e non sentirci.» Francis e le sue osservazioni spensero in un attimo l’animo acceso e determinato dell’americano che, stretta la forchetta fra i denti, non parlò più.

Gli occhi di sangue del prussiano, ora, erano fermi sul piatto vuoto, le labbra screpolate, serrate in una smorfia amara, la testa bassa, con lo sguardo nascosto dai capelli argentei: niente cena, niente parlantina roca ed arrogante come ogni sera.
Quando le volute tiepide e profumate di una porzione di cena -con la cena stessa- gli arrivarono sotto al naso non poté che mugugnare appena infastidito, scostando il viso preoccupandosi, però, di non mostrarlo ai presenti.
«Gilbert, dovresti mangiare qualcosa …»
Quando, oltre i propri ciuffi chiari, Gilbert vide il sorriso allegro sulle labbra del russo, e quella mano fastidiosa che gli porgeva il piatto, non poté che rivolgere gli occhi al cielo, sbuffando nervoso.
«Tienitela.»
«Ma non mangi niente? Proprio niente~?»
Gilbert fece per dire qualcosa, ma fu interrotto dalla voce grave del fratello, che quasi lo sorprese.
«Mio fratello può benissimo decidere da sé, Russia.»
Quando Gilbert udì il suono tagliente del silenzio, non poté che alzare appena il viso, notando quanto rabbioso ed assassino poteva essere in quel momento lo sguardo che Ivan rivolse a suo fratello.

Con il respiro affannato, ora, il prussiano sedeva sull’ultimo gradino delle scale, osservando insistentemente la porta socchiusa della camera del fratello: non poteva starsene con quel peso nel cuore per tutta la notte. Era … fastidioso.
«Davvero poco Magnifico.» e anche questo, sì.
Gilbert sbuffò appena, alzandosi trovando appoggio solo sulle proprie gambe, dirigendosi velocemente alla porta del fratello e bussando con un’insolita carenza di grinta.
«Ja?»
«Sono io, West.»
«Entra …»
L’albino sospinse appena la porta, ritrovando Ludwig seduto infondo al letto dell’italiano, che aveva tutta l’aria di aver iniziato una gran ripresa, con quel sorriso divertito sulla faccia. E anche il tedesco, nonostante tutto, aveva l’aria allegra.
Gilbert li osservò, senza spiccicare parola: beato il fratello, che poteva stare così vicino all’adorabile Italia, e beato Feliciano, che poteva scherzare così serenamente con West.
«West, dovrei parlarti.» gli occhi di Gilbert si assottigliarono appena, e poi arretrò, quando vide il fratello annuire silenzioso ed alzarsi dal letto senza dire altro.
Gilbert si allontanò dalla stanza del fratello, ed il tedesco lo seguì senza dire una parola, finché arrivare fin quasi all’interno della cucina gli parve un poco eccessivo.
«Cosa c’è?»
«West …»
Il Tedesco aggrottò la fronte, sorpreso della voce insolitamente flebile ed insicura del fratello.
«Sono stato io …»
Non aveva mai visto Gilbert così, e mai si sarebbe aspettato le parole che le labbra del fratello avrebbero pronunciato di lì a poco.



«Ho ucciso io Roderich.»



Parole che come cristalli taglienti ruppero il silenzio.
   
 
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