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Autore: Anima97    03/04/2012    4 recensioni
Il dolore della morte del proprio figlio non sono capace di descriverlo, perché non ne ho mai avuto la possibilità. La mia vita è stata anestetizzata e uccisa sotto i ferri d’ospedale, quando ero ancora troppo giovane.
Quando un bambino nasce, il suo pianto è come una bottiglia che viene rotta sulla carena di una nave: inaugura l’inizio della morte, per questo non mi stupisco. Ma gli eventi che sono seguiti dopo, che riporto qui tra questi fogli, hanno causato spavento e curiosità.
La storia che sto per raccontarvi è la storia della vita di persone speciali, dopo la mia morte, perché io possa documentare ogni avvenimento che me medesima ha creato con maestria.
Adesso devo tacere, ma un avviso devo lasciarlo:
Nulla avviene per caso.
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Metempsychosis anima


Il dolore della morte del proprio figlio io non sono capace di descriverlo, perché non ne ho mai avuto la possibilità. La mia vita è stata anestetizzata e uccisa sotto i ferri d’ospedale, quando ero ancora troppo giovane.
Quando un bambino nasce, il suo pianto è come una bottiglia che viene rotta sulla carena di una nave: inaugura l’inizio della morte, per questo non mi stupisco. Ma gli eventi che sono seguiti dopo, che riporto qui tra questi fogli, hanno causato spavento e curiosità.
La storia che sto per raccontarvi è la storia della vita di persone speciali, dopo la mia morte, perché io possa documentare ogni avvenimento che me medesima ha creato con maestria.
Adesso devo tacere, ma un avviso devo lasciarlo:

Nulla avviene per caso.

***

“Ti voglio bene papà” detto questo, il vento soffiò e lei si spense, come uno dei tanti ceri che avrebbero circondato la sua tomba in legno di faggio. Quell’unico cero, spento, solo, in mezzo a tanti altri, ancora alti e luminosi, ma tutti così dannatamente uguali e sinistri, destinati a essere liquidi giallastri e roventi, ma soprattutto spenti. Quell’unico cero, diverso da tutti gli altri, era ancora in piedi, come se volesse intendere “Sono spento e sono fiero” con l’aria di chi ne sa molto di più e la pensi, inevitabilmente, in modo diverso.
Così, anche quel triste giorno, il padre vide sua figlia nell’oggetto più impensabile.
 
Carmen però non assistette al funerale: era a scuola, seduta su una sedia scricchiolante con i gomiti poggiati su un banco lurido di un colore verdastro.
Stava spiegando perché si era scatenata la seconda guerra mondiale a una professoressa smemorata e disinteressata. Avrebbe preso di nuovo un bel voto, immeritato, perchè lo sapeva anche lei che viveva di rendita ormai da tempo.
I primi due anni di scuola media li aveva passati studiando e piangendo, così, arrivata alla fine del terzo, si era concessa una pausa e si lavorava i professori per non prendere un’insufficienza.
Ma da un paio di giorni, la stessa domanda la tormentava a riguardo “Come hanno fatto queste persone a diventare professori?” persone che, secondo lei, permettevano il suo degrado scolastico.
Un vero professore l’avrebbe fatta appassionare allo studio, avrebbe spiegato e teorizzato con la luce negli occhi, invogliando gli studenti a dare il meglio, pur di non deludere lui e se stessi. Perché, secondo lei, se avesse avuto un professore del genere sarebbe stata invidiosa della sua cultura e avrebbe studiato.
“Tutte scuse” dicevano gli adulti, ma Carmen, ormai, non li prendeva più in considerazione.
Ogni uomo o donna di una certa età aveva perso valore per lei, la deludevano. Si aspettava che ogni adulto, avendo raggiunto un’età saggia e coerente, rispettasse il suo ideale di persona civile e acculturata, ma no: nessuno era come lei si aspettava. Anche il migliore aveva quel difetto quasi impercettibile che faceva vacillare la stima della ragazza, eppure lei sapeva che un uomo, un adulto, un professore, c’era.
Ne era sicura, ma non si dannava per questo, viveva la sua vita come sempre, aspettando placidamente l’arrivo di questo fantomatico “principe azzurro” cinquantenne.
La professoressa concluse l’interrogazione e lei, svogliatamente, aprì il libro, incantandosi nelle pagine che raccontavano le vite di persone importanti, protagoniste della storia.
Persone che hanno creato guerre, condotto battaglie culturali, rivoluzionato società e religioni.
Lei non faceva parte di queste, si riteneva solo una ragazzina tredicenne, figlia di operaio.
Viveva in un piccolo paesello sperduto nelle colline del sud Italia, tra ignoranti e religiosi, qualche compagnia di giovani metallari e di aspiranti ballerini di rumori da discoteca. Nessuna di queste categorie le aggradava, avrebbe preferito vivere tra persone semplici e indipendenti da qualsiasi moda, sognando e sperando che ci fosse un posto al mondo ad essere così.
Invece era costretta a vivere li, in un luogo in cui nessuno sembrava capirla, dove venivi rispettato solo se non eri te stesso. Un posto dimenticato dal mondo, dove non accadeva mai nulla, se non scandali di omicidi, che sarebbero finiti solo su piccoli telegiornali regionali.
“Tutta colpa della società, la democrazia è solo un’utopia ormai, viviamo in una dittatura indiretta!” diceva. C’era chi la quotava e chi la prendeva in giro urlando “Sei pazza?”, ma a lei non importava dei pareri della gente.
Si risvegliò dalla trance, grazie al penetrante suono della campanella. Con calma, ripose tutto nello zaino e si stupì di se stessa. In quell’istante capì di essere cambiata, radicalmente, da un giorno all’altro: Almeno due giorni prima, era una di quelle ragazzine disposte a vendere l’anima pur di piacere a un metallaro carino o di farsi amico un secchione. Una di quelle che si vestivano in tuta oppure con gli accessori più strampalati e alla moda, che se ne fregava della politica e girava per le strade urlando “Pace, amore e rock en roll!” senza sapere cosa significassero.
Non amava pensare e soffermarsi sui dettagli, agiva, spesso istintivamente.
Invece adesso era tutto il contrario. Si sentiva diversa, matura, ma anche incompleta, come quando bisogna dire a qualcuno una cosa importante e ci si dimentica tutto improvvisamente.
Questo cambiamento lo avevano notato tutti, adesso anche lei.
Si mise lo zaino in spalla, aggiustandosi la camicia leggera e pensò “Questo è quello che si prova quando si cresce?” e subito dopo “Ma si cresce in soli due giorni?”.
Diede uno sguardo alla piccola classe, osservò il soffitto a volta e la grande finestra blindata che dava sulle aiuole della piazzetta davanti. Fuori, il sole cocente, rendeva il mondo più colorato e surreale.
Era turbata da tutto quello che stava accadendo: la fine del terzo anno, gli esami, gli ultimi giorni con i compagni di classe e anche il suo cambiamento radicale.
Fu l’ultima ad uscire dal'aula.
“Nessuna illusione” si disse subito fuori dalla scuola, “non mi sta succedendo nulla di strano, paranormale o chissà altro, sto solo crescendo”, ma per lei “crescere” significava diventare più alti, formosi e maturi, non sentire in continuazione un’inquietante presenza di cui, però, non riusciva a fare a meno.
Ma allora cosa stava succedendo, in realtà, a Carmen?
 
L’ormai ex papà, continuava a vivere le sue giornate come se nulla fosse accaduto, cercando di riempire quei momenti in cui una volta era presente la figlia. Faceva finta che questa non fosse mai vissuta, illudendosi di poter vivere felicemente all’età di cinquant’otto anni, da solo, e con un’intera casa-famiglia da dirigere, pullulante di ragazzi in situazioni drammatiche!
Da sempre aveva studiato per poter fare quel lavoro: L’assistente sociale (soprannominato da molti “lo stronzo che ci porta via i figli”). Era sempre stato affascinato dal suo lavoro ed era felice di poter aiutare quei ragazzi a migliorarsi, nonostante dovesse far fronte a molte situazioni sgradevoli, come ad esempio le minacce di genitori furiosi a cui veniva sottratta la prole.
Ma delle minacce e dei processi non aveva mai detto nulla alla figlia, per non farla preoccupare.
La figlia.
Neanche lui lo credeva possibile: aveva appena perso l’unica persona a cui aveva voluto bene come se stesso! Si sentiva come un equilibrista, nel momento in cui cade dal suo filo, prima di schiantarsi contro il terreno. Bum. Ancora una volta si era fatto male. La verità faceva male.
La morte faceva male.
Gli sembrava inutile ricominciare da capo, o peggio ancora, continuare a vivere le abitudini di una volta. Per questo, quell’estate, la passò in silenzio, isolato da tutto e da tutti.
Si, da solo, come per abituarsi ancora di più al pensiero che avrebbe vissuto così per sempre.
Lo tormentava l’idea che sua figlia, la sua bambina, fosse morta in quel modo così stupido! Malediceva chiunque avesse potuto farle del male, anche se stesso.
Dopo un po’ di tempo, si chiese come si chiamasse il sentimento che stesse provando.
La risposta fu una e fu terribile: Depressione.

  
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