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Autore: Kary91    04/04/2012    11 recensioni
La luce delle stelle si divise in quattro. Quattro pareti di luce dentro le quali non esistevano vampiri, fantasmi, qualsiasi tipo di creatura sovrannaturale. Quattro pareti, quattro facce: le facce di una piramide.
Mini long di 5 capitoli,ambientata durante il periodo di Jeremy a Denver
***
A Denver era riuscito a scrollarsi via un po’ di detriti appartenuti alla sua adolescenza crollata. Jeremy si era alzato in piedi sulle macerie in equilibrio precario, e aveva incominciato a ricostruire qualcosa di nuovo; un pavimento. Una base.
Eppure, un quadrato di pietra, per quanto fosse solido, non era sufficiente per metterlo al riparo dalle percosse del vento, dai detriti, dalle schegge di pensieri tormentati che continuavano a ferirlo, agitate dai sensi di colpa e dagli incubi.
Aveva creduto di essere finalmente al sicuro, ma si sbagliava; fisicamente era forse a casa, me dentro di sé era ancora intrappolato nella tormenta.
[Era caduta la notte.
Su di una stella, un pianeta, il mio, la Terra, c'era un piccolo principe da consolare. (cit. Il Piccolo Principe)]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jeremy Gilbert, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'It calls me home.'
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Capitolo due. – Le facce–

(parte 1)

 

“Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda.”

 

“Ma se la pecora mangia il fiore, è come se per lui tutto a un tratto,

tutte le stelle si spegnessero.”

 

Da Il piccolo Principe.

 

 

 

Cammina lungo un corridoio che non riconosce, per via della poca luce che lo circonda; nella mano destra regge una bomboletta spray. Le dita sono ancora sporche di vernice, così come la sua maglietta. Vernice rossa, stipata fra le pieghe della sua t-shirt; ma lui non ci bada. Infila una mano fra i capelli a spazzola, arruffandoli. Sorride orgoglioso, evocando l’abbozzo di graffito che ha tratteggiato su un muro dietro casa; sa che suo padre lo riprenderà una volta rientrato, ma per il momento decide di non curarsene. Raggiunge l’ingresso di casa Gilbert, e c’è silenzio, un silenzio insolito, perfino per quell’ora tarda -. Il singhiozzare sommosso di una donna smorza quella quiete innaturale, e quando Jeremy raggiunge la cucina, il sorriso sulle sue labbra sfiorisce, appassendo per sempre. Le ginocchia gli cedono, la bomboletta di colore rotola a terra, i suoi occhi si velano di sgomento, spaventati dall’aria tormentata di Jenna.

Non c’è bisogno che la donna dica nulla; in quel momento Jeremy capisce, e le lacrime bagnano umide le guance, i palmi delle sue mani si aggrappano al pavimento freddo. Le macchie rosse sulla sua maglietta assumono un colore sinistro, e Jeremy chiude gli occhi, per proteggersi da quello che vede, che percepisce in quella stanza.

È il primo dolore lacerante da sopportare, per lui. Il primo di una lunga serie.

Non fa nemmeno in tempo a rialzarsi, che la porta della cucina si apre di scatto. Elena irrompe nella stanza, si inginocchia sul pavimento accanto a lui.

“Klaus sta arrivando.” annuncia scrollandolo, con violenza. “Jeremy, muoviti, dobbiamo andarcene!”

Non vuole andare via; cerca di opporsi, voltandosi in direzione di Jenna, ma lei non c’è più. Jeremy si arrende alla presa di sua sorella, lasciandosi trascinare lungo il corridoio. Non riesce ancora a distinguere nulla nell’oscurità, ma incomincia ad abituarsi. C’è troppo, troppo dolore, per riuscire a prestare realmente attenzione a ciò che gli sta attorno.

Escono in giardino, per poi allontanarsi lungo il viale di fronte a casa, accelerando il passo. Il cuore di Jeremy incespica, nel momento in cui passano di fronte alla casa dei Donovan: Vicki gli sorride, osservandolo dalla veranda. Accenna a un saluto con la mano,e  il ragazzo nota che è ancora vestita da vampira, proprio come la sera di Halloween, il giorno in cui è morta. Cerca di fermarsi; vorrebbe poterle sorridere un’ultima volta, parlarle, ricambiare il suo gesto di saluto; ma Elena continua a strattonarlo, facendolo correre in direzione opposta.

“Jeremy!”

Una voce lo raggiunge alle sue spalle, e lui riesce finalmente a voltarsi, respingendo la presa di sua sorella.

“Jeremy!”

Anna ha un aspetto terribile; la pelle diafana del suo volto è rigata da segni di frattura sempre più evidenti. Le mani della ragazza sono strette attorno al paletto di legno ancorato suo petto, all’altezza del cuore.

 “Anna!”

La morsa che fino in quel momento aveva avvolto la gola di Jeremy scompare, permettendogli di chiamarla a sua volta.

“Anna!Anna!”

Ma la vampira scuote il capo, lasciandosi cadere a terra; il volto sempre più cereo, inumidito dalle lacrime.

“Mi hai lasciata andare.” riesce a sussurrare infine, gli occhi velati dalla paura.  “Mi hai lasciato andare e adesso sarò sola per sempre.”

Jeremy tenta di raggiungerla, ma la presa di Elena torna a farsi più pesante, le sue scarpe incespicano sul terreno.

Cade a terra, e si accorge che ha da poco incominciato a piovere; l’acqua diluisce le macchie di vernice sulla sua maglietta, e il rosso scorre sulle sue mani, mentre Anna rilascia il capo all’indietro, arrendendosi.

 “Non è colpa mia!”

Riesce solo a gridare Jeremy. Tende la mano per provare ad afferrare la sua, ma non ci riesce.

Non riesce a stringerla un ultima volta; non può dirle addio.

Così come non ha mai potuto dire addio a Vicki; o alla zia Jenna. O ai suoi genitori.

“Non è colpa mia.”

E resta a terra, sporco e ferito.

Chiude gli occhi, nella vana speranza di riuscire a far terminare tutto così; in mezzo a un vicolo, sotto la pioggia. Ma l’urlo di Elena lo costringe a voltarsi, cementando il suo cuore di paura per l’ennesima volta.

“Elena!”

 

 

 

Jeremy sussultò, svegliandosi di soprassalto. Scattò a sedere, tastando freneticamente la superficie della trapunta, mentre con la mano sinistra cercava a tentoni un interruttore. Aveva il fiato corto, e il battito accelerato, come se avesse corso per davvero; e tremava.

Non riuscì a trovare il pulsante di accensione della lampada, e per un attimo si rannicchiò su se stesso, spaventato e disorientato; impiegò qualche secondo, per ricordarsi di non trovarsi a casa sua. Non era a Mystic Falls, ma a Denver, nell’appartamento di Howie e Demetria. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’oscurità, allungando una seconda volta la mano sul comodino, cercando lampada; l’assenza di luce continuò a tormentarlo, fino a che non riuscì finalmente a trovare il pulsante di accensione.

Quando il buio venne meno nella stanza, Jeremy riuscì finalmente a recuperare un barlume di controllo su se stesso. Riconobbe la scrivania piena di libri, la valigia aperta sul pavimento, i vestiti disseminati un po’ ovunque per la sua stanza, e il respiro incominciò a farsi più regolare. Le mani, però, gli tremavano ancora. Si sfilò via il sudore dalla fronte, evocando con un brivido le chiazze rosse sulla sua maglietta, il cenno di saluto di Vicki, le lacrime della zia Jenna, le urla di Anna.

Aveva fatto un sogno – un incubo -. Era stato tutto solo un incubo.

Elena stava bene, e anche lui. Erano entrambi al sicuro.

E lui si trovava nella sua stanza, a Denver: il posto che ormai aveva incominciato a considerare una sorta di seconda casa.

Eppure lo sgomento non scemò in lui, quella notte.

Nel momento in cui tornò a rilassarsi sotto le coperte, convinto di essere finalmente riuscito a calmarsi, il respiro prese a farsi più affannato.

E aveva paura; paura per Elena, paura per se stesso.

Aveva paura, perché in quel momento capì che lasciarsi Mystic Falls alle spalle era stato inutile in fondo; perché non sarebbe cambiato nulla.

Aveva sedici anni, solo sedici anni, e già aveva già perso tutto.

Non c’era la possibilità di un nuovo inizio, per lui. Perché il rosso, il sangue, non era solo più sulla sua maglietta, o sulle nocche delle sue mani: era ovunque.

Non avrebbe ricominciato daccapo: qualcosa dentro di lui si era spento e i timidi tentativi che  stava muovendo per cercare di rimettersi in sesto, non sarebbero stati sufficienti.

Quella notte, Jeremy mise da parte per la prima volta le piramidi, le strade trafficate di Denver, il parco, gli occhi azzurri di Hazel.

“Mi hai lasciata andare…

                                                     “Klaus sta arrivando. Jeremy, Muoviti, dobbiamo andarcene!”

Le poche frasi che gli erano state rivolte nell’incubo, continuavano vorticargli nella sua testa, facendogli male. Graffiando via quel barlume di luce che stava incominciando a riaffiorare nel suo sguardo.

 

“Non è colpa mia.” ripetè come aveva fatto nel sogno, rifugiandosi sotto le coperte.

Sentiva freddo, aveva paura, e provava dolore.

Ed era solo.

 

 “Mi hai lasciata andare…

                                                    “Jeremy!”

 

 “Non è colpa mia.” mormorò un’ultima volta, prima di incominciare a piangere.

 

Era caduta la notte.

Su di una stella, un pianeta, il mio, la Terra, c'era un piccolo principe da consolare.

da Il Piccolo Principe

 

 

“Demetria?”

“Che cosa c’è?”

Howie si sollevò su un fianco, osservando con aria turbata porta della camera da letto.

“Il ragazzo piange.”

Demetria sospirò, sfilandosi via le coperte dalle spalle.

Scosse il capo con aria triste: nella camera adiacente alla loro c’era un giovanotto - un ragazzino - un ragazzino che piangeva.

E non c’era nulla che potessero fare per consolarlo.

“Lasciamolo tranquillo, Howie.” mormorò infine con dolcezza. “Ha bisogno anche di questo.”

 

“Gli dicevo: il fiore che tu ami non è in pericolo. Disegnerò una museruola per la tua pecora… E una corazza per il tuo fiore. Io…

 

Non sapevo cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo,come raggiungerlo.

Il paese delle lacrime è così misterioso.

da Il piccolo Principe.

 

***

 

Qualche giorno più tardi, una domenica, Jeremy sedeva di fronte al televisore, impigrito dal brutto tempo di quel pomeriggio. Howie occupava come al solito la poltrona, il  volto semi nascosto dietro al giornale che stava leggendo.

 

“Tutto a posto, voi due?” domandò in quel momento Demetria, raggiungendoli in soggiorno, il golfino adagiato sull’avambraccio. “Sto uscendo per fare un po’ di compere. Se avete bisogno di qualcosa, dopo la spesa sarò da Veera, nel palazzo a fianco.

 

Nel sentire nominare il palazzo adiacente al loro, Jeremy distolse lo sguardo dal televisore.

 

“Per caso conoscete una ragazza che si chiama Hazel?” si decise finalmente a domandare, rivolgendo poi a Demetria un’occhiata incuriosita. “Vive anche lei nel palazzo di fianco a questo.”

 

I Goldman si scambiarono una rapida occhiata.

 

“Parli della figlia del dottor Shawn, vero?.” domandò la donna; il suo viso si illuminò.

“Hazel. Sì, la conosciamo.” dichiarò poi, sorridendogli con dolcezza. “Proprio una bella ragazza.”

 

“è figlia di un medico?” domandò ancora Jeremy con aria interessata. “Come me.” aggiunse poi, incuriosito dalla coincidenza: sapeva che Hazel frequentava medicina all’università, ma lei non le aveva mai raccontato nulla sul padre.

 

Demetria annuì.

 

“Oliver Shawn, era oncologo. E anche una persona deliziosa,a dirla tutta.” specificò. “C’è stato addirittura un periodo in cui mi ha aiutato a vedermela con questo vecchio brontolone qui, quando dovevo fargli la puntura.” aggiunse, accennando a Howie con il capo. Il marito grugnì, senza distogliere lo sguardo dal giornale.

 

“Non me lo ricordare.” borbottò poi. Jeremy sorrise, prima di tornare a rivolgersi a Demetria.

 

“Hai detto ‘era’?” domandò, disorientato dall’uso di quel verbo al passato.

 

La donna annuì.

 

“è venuto a mancare due anni fa.” gli spiegò con delicatezza, scoccando poi una seconda occhiata esitante a Howie. “Ti sarebbe piaciuto Jeremy, era una così brava persona!”

 

Jeremy esitò, distogliendo lo sguardo dalla donna.

Erano ormai trascorse tre settimane dal pomeriggio in cui lui e Hazel si erano rivolti per la prima volta la parola. L’aveva incontrata più volte, da allora, talvolta al parco, talvolta bighellonando nel cortile della sua università.

Avevano chiacchierato molto, eppure lui non le aveva mai chiesto nulla sulla sua famiglia. Non sapeva che anche Hazel avesse perso il padre.

 

Nel ripensarci, Jeremy si rese conto che c’erano ancora tante cose di lei, che ancora gli sfuggivano. C’erano dei momenti in cui si trovava a domandarsi se l’avesse seriamente avvicinata o se fossero ancora incastrati nel periodo in cui si limitavano a tenersi d’occhio a distanza, sorridendosi di tanto in tanto.

Hazel sapeva molto su di lui. Se Jeremy le faceva una domanda, era in grado di eluderla; le piaceva manipolare le parole del ragazzo a suo piacimento in maniera da coinvolgerlo nell’interrogativo. E così, alla fine, non era mai lei, ma Jeremy a raccontare frammenti di se stesso.

 

A Hazel piaceva stuzzicarlo, nascondere le risposte alle sue domande, istigandolo a cercare a lungo, per poi premiarlo con un sorriso, quando si avvicinava alla soluzione.

I suoi occhi chiari lo esaminavano con interesse, ma altre volte andavano più a fondo, disorientandolo.  Spingendolo a controllarsi in continuazione, come se temesse che il suo sguardo avesse individuato in lui qualcosa fuori posto. Nel suo aspetto, nelle sue parole. Il più delle volte lei se ne accorgeva e tornava a sorridergli, con quel cipiglio divertito, ma dolce, che non aveva mai rintracciato in nessun altro volto, se non nel suo.

 

E gli piaceva per questo. Gli piaceva, perché sentiva di non avere scampo con lei, mentre Hazel, al contrario, non faceva altro che sfuggirgli.

Gli piaceva, perché per la prima volta dopo tempo, sentiva di avere la possibilità di poter rincorrere qualcosa, senza dover per forza essere relegato in panchina.

 

Voleva eliminarle ogni via di fuga, coglierla in un momento di consapevolezza e farle ammettere che era attratta da lui, nello stesso modo in cui Jeremy lo era da lei.

 

 

Perché lei lo chiamava di rado per nome, ma quando lo faceva, il suo sguardo cambiava; e i suoi occhi sorridevano. 

 

Perché teneva il ritratto che le aveva fatto in uno dei suoi libri, e lo utilizzava per tenere il segno.

 

Perché l’aveva colpita; Jeremy lo sapeva e basta.

 

“Il padre di Hazel era un’artista, vero?” domandò in quel momento, tornando a rivolgersi a Demetria.

 

I due coniugi annuirono all’unisono.

 

“Dipingeva.” grugnì Howie, chiudendo il giornale, e appoggiandoselo sulle ginocchia per piegarlo.

 

“Il dottor Oliver era un grandissimo appassionato d’arte.” spiegò ancora Demetria, sistemandosi il golfino sulle spalle.

 

In quel momento, un rumore sordo, li sorprese, spingendoli a voltarsi in direzione dell’ingresso.

 

“Che sta succedendo sul pianerottolo?” domandò confusa la donna. Jeremy si decise finalmente a sollevarsi dal divano.

 

“Vado a vedere.” dichiarò, raggiungendo la porta dell’appartamento. Fece appena in tempo ad aprirla, che si ritrovò ad arretrare, per via di qualcosa che gli colpì le gambe.

 

“Fermo!”

 

L’inconfondibile voce di Alexander si mescolò ai suoi passetti affrettati, suggerendo a Jeremy che il ragazzino stava salendo le scale.

 

“Torna qui, torna qui!”

 

Jeremy sgranò gli occhi, inginocchiandosi sul pianerottolo; un sorriso divertito prese ad arricciare gli angoli delle sue labbra: c’era un cane di fronte a lui.

 

La creatura scodinzolò con aria soddisfatta, e si avventò di nuovo sul ragazzo, appoggiandogli le zampe sulle cosce.

 

“Torna qui, cagnolino!” strillò Xander, raggiungendo finalmente il pianerottolo. Il bimbo si appoggiò le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.

 

“Cagnolino?” osservò a quel punto Jeremy, inclinando appena il capo.

Gli veniva da ridere: l’animale, che aveva preso a leccargli le mani con entusiasmo, avrebbe tranquillamente superato – e di molto - Xander in altezza, se sollevato sulle due zampe posteriori.

 

“Forse volevi dire cagnolone!” obiettò, accarezzando con tenerezza il muso della creatura: non aveva mai avuto un cane. Quando era piccolo, si era incapricciato con l’idea di prenderne uno, ma i suoi genitori non si erano mai convinti ad accontentarlo, ritenendo che fosse troppo giovane per potersene occupare.

 

L’idea di un cucciolo era una di quelle cose che non era riuscito a togliersi dalla testa nemmeno una volta cresciuto. E in quel momento, tendendo la mano per provare a raccogliere la zampa dell’animale, sorrise, pensando che non gli sarebbe affatto dispiaciuto condividere la stanza con lui. Gli piaceva immaginare di avere qualcuno sempre accanto, specialmente la notte, o nei momenti in cui rimaneva solo. Qualcuno che dipendesse totalmente di lui, che si fidasse e che chiedesse solo di essere coccolato e accudito. Qualcuno che non avrebbe avuto problemi a ritenerlo abbastanza maturo, da potersi affidare a lui.

 

“L’ho trovato nel parco, sai?” domandò in quel momento Alexander inginocchiandosi, per poter accarezzare il cane. “Secondo me non ce l’ha mica il padrone. E poi tremava tutto!”

 

Solo in quel momento, Jeremy notò che il bambino era bagnato dalla testa ai piedi: Xander doveva essere sfuggito per l’ennesima volta alla sorveglianza della sua baby-sitter, sgusciando fuori dall’appartamento.

 

“Può restare a vivere nella mia piramide!” continuò il bambino. Rise, quando il cane approfittò della sua vicinanza per leccargli affettuosamente il mento. “Già sto costruendo le parti… Le facce!” si corresse poi subito, tornando ad accarezzare l’animale.

 

Qualche piano più in basso, una porta si aprì, e dei passi affrettati echeggiarono nella loro direzione.

 

Xander trasalì.

 

“Nascondimi, nascondimi!” sussurrò a quel punto, rannicchiandosi dietro le spalle del ragazzo. Jeremy sorrise sotto i baffi, riconoscendo sulle scale, la baby-sitter del bambino.

 

Quando la donna individuò il cane sul pianerottolo, spalancò la bocca inorridita.

 

 “Oh, Dio!” mormorò, reggendosi alla ringhiera.

 

Ops!” mormorò in quel momento Xander, esibendo un sorrisetto birichino. Jeremy fece il possibile per trattenersi dallo scoppiare a ridere; in quel momento, il cane gli diede un colpetto sul ginocchio con il muso, cercando di attirare la sua attenzione.

 

“Alexander Davies!” strillò a quel punto la donna, riconoscendo nell’ammasso di fango e pioggia rintanato dietro le spalle di Jeremy, il piccolo figlio dei Davies. Gli puntò un dito contro, stizzita, mentre il piccolo ridacchiava convulsamente.

 

“Ho trovato un cagnolino nel parco!” cinguettò poi, spuntando fuori da dietro al ragazzo. Incominciò a scorrazzare per le scale, tenendo le braccia distese.. “Lo possiamo tenere? Dai, lo possiamo tenere?”

 

Quando la donna incominciò a urlare più forte, anche Demetria uscì sul pianerottolo, incuriosita da tutto quel rumore. Rise quanto Jeremy, nel riconoscere Alexander che scorrazzava ridendo da un piano all’altro del palazzo, mentre la povera governante cercava di stargli dietro come poteva.

 

“E quello?” domandò poi basita, spostando la sua attenzione verso il ragazzo e il cane. Jeremy scoccò un’occhiata colpevole all’animale e arrossì.

 

“Un regalino che Xander si è portato dietro dal parco.” spiegò, sorridendo con aria trionfante, quando riuscì finalmente a farsi dare la zampa dal cane.

 

Ma che bravo!” mormorò con un sorriso, grattandogli il capo dietro le orecchie. “Bravo cucciolone!”

 

Demetria li osservò, con aria intenerita.

 

“Gli stai simpatico!” esclamò a un certo punto Xander, raggiungendoli dalle scale. Si buttò sul pavimento e gattonò fino a raggiungere il cane, sdraiandosi poi al suo fianco. “Magari lo puoi tenere tu, mentre io finisco di costruire la mia piramide!” propose, appoggiando le mani sul manto peloso dell’animale.

 

Jeremy continuò ad accarezzare il muso del cane, evitando di incrociare lo sguardo di Demetria; l’appartamento dei Goldman era piuttosto grande, ma non si sarebbe mai osato a chiedere ai due coniugi una cosa simile; soprattutto tenendo conto di quanto fosse grosso l’animale. E non era poi da escludere il fatto che Xander potesse essersi appropriato del cane di qualcun altro, vista la sua esuberanza. 

 

Non ottenendo risposta da lui, il bambino si voltò verso Demetria, rivolgendole un’occhiata interrogativa. Quando la donna anziana scoppiò a ridere, Alexander esultò, prendendolo come un sì.

 

In quel momento la baby-sitter,  -che dopo averlo rincorso per tre piani di edificio si era finalmente decisa a prendere l’ascensore -  lo colse di sorpresa, afferrandolo per il polso.

 

“Lasciami!” esclamò il bambino fra le risa, cercando di divincolarsi. La donna non allentò la presa.

 

“Fila a farti il bagno, piccolo demonio!” borbottò a denti stretti, guidandolo verso il piano inferiore.

 

“Lo chiamiamo Tuntancamon?” fu l’ultima cosa che Jeremy sentì dirgli, prima di osservarlo scomparire attraverso le fenditure della ringhiera.

In quel momento, il cane scattò a sedere di scatto, riprendendo a scodinzolare. Demetria sorrise, posando con delicatezza una mano sul capo dell’animale.

“Pare che Tutankhamon gli piaccia.” commentò.

Jeremy sollevò lo sguardo per incrociare quello di Demetria, e la donna gli strizzò l’occhio con aria complice.

“Ho sempre desiderato avere un cane.” aggiunse, aprendo la porta del loro appartamento per permettere all’animale di entrare.

Jeremy rimase immobile sulla soglia, un’espressione incredula ad illuminare i lineamenti del suo volto: non riuscì nemmeno a dire ‘grazie’.

Demetria sorrise, appoggiandogli con tenerezza una mano sulla spalla.

***

"Un giorno ho visto il sole tramontare quarantatrè volte!"

E più tardi hai soggiunto: "Sai... quando si è molto tristi si amano i tramonti..."

"Il giorno delle quarantatrè volte eri tanto triste?" Ma il piccolo principe non rispose.

da il Piccolo Principe.

 

Non fu difficile, per Jeremy, abituarsi alla presenza di Tutankhamon. Meno di una settimana dopo il suo arrivo nell’appartamento dei vecchi Goldman, aveva già imparato a considerare tutte le esigenze del cane come elementi di routine. Sapeva in quali momenti della giornata ci fosse bisogno di portarlo fuori, o quanto dovesse dargli da mangiare ad ogni pasto. Prima di arrivare a convincersi che il cane potesse essere considerato suo, lui e Demetria avevano fatto il possibile per cercare di scoprire se  non avesse già dei padroni, telefonando ai canili e a diversi veterinari nella zona, e tenendo d’occhio annunci e bacheche dalle parti del parco.

Jeremy si era affezionato in fretta al suo nuovo compagno di stanza; accadeva più raramente che finisse per sentirsi solo, perché Tutankhamon aveva preso l’abitudine di seguirlo ovunque, sia nell’appartamento che fuori, quando decideva di far visita al parco. E la notte, era un sollievo per Jeremy svegliarsi all’improvviso e riconoscere al buio il respiro regolare dell’animale accucciato sul pavimento.

Tuttavia, c’era ancora qualcosa che non tornava in lui.

Ci ripensò una sera, mentre accoccolato sui gradini del suo palazzo, osservava il cielo tingersi di rosa attraverso le porte in vetro. Tutankhamon era accucciato al suo fianco, gli occhi socchiusi, visibilmente soddisfatto della mano del padrone appoggiata sul suo collo.

Jeremy gli sorrise, tornando poi a volgere lo sguardo verso le porte; il suo sguardo era velato da un alone di malinconia che di rado si era potuto scorgere tra i suoi occhi nel corso dell’ultimo periodo.

Ma da quando quell’incubo l’aveva sorpreso nel cuore della notte, Jeremy aveva ripreso ad arrancare; svegliandosi dal sogno, aveva riaperto gli occhi rassegnato. Rassegnato e disilluso.

Per giorni aveva preso a domandarsi che cosa gli facesse credere che le cose avrebbero potuto finalmente sistemarsi, per lui. Casa sua era Mystic Falls. Sua sorella - la sua famiglia- viveva ancora lì.

A Denver era riuscito a scrollarsi via un po’ di detriti appartenenti alla sua adolescenza crollata, sfidando i terremoti e le correnti d’aria che ancora cercavano di ributtarlo a terra. Si era rimesso in piedi sulle macerie, in equilibrio precario, e aveva incominciato a ricostruire qualcosa di nuovo; un pavimento. Una base.

Eppure, un quadrato di pietra, per quanto fosse solido, non era sufficiente per metterlo al riparo dalle percosse del vento, dai detriti che ancora lo circondavano, dalle schegge di pensieri tormentati che continuavano a ferirlo, agitate dai sensi di colpa e dagli incubi.

Aveva creduto di essere finalmente al sicuro, ma si sbagliava; fisicamente era forse a casa, me dentro di sé era ancora intrappolato nella tormenta.

“Che cosa stai facendo?”

L’esclamazione vivace di Alexander, riuscì a scalfire appena l’espressione malinconica incisa sul suo volto. Accennò a un sorriso, osservandolo fiondarsi sull’ultima rampa di scale per poi allargare le braccia, gettandosi su Tutankhamon.

“Ciao, Khamon! Ciao ciao ciao, Khamon!” annunciò ad alta voce, prima di affondare il volto nel pelo dell’animale. “Oh, quanto sei morbido!” constatò.

Il cane gli diede un colpetto affettuoso con il muso e tornò a socchiudere gli occhi, appoggiando il capo sulla gamba di Jeremy.

“Ma che hai? Sei triste?” domandò a quel punto Xander, rivolgendosi al ragazzo. Incrociò le braccia sul petto e prese a osservarlo con aria contrariata.

Jeremy gli rivolse un’occhiata sorpresa, prima di scuotere il capo, appoggiando la schiena al muro.

“Nah, stavo solo pensando.” lo tranquillizzò, tornando ad osservare fuori; il cielo stava ormai iniziando ad annerirsi. “Non dovresti essere a casa, tu?” domandò a quel punto accennando a un sorrisetto divertito. “Mi sa che è quasi ora di andare a letto.”

Xander scosse energicamente il capo, battendosi poi i pugni sulle ginocchia con aria cocciuta.

“Macché! Mica sono un poppante, io!” si lamentò prima di balzare in piedi. Scavalcò a piedi uniti gli ultimi due gradini della scala e atterrò a terra con un tonfo. “E poi dovevo salutare Tuntankamon!” aggiunse, tornando a coccolare l’animale. “A cosa stai pensando?” aggiunse poi, spingendogli le gambe contro il muro, per cercare di farsi spazio fra il cane e il ragazzo.

“Stavi pensando a Hazel?” aggiunse poi ancora, mettendosi a gambe incrociate sul gradino.

“Perché sei triste?” continuò imperterrito, senza lasciare il tempo a Jeremy di rispondere alle prime due domande. Il giovane sbuffò, appoggiandosi gli avambracci sulle ginocchia, mentre lo sguardo deciso del bambino lo interrogava con insistenza.

“Ti ho detto che non lo sono.” gli ricordò. Xander fece una smorfia, per nulla convinto.

“Sei triste, perché ti manca casa tua?” continuò infatti poco dopo, analizzandolo con aria seria. “Sei triste per quello?”

Jeremy sospirò, troppo svogliato per cercare di respingere le domande del bambino.

“Forse.” gli concesse infine, allungando le gambe sul gradino inferiore. Sospirò di nuovo, arrendendosi all’affollarsi di pensieri scomodi che andò a crearsi nella sua testa. “Non è la mia casa che mi manca.” decise di ammettere infine, tornando ad appoggiare la schiena al muro. “Mi mancano alcune persone. Ma sono persone che non rivedrò mai più.”

Xander arricciò il naso con aria pensierosa.

“A me manca il mio robot d’acciaio.” Spiegò infine con aria seria, riprendendo ad accarezzare il collo di Tutankhamon.  “L’ho dimenticato al parco un giorno e quando ci sono tornato poi, non l’ho trovato più.”

“E non è triste, pensare che non lo rivedrai di nuovo?” cercò di spiegargli Jeremy, tendendo anche lui la mano per accarezzare il cane. Xander si coprì pensieroso la bocca con le mani.

 “Sì, forse allora mi sento un po’ triste anch’io.” commentò infine , appoggiando il mento sui palmi, e aggrottando le sopracciglia. La sua espressione, tuttavia, tornò a a farsi vivace quasi subito.

Ma magari poi torna, no?” esclamò a quel punto, balzando in piedi di scatto. “La strada che va fino al parco è facile; se proprio non è tonto, il mio robot ci riesce a tornare a casa!” obiettò.  “Speriamo, perché mi manca!” aggiunse, picchiettando con forza il palmo della mano sul ginocchio di Jeremy.

Il ragazzo si mise a ridere. La malinconia di quella sera, sembrò mitigarsi leggermente, in seguito alle parole ingenue del suo piccolo amico. Nel sentire la sua risata, Xander si illuminò.

“Ti manca anche Hazel?” domandò a quel punto, rivolgendogli un’occhiata furbetta. “La vuoi vedere, vero?” Jeremy sorrise di nuovo.

“Sei un po’ troppo furbo per l’età che hai.” commentò con un guizzo divertito nello sguardo.

“Sì, lo so!” annunciò fiero il ragazzino, risalendo a piedi uniti i primi tre gradini. “Mica sono tonto come te!” aggiunse poi, tornando indietro con un balzo.

Ehy!” lo ammonì il ragazzo con aria offesa, mentre il bambino ridacchiava di gusto.

“Se ti dico dove è Hazel, la vai a trovare?” domandò in quel momento Xander, rivolgendogli un sorriso sornione. Jeremy aggrottò le sopracciglia.

“E perché dovrei?” domandò, non riuscendo tuttavia a trattenere un sorrisetto.

Xander si arrampicò sulle sue ginocchia e gli batté una mano sulla fronte.

“Perché se la vai a trovare, poi sei felice e sorridi, no?” spiegò con aria spazientita. “Te l’ho detto che mi stai più simpatico quando sorridi e non mi chiami Tuntancamon!” aggiunse, serio.

Nel sentirsi chiamare per nome, il cane mosse appena le orecchie e puntò il suo sguardo contro Xander, prima di tornare ad accoccolare il muso sul gradino.

Jeremy sospirò, riprendendo poi ad osservare il bambino con aria divertita.

“Dai, dimmi tutto.” gli concesse infine, dandogli un colpetto sulla gamba. Xander, ancora in bilico sulle sue ginocchia, sorrise entusiasta.

“Ci ho parlato prima prima mentre tornava a casa dal parco.” spiegò con aria incredibilmente solenne, prima di annuire vigorosamente. “Le ho chiesto se voleva venire a trovarti, ma ha detto che doveva vedere la sua amica Stacey questa sera. Di fronte a casa sua! Alle nove! So proprio tutto, eh?” aggiunse , esibendo un sorrisetto orgoglioso.

Jeremy scosse il capo, sghignazzando divertito.

“Fammi capire, tu mi vorresti far sabotare l’appuntamento tra Hazel e la sua amica?”  chiese.

Xander inclinò appena il capo e aggrottò le sopracciglia.

“Che vuol dire sabotare?” domandò con aria confusa.

Jeremy non gli rispose; con lo sguardo era già corso a controllare che ora fosse.

“Xander, ma lo sai che quasi quasi lo faccio?” si sorprese ad esclamare in quel momento.

Si sentiva sveglio, tutto d’un tratto; come se avesse appena scosso via un sogno durato troppo a lungo. Era sveglio e intenzionato a muoversi. La malinconia, i pensieri scomodi, il dolore di quegli ultimi giorni, tutto sfumò in secondo piano.

“In fondo, peggio di così non può andare, no?” obiettò. “ A questo punto tanto vale umiliarsi per bene e rischiare… Ho ragione, Tutankhamon?”

 “Sì, ma che vuol dire sabotare?”

Xander si impuntò su quella domanda, sempre più confuso.

Ma Jeremy non lo stava già più ascoltando. Mentalmente, aveva già preso a tracciare il tragitto che separava il suo palazzo da quello di Hazel, e stava osservando nuovamente l’orologio, con sguardo ravvivato: erano le nove meno dieci. Se faceva un salto a recuperare le chiavi in quel momento, forse avrebbe raggiunto il palazzo adiacente in tempo, per scorgere Hazel prima dell’arrivo della sua amica.

“Bada tu a Khamon, e quando sali portalo nel mio appartamento.” si raccomandò a quel punto, sollevando il ragazzino per depositarlo a terra. Con un sorriso appena accennato e lo sguardo insolitamente vivo, Jeremy si chinò per dare un buffetto al cane e si precipitò su per le scale.

“Va bene, ma che vuol dire sabotare??”  Gli gridò dietro Xander ancora una volta, sbattendo i piedi per terra con aria offesa. “Non lo sai nemmeno tu, vero??”  

Quando infine capì di essere rimasto solo in compagnia del cane, sbuffò, portandosi imbronciato le braccia al petto.

 “Certo che ci siamo trovati proprio un amico tonto, Tuntancamon.” borbottò a quel punto, prima di prendere a risalire le scale, con l’animale al fianco. “Non sa nemmeno che cosa vogliono dire le parole che dice lui!”

 

Nota dell’autrice.

Anzitutto, ho scritto una piccolissima Jeremy/Hazel ambientata a qualche *uh* circa a nove anni di distanza da Pyramid – sì, lei lo chiama ancora ragazzino *W* - La trovate QUI.

 

Ora, polpettone time!

Dunque, indovinate un po’? Ho diviso il capitolo *|||||* Eh, sì. Ma non è colpa mia se finisco per dilungarmiiii D: *cerca scuse*. In realtà ho sempre saputo che avendo deciso di riassumere tutta la parentesi di Jeremy a Denver in pochi capitoli,avrei probabilmente finito per scrivere delle robe chilometriche e detesto ammassare le cose che succedono, perché poi il capitolo diventa noioso, a voi cascano le braccia e non si capisce più niente. Perciò, ecco che ho deciso di dividere in due parti il secondo capitolo.

In questa prima parte vediamo Jeremy alle prese con una sorta di ‘ricaduta’ riportata dall’incubo che ha a inizio capitolo. Cose che si agitavano dentro di lui da un pochetto e che era riuscito a mettere momentaneamente da parte perché era impegnato a cercare di ambientarsi nella nuova città, tornano a galla. Nella mia testa, la scena iniziale dell’incubo (Jeremy,la bomboletta spray,zia Jenna) è il modo in cui ho scelto di immaginare il momento in cui apprende della morte dei suoi genitori. E quindi, nell’incubo, si mescolano fatti reali e cose dettate dal suo inconscio.

Passando a un momento un po’ più allegro, abbiamo la conversazione tra Jer e i Goldman, seguita dall’arrivo del cagnetto (<3) Il cane è un altro dei motivi per cui questo capitolo ha deciso di voler raggiungere dimensioni epiche, ma andiamo per ordine.

 Intanto scopriamo finalmente a che cosa deve il suo nome anche il secondogenito di Jeremy e Hazel (lo dico per chi segue anche History Repeating). Di Oliver Shawn, il padre di Hazel, se ne parlerà ancora nella seconda parte del capitolo. E Oliver Grayson Gilbert (ribattezzato da me Casper *W*) porta appunto i nomi di entrambi i suoi nonni.

Poi abbiamo Tutankhamon! (il cane, non il bambino). E beh, sì, quando ho saputo che a Denver si era preso un cane ho deciso che volevo far coincidere almeno questo elemento con il Jeremy a Denver autentico, quello di TVD.

E infine, abbiamo lasciato Jeremy mentre si preparava per andare a ‘sabotare’ l’appuntamento tra Hazel e la sua amica. Xander, proprio come il Piccolo Principe, si intestardisce perché vuole conoscere il significato di quella parola sconosciuta, ma purtroppo per lui, il suo amico ‘tonto’ non gli è molto d’aiuto. Nella seconda parte del capitolo lo ritroveremo ancora, ma soprattutto, ci saranno Jeremy e Hazel;e ovviamente verrà spiegato il collegamento alle ‘facce’ della piramide che in questa prima parte è ancora assente; vedremo che succederà.

In questo capitolo, ci sono molte più citazioni che nelle prime due parti, ma trovavo che calzassero parecchio, in particolare le due successive all’incubo di Jeremy che sono tra i miei passaggi preferiti in assoluto del libro. Nel capitolo precedente, ho scritto il dialogo tra Hazel e Jeremy con le citazioni sul capitolo della volpe in mente, mentre in questo caso ho inserito i vari passaggi dopo aver scritto le varie scene e mi piace quello che è uscito fuori. Nella seconda parte ci saranno parecchi altri rimandi.

 

Niente, spero che questa prima parte vi sia piaciuta quanto è piaciuto a me a scriverla. Ci tenevo proprio tanto a postarla prima del nuovo episodio di TVD, visto che come alcuni di voi sapranno, vedremo finalmente Jeremy a Denver anche lì (in un contesto completamente diverso da questo, ovviamente XD)

 

Un abbraccio grande

 

Laura

P.S. Oh yeah, indovinate un po’? Ho dimenticato qualcosa! I riferimenti al vento, ai terremoti, alle correnti d’aria in relazione alla piramide si ispirano alla canzone da cui appunto ho tratto l’idea per questa toria, Pyramid di Charice.

 Altro P.S. Se siete curiosi di vedere i volti di Hazel, Xander e anche del nostro nuovo arrivato (Khamon) trovate tutte le foto QUI!

   
 
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