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Autore: cassiana    03/04/2012    7 recensioni
Margeysa è una donna con una storia da raccontare e come unico compagno di viaggio ha un gufo che la segue ovunque.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Compagne Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
    

Compagne



    Correvano sfilacci di nuvole nel cielo mentre il gufo argenteo volteggiava in larghi giri sulla pianura stepposa e gelata, una leggera foschia nascondeva il suolo ed attutiva i rumori. Il vento sferzava gelido ma il gufo quasi non lo sentiva, protetto dalle piume. La notte per lui non era stata molto fruttuosa, aveva trovato solo una piccola carcassa di ratto e poi null'altro. La fame lo spingeva a cercare ancora qualche altro animaletto che con il giorno si fosse fatto coraggio, ma di nuovo rimase deluso e con un secco verso stridulo andò ad appoggiarsi sul suo sostegno abituale: la spalla di una donna che rabbrividiva vicino al fuoco morente. Non appena vide il gufo sorrise, erano vecchi amici oramai:     - Non hai trovato molto, stanotte, eh Gartok?
Disse porgendo all'animale un pezzo di carne essiccata. Il gufo lo prese malvolentieri. Aveva fame ma odiava sentirsi dipendere dalla donna e lei lo sapeva.
    - Non fare cosi, in fondo faresti la stessa cosa con me!
Ed era la verità: spesso durante il lungo viaggio che li aveva portati in quel freddo deserto il rapace aveva portato all’umana qualcuna delle piccole prede che aveva catturato durante la notte. Prendersi cura l’uno dell’altra era solo uno dei modi con cui manifestavano l’amicizia che li legava. Il gufo dondolò il capo con gli occhi ridotti a fessure.
     - Ho capito.
Sospirò la donna e aprì il mantello. Il gufo si aggrappò alla cinta, nascose il capo sotto l'ala e s'addormentò. Margeysa raccolse tutte le sue cose, non molte, spense il fuoco e si rimise in cammino stringendosi nel mantello.
    La foschia si andava via via diradandosi lasciando intravedere l'aspetto brullo del terreno e, in lontananza, il profilo dei monti Klamath. Margeysa aguzzò gli occhi cercando di calcolare la distanza che la separava ma dopo poco alzò le spalle pensando che, comunque, era troppa. Si chiese cosa l'impediva di lasciarsi morire in quella landa ma un movimento sul suo petto la fece sorridere: non avrebbe lasciato il gufo da solo, non dopo tutto quel girovagare insieme! Dopo molto tempo che camminava sotto un sole pallido che non la riscaldava abbastanza dalle sferzate del vento, decise di fermarsi. Accese il fuoco e cominciò a sgranocchiare qualche frutto secco. Nel sedersi il mantello le si era aperto lasciando intravedere il piumaggio argentato del gufo. Lo accarezzò con tenerezza ricordando tutti gli anni in cui erano stati insieme. Poi richiuse strettamente il mantello per proteggere se stessa e l'amico. Sapeva che in quella zona c'erano dei villaggi, uno l'aveva già superato da pochi giorni e l'altro, a quanto le avevano detto, non doveva distare più di una giornata. Di certo non poteva passare un'altra notte all'addiaccio.     Sebbene fosse stanca aumentò l'andatura, voleva raggiungere un qualsiasi riparo prima di notte anche a costo di scavarsi una buca da sola. La sacca le pesava su una spalla, mentre l'altra era oberata dal peso dell'arco e delle frecce, che per molti giorni erano rimasti inutilizzati. Quasi improvvisamente si vide davanti il paese che aveva tanto desiderato. Margeysa scosse Gartok che si svegliò e lentamente tirò fuori la testa.
    - Siamo arrivati!
Esclamò la donna mentre un lampo di comprensione passava per gli occhi mielati dell'uccello che si issò fino alle spalle di Margeysa. Gli abitanti del piccolo villaggio si sporsero sospettosi dagli usci delle porte per osservare la straniera. Per quegli uomini dalla pelle slavata, i capelli biondissimi e gli occhi di un azzurro acquoso la donna che si avvicinava appariva una meraviglia. Gli anziani credevano che dovesse venire dal sud per via della pelle ambrata e i capelli neri. I giovani, invece, guardavano affascinati l'uccello che l'accompagnava. Margeysa notò lo stupore del paese e impacciata si grattò il capo. Aveva ricevuto la stessa accoglienza un po’ ovunque in quelle lande ed ogni volta ne era rimasta turbata, tuttavia cercò di mostrarsi sicura di se mentre esclamava:
    - Salute, chi comanda qui?
Un uomo barbuto e massiccio si fece avanti:
    - Io sono il capo di questo villaggio e il mio nome è Rabhat. Tu chi sei, straniera dalla pelle scura?
    - Il mio nome è Margeysa e questo è Gartok. Chiedo ospitalità per una notte.
Aveva parlato a voce alta ma gentile e sperava di non essersi mostrata arrogante. Il capovillaggio sorrise:
    - Sarà meglio che vieni dentro, Margeysa dalla pelle scura.
Una volta stabilita una certa confidenza gli abitanti di Nutak si rivelarono essere molto cordiali ed accolsero con benevolenza Margeysa ed il suo gufo, tanto che fu data una sorta di festa in suo onore. La donna se ne stupì molto e quando ne chiese il perché ad Ifny, la moglie di Rabhat, quella rispose:
    - Qui a Nutak cerchiamo ogni scusa per festeggiare. Sai, per scacciare la noia dell' inverno!
Quella fu una festa che durò tutta la notte, dove fu mangiato e bevuto molto, ballato, cantato e raccontato storie. Margeysa sorseggiava il caldo vino speziato ascoltando lo sciamano che raccontava la storia di Atjeh, l'eroe guerriero del villaggio. Finita la leggenda rimasero tutti pensosi mentre le pance erano piene ed il fuoco scoppiettava allegramente. Dopo poco lo sciamano si rivolse a Margeysa:
     - E la tua, qual è di storia? L'inverno è una brutta stagione per vagabondare nella Pianura.
La donna sorrise perché si aspettava quella domanda e si chiese, per qualche istante, se fosse il caso di mentire
    - Cosa posso dire?- esclamò infine- la mia storia non è interessante come quella del vostro Atjeh. Non ho combattuto mostri, non ho salvato interi villaggi in fiamme e non sono tornata dall’oltretomba. Sono solo una donna che sta cercando una nuova vita.
    - Ci stai prendendo in giro?
Esclamò un giovane che evidentemente aveva bevuto un po’ troppo. Margeysa non si scompose e un'occhiata severa degli anziani persuase il ragazzo a rimettersi seduto.
    - Non era mia intenzione offendere nessuno- riprese Margeysa - se volete dettagli sono pronta a darveli...
In quel momento Gartok sbatté le ali e lanciò un verso stridulo. Gli abitanti di Nutak, tranne lo sciamano, si scansarono in fretta e anche Margeysa sembrò perplessa per un momento, poi comprese. Accarezzò il gufo che la guardò fissamente e si acquietò.
    - Credo che tu abbia capito.
disse rivolgendosi allo sciamano che annuì: era il caso di raccontare la verità e così Margeysa cominciò:
     - Il mio villaggio si trova a sud, molto lontano da qui. Il sole splende caldo, l'erba cresce rigogliosa e la selvaggina è abbondante. La mia vita non era diversa da quella di tutte le altre donne di Herat: ho avuto un marito, curavo la casa, cucinavo...fino a quando il mio uomo non fu ucciso da un cinghiale ed io rimasi vedova.
    Non avevo intenzione di risposarmi e così imparai a cavarmela da sola. Imparai a tirare con l’arco e a cacciare. Presto i miei compaesani smisero di giudicarmi e mi lasciarono vivere la mia vita. Quando il paese venne invaso dalle orde dei predoni dell’ovest anche Herat ne scontò le conseguenze: fu dato alle fiamme, gli uomini che tentarono di ribellarsi uccisi e tutti gli altri furono deportati e venduti come schiavi, me compresa. Le donne più giovani vennero date ai notabili come bottino mentre quelle come me furono usate come serve. Il mio padrone mi portò con sè durante un suo viaggio ed io ne approfittai per scappare. Anche se ormai hanno perso le mie tracce non smetto di viaggiare. Voglio andare oltre le montagne Klamath. Dicono che ci sia un regno libero dove c'è spazio per tutti.
    - E il tuo uccello?
Chiese qualcuno dopo qualche attimo di silenzio. Il gufo girò il capo verso di lui e poi verso Margeysa che sospirò. Non sarebbe stato facile narrare quella parte della storia, anche dopo tutti quegli anni lei stessa a volte stentava a crederci.
    Ricordava ancora perfettamente la prima volta che l’aveva vista: una ragazzina smunta con i capelli chiari, quasi argentati, tutti ingarbugliati ed enormi occhi color del miele di montagna. Il padrone l’aveva appena comprata al mercato degli schiavi, frutto di un’ennesima razzia dei predoni. Margeysa aveva stretto le labbra quando aveva visto l’espressione avida negli occhi dell’uomo. Era sua serva da parecchi cicli lunari ormai ed aveva imparato a decifrarne l’espressioni del viso. Sapeva che era troppo tarchiata e vecchia  per fare altro che cucinargli i pasti e pulirgli la casa e ringraziava gli dei che le giornate passate a caccia e a comportarsi come un uomo l’avessero resa così poco appetibile. Ma quella ragazzina, la cui bellezza si poteva intuire anche da sotto gli stracci con cui era vestita, era una facile preda della lasciva bramosia degli uomini.
    Presto Margeysa aveva preso sotto le sue ali protettive la ragazzina, asciugandone le lacrime, lavandone il corpo delicato, massaggiando con balsamo i lividi sulla pelle diafana. Il padrone non era cattivo, ma era un uomo e considerava poco più che oggetti le donne che aveva in casa. Era un mercante e in casa sua voleva solo il meglio, belli oggetti, morbidi e ricchi vestiti, una concubina docile e bella e una serva ubbidiente e che stesse stare al suo posto. Margeysa non poteva accettarlo, si era abituata ad una vita libera e senza costrizioni ed essere costretta in casa le risultava sempre più penoso. Aveva più volte pensato alla fuga, sebbene gli schiavi fuggitivi fossero soggetti a pene severissime come la marchiatura o la storpiatura, ma ora doveva occuparsi della ragazza a cui si era affezionata come una madre.
    I clienti del mercante spesso venivano a trovarlo in casa e Margeysa si era abituata a servire lui e i suoi ospiti con discrezione e silenzio. Tra questi ce ne era uno che le metteva i brividi. Trafficava in manufatti magici, preparava incantesimi e maledizioni. A prima vista era proprio come tutti gli altri: alto forse un poco più della media, il viso pallido solcato da un reticolo di rughe e una folta barba nera brillante di olio. Vestiva con abiti semplici ma di ottima fattura e non portava gioielli, tranne un grosso anello di giada che Margeysa non aveva potuto fare a meno di notare dalla prima volta che l’aveva visto.     Non avrebbe saputo dire neanche lei cosa suscitasse la sua repulsione, forse gli sguardi che le lanciava o il suo atteggiamento in generale, sembrava che un’aura di potere crudele lo circondasse. Perfino il padrone sembrava a disagio in sua presenza e teneva ben celata alla vista dell’ospite misterioso la graziosa concubina che altrimenti era solito sfoggiare con orgoglio e lei ad ogni modo cercava di tenersi ben alla larga da lui. Fino al giorno in cui Margeysa si era ammalata di un brutto raffreddore di testa, la giovane si era mostrata ben disponibile a sostituirla nei suoi compiti fino a che non si fosse rimessa in sesto. Era fuori a stendere i panni quando il mago la notò e da quel momento nessuno di loro ebbe più pace. Si era invaghito di lei, anzi ne era ossessionato e da allora aveva cominciato a blandire, tormentare e infine minacciare il padrone di vendergli la concubina, ma il mercante non ne voleva sapere e resistette a lungo.  I suo traffici cominciarono ad andare male, le carovane si perdevano nel deserto, ogni iniziativa che intraprendeva sembrava destinata al fallimento. Ma ancora non riusciva a rinunciare alla sua bella concubina, intuiva che sarebbe andata incontro ad un destino molto più oscuro che se fosse rimasta con lui. Margeysa fu sorpresa da tale atteggiamento, forse c’era qualcosa di apprezzabile in quell’uomo. Mentre il mago era sempre più ossessionato, il padrone sembrava perdere le forze, dimagriva a vista d’occhio, gli caddero i denti e i capelli. Forse a quel punto si sarebbe persuaso a cedere la ragazza, ma Margeysa non aveva intenzione di arrendersi. Lei non avrebbe permesso al mago di averla vinta e preparò un piano di fuga. In fondo questa era l’occasione che aveva sempre aspettato.
      Una notte senza luna Margeysa svegliò silenziosamente la ragazza e presi un po’ di fagotti che avevano preparato in precedenza lasciarono la casa del mercante. Le strade erano appena rischiarate dalle torce fumose infisse agli angoli degli opulenti palazzi del ricco quartiere dov’era la casa del loro padrone. Svelte e veloci le due donne si mossero nei vicoli più oscuri e meno frequentati. Erano quasi alle porte della città quando un drappello di guardie le bloccarono:
    - Cosa fanno due donne sole a quest’ora di notte?
Margeysa si era preparata una storia: raccontò loro che era una levatrice chiamata per un parto difficoltoso e che la ragazza era la sua apprendista. Il capo delle guardie la interrogò ancora per qualche minuto, ma la storia sembrò reggere. Margeysa aveva il terrore che volessero accompagnarle, ma un urlo e dei rumori di corsa distrassero le guardie che le salutarono in fretta senza approfondire. Margeysa tirò un grosso sospiro di sollievo, ma ancora non potevano dirsi al sicuro, dovevano prima uscire. La parte nord della città, la più povera e malfamata, non aveva mura di protezione, solo uno sporco fiumiciattolo che digradava in una zona paludosa. Si diressero da quella parte, ma un’ombra oscura fermò i loro passi. Le due donne cominciarono a tremare, da quella forma nera esalava un miasma di malvagità che toglieva loro il fiato. Occhi di brace rossa lampeggiavano sul non-volto della cosa e un anello di giada brillava al suo dito. Margeysa si guardò intorno freneticamente alla ricerca di qualcosa che potesse usare come un’arma. Trovò una grossa pietra e la scagliò con tutte le proprie forze verso l’ombra, ma non sembrò avere alcun effetto. La donna anziana prese la mano della giovane e scappò via più veloce che poteva. La ragazza aveva gambe più forti ed era più leggera, così Margeysa le urlò di fuggire mentre lei cercava di trattenere l’ombra. A quel punto la ragazza si voltò e con un urlo di guerra si scagliò lei stessa contro l’avversario oscuro. In mano brandiva un coltellaccio da cucina e lo infilò in uno degli occhi della creatura che emise un verso stridulo che fece loro accapponare la pelle.
    Versi distorti uscirono dalla sua gola, parole di maledizione: Margeysa non poté fare altro che osservare con orrore le membra della ragazza contorcersi e rattrappirsi, i bei capelli d’argento tramutarsi in piume, il volto diventare quello di un rapace. Il gufo emise uno stridulo verso d’angoscia mentre la guardava con occhi ancora umani.
    - Da allora ho consultato decine di maghi ma tutti mi hanno detto che l'unico modo di riportare Gartok alla sua forma umana è quella di chiamarla col suo vero nome. Gartok vuol dire gufo nella lingua del sud e devo avere un blocco mentale perché, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordarmi il suo vero nome.
    Margeysa lasciò vagare lo sguardo per la sala guardando i volti increduli o stupiti degli abitanti del villaggio. Poi si alzò:
    - Sono molto stanca, vorrei dormire un po’.
Rabhat fu il primo ad alzarsi offrendo a Margeysa ospitalità e qualsiasi altra cosa di cui potesse avere bisogno. Dopodiché ognuno si ritirò nella propria casa riflettendo o dimenticandosi della storia che era stata raccontata quella sera.
    La mattina venne annunciata dal grido del gufo che tornava a casa dopo una notte di caccia. L'aria era ancora gelida e la nebbia faceva fatica a diradarsi. Sulla porta della casa più importante di Nutak Margeysa salutava il capovillaggio.
     - Sei sicura di non voler restare ancora per un poco?
Chiese ma Margeysa scosse il capo mentre Gartok le si appollaiava sulla spalla.
     - Mi dispiace, ho fatto una promessa.
Gli abitanti di Nutak la salutarono e la donna uscì dal villaggio. Non fece molta strada che incontrò lo sciamano che le si avvicinò con passo sciancato:
    - Sei una donna coraggiosa - le disse- meriti una benedizione. Abbassati.
Margeysa ubbidì mentre il vecchio le disegnava una runa sulla fronte mormorando un'antica formula di augurio.
    - Adesso sei pronta per andare, figlia.
Margeysa sentì dentro di sè un’ondata di calore e ne fu grata allo sciamano. Iniziò il suo cammino con più speranza di quanta ne avesse provata da molto tempo e incominciò a cantare. Si era già allontanata parecchio da Nutak quando un impulso irresistibile la costrinse a voltarsi: il villaggio era scomparso nella nebbia.                                         
   
 
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